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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Libero Rassegna Stampa
17.11.2025 Netanyahu: niente Stato palestinese
Cronaca di Amedeo Ardenza

Testata: Libero
Data: 17 novembre 2025
Pagina: 11
Autore: Amedeo Ardenza
Titolo: «I due giorni cruciali per Israele e la pace»

Riprendiamo da LIBERO di oggi, 17/11/2025, a pag. 11, con il titolo "I due giorni cruciali per Israele e la pace", la cronaca di Amedeo Ardenza.

All'ONU il Consiglio di Sicurezza voterà oggi per il piano di pace di Trump, per porre fine al conflitto a Gaza. Hamas si permette ancora di dettare le condizioni: accetterebbe di gettare le armi solo se viene riconosciuto lo Stato di Palestina. Ma su questo Netanyahu è stato chiarissimo: nessuno Stato palestinese. Perché sarebbe un riconoscimento dei terroristi e un modo per dargliela vinta dopo il 7 ottobre.

Due giorni cruciali per Israele, la pace con i palestinesi e il futuro assetto del Medio Oriente. Si comincia oggi dal Consiglio di Sicurezza (Cds) delle Nazioni Unite chiamato ad approvare il piano del presidente degli Stati Uniti Donald Trump per la pace a Gaza. Il Cds dovrebbe istituire un comitato per la governance nella Striscia per due anni e permettere di dispiegare una forza internazionale di stabilizzazione che garantisca la sicurezza dei confini, protegga i civili e disarmi le milizie palestinesi e Hamas; il punto più delicato del piano di Trump. Il gruppo terrorista che ha scatenato i massacri del 7 ottobre 2023 non si è mai detto pronto a deporre le armi se non nel quadro della creazione di uno stato palestinese.
Un passaggio, quest’ultimo, contro il quale proprio ieri si è espresso di nuovo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu: «La nostra opposizione a uno Stato palestinese in qualsiasi territorio a ovest del (fiume) Giordano non è cambiata di una virgola», ha dichiarato domenica. Bibi ha spiegato che pressioni per la creazione di uno stato palestinese «arrivano dall’interno e dall’esterno ma io non ho bisogno di lezioni da nessuno sulla attesa demilitarizzazione spontanea da parte di Hamas: semplicemente non avverrà». Bibi ha poi ricordato che il piano di pace in 20 punti di Trump secondo cui Gaza sarà demilitarizzata e Hamas disarmata, «succederà con le buone o con le cattive: l’ho già detto io e lo ha già detto anche Trump». Quindi ha messo in guardia «la minoranza» dei coloni di Giudea e Samaria che attacca i palestinesi e le stesse Israeli Defense Forces (Idf), avvertendo che Israele userà «ogni mezzo» affinché le loro violenze cessino, «perché noi siamo uno stato di diritto». In buona sostanza, mentre Trump preme sulle Nazioni Unite affinché legittimino il suo piano di pace, Israele esercita pressioni sugli Stati Uniti e la comunità internazionale affinché i passaggi della risoluzione Onu relativi alla nascita di un futuro Stato palestinese siano molto annacquati. In cambio offre la testa dei coloni violenti, finora tollerati dai ministri ultranazionalisti del suo governo.
Sul piano della cronaca va invece registrato un nuovo picco di tensione tra le Idf e la missione Unifil dispiegata nel sud del Libano. A seguito delle proteste dei caschi blu secondo cui le Idf avevano aperto il fuoco contro di loro, il portavoce delle Idf ha ammesso che «dopo un'indagine, è emerso che soldati dell'Onu impegnati a pattugliare la zona erano stati classificati come sospetti a causa delle cattive condizioni meteorologiche». L’incidente è oggetto di indagine ma l’esercito ha sottolineato che «non c’è stato alcun fuoco intenzionale contro i soldati Unifil».
Non meno importante è l’appuntamento di domani, sempre negli Stati Uniti: martedì arriva alla Casa Bianca Mohammed bin Salman, principe ereditario e uomo forte dell’Arabia Saudita. Il grande regno wahabita è un attore di primo piano negli equilibri mediorientali: una possibile normalizzazione dei rapporti fra il paese custode delle due moschee più sacre all’Islam e lo stato ebraico potrebbe avere un effetto “a cascata”, spingendo tante capitali arabe e islamiche a mettere fine a 80 annidi ostilità contro Israele. È il disegno degli accordi di Abramo contro cui Hamas ha scatenato il pogrom antiebraico di due anni fa sperando in una sollevazione regionale contro i sionisti.
Se è vero che la reazione israeliana contro Hamas a Gaza ha molto raffreddato l’entusiasmo per quegli accordi, è altrettanto vero che i sauditi detestano sia il regime teocratico di Teheran sia Hamas non tanto quale forza alleata dell’Iran ma quale braccio armato dell’odiata Fratellanza musulmana.
Riad, insomma, ha molti più interessi in comune con Israele di quanto la solidarietà di facciata per i palestinesi faccia intendere. Neppure l’assenza dei sauditi e degli emiratini dal vertice di ottobre a Sharm el-Sheikh è stata casuale. Mentre Trump voleva celebrare il cessate il fuoco a Gaza e presentare al mondo il suo piano di pace in 20 punti, MbS e i suoi alleati gli contestavano il coinvolgimento nel piano di pace di Qatar e Turchia, considerati troppo vicini alla Fratellanza musulmana.
Al commander in chief il non facile compito di trovare un punto di intesa per tutti.

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