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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Il Foglio Rassegna Stampa
15.11.2025 Il tempio segreto dei tunnel
Commento di Giulio Meotti

Testata: Il Foglio
Data: 15 novembre 2025
Pagina: III
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «Il tempio segreto dei tunnel»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 15/11/2025, a pagina III, il commento di Giulio Meotti dal titolo: "Il tempio segreto dei tunnel".

Informazione Corretta
Giulio Meotti

Gaza e la rete di tunnel sotterranei di Hamas: dove sono e a cosa servono I  Sky TG24
Gli ostaggi israeliani nei tunnel di Gaza, sottoposti a fame, violenze e privazioni estreme, hanno trovato nella fede e nelle pratiche ebraiche la forza per sopravvivere. Recitando lo Shemà, i Salmi e le benedizioni dello Shabbat anche senza luce né cibo, hanno trasformato stanze buie in luoghi sacri e la memoria rituale in un’ancora di vita. Le loro testimonianze mostrano come, nel cuore dell’orrore, l’identità ebraica sia rimasta accesa come una brace che nessuna tortura è riuscita a spegnere

Ogni giorno, nei tunnel di Gaza a quaranta metri nel sottosuolo, dove la luce è un ricordo e che per due anni hanno avvolto il passo degli uomini e delle donne israeliani ridotti a ostaggi da Hamas, Omer Shem Tov recitava i versetti del Salmo venti: “Il Signore ti risponda nel giorno dell’angoscia”.

Shem Tov aveva vent’anni quando i terroristi palestinesi lo hanno preso durante l’attacco del 7 ottobre 2023 nel sud di Israele. Era cresciuto in una famiglia laica. Dopo pochi giorni di prigionia, Shem Tov ha iniziato a benedire qualsiasi cibo gli venisse dato dai terroristi e in quel momento il tunnel diventò un tempio. “La fede mi ha spinto ad andare avanti”, ha raccontato al New York Times. E’ stato rilasciato a fine febbraio nell’ambito di un accordo di cessate il fuoco temporaneo dopo 505 giorni a Gaza.

Dentro i tunnel di Gaza, dove il respiro stesso poteva tradire, tra pareti umide di prigionie senza tempo, si è consumata una battaglia spirituale fra i terroristi di Hamas e gli ostaggi, uomini e donne diventati custodi di qualcosa che nessuna catena poteva piegare.

Li hanno portati via con la forza, li hanno relegati in ambienti senza orizzonte, domati con la violenza, la tortura e la fame. Ma anche quando la violenza lacerava il corpo e la fame scavava le ossa e la volontà, loro pregavano. In silenzio. In segreto.

Custodivano l’identità ebraica che Hamas vuole distruggere in una profondità che pareva isolare il corpo dal mondo. Uno di loro recitava lo Shemà Yisrael, la dichiarazione dell’unico Dio: “Ascolta, Israele: il Signore è nostro Dio, il Signore è Uno”. Quel suono diventava un’eco nei muri del tunnel. Ogni festa che la tradizione ebraica stabiliva – Pesach, Shavuot, Kippur – diventava una sfida all’oblio del terrorismo. E nei tunnel montavano altari d’ombra.

Una stanza angusta diventa Bet HaKnesset, un fazzoletto su una cassa diventa un talith. Con briciole di pane, raccolte nella fame condivisa, ricordavano l’uscita dall’Egitto. E per Kippur, il digiuno non era una scelta ma una condizione, eppure lo abbracciavano. E così, mentre l’occidente scivola nella secolarizzazione fluida, dove la fede è abito da festa, loro resistevano. In un appartamento fatiscente nel cuore di Gaza, un giovane ebreo è seduto sul pavimento polveroso. Si mette un pezzo di carta igienica sulla testa come una kippah improvvisata e sussurra la benedizione che recita al tavolo dello Shabbat in famiglia fin dall’infanzia.

Molti ostaggi rilasciati hanno raccontato esperienze simili a quella di Shem Tov, trovando conforto e la forza di sopravvivere nel contatto o nel riconnettersi con rituali ebraici spesso dimenticati. Tra questi ostaggi c’è Eli Sharabi, che è emerso emaciato dopo 491 giorni di prigionia per scoprire che sua moglie e le sue due figlie adolescenti erano state uccise nell’attacco del 7 ottobre 2023. Racconta di aver recitato lo Shemà, la preghiera ebraica più importante, ogni giorno nel buio del tunnel che condivideva con altri ostaggi e di aver provato ogni vigilia di Shabbat a recitare il Kiddush, la benedizione sul vino, sebbene avessero solo acqua.

Una settimana dopo la cattura, Shem Tov ha deciso di attenersi il più possibile alla dieta kosher, mangiando formaggio o carne in scatola quando venivano offerti entrambi, in linea con le leggi alimentari ebraiche che proibiscono di mescolare carne e latticini. Promise a Dio che, se fosse tornato a casa, avrebbe pregato ogni giorno con i tefillin, le piccole scatole di cuoio contenenti le Scritture che i fedeli si legano alla testa e al braccio sinistro per le preghiere del mattino. Ogni giorno, da uomo libero, Shem Tov oggi continua le stesse preghiere.

Le parole rimbalzarono sulle pareti dei tunnel, come una promessa che non conosceva confini. Daniella Gilboa racconterà che lei e quattro delle sue compagne di prigionia avevano imparato a recitare un canto tradizionale dello Shabbat in arabo, per paura di dirlo in ebraico.

Anche Agam Berger ha raccontato la stessa esperienza. Viene da una famiglia masorti, termine israeliano per coloro che sono religiosi ma non ortodossi nella pratica. “Mentre venivo rapita, ho recitato, ininterrottamente, lo stesso versetto che gli ebrei sulla soglia della morte recitano da millenni: Shemà Yisrael, ‘ascolta, Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è uno solo’”.

Hamas ha cercato di costringerla a convertirsi all’islam, imponendole l’hijab. Agam ha scelto di osservare ogni digiuno ebraico possibile in quel tempio spirituale edificato nel cuore stesso dell’inferno.

I rapitori hanno trovato testi religiosi tra giornali e mappe lasciate sul campo dai soldati israeliani e glieli li hanno portati, cercando di imparare l’ebraico. Abbandonarono un siddur, un libro di preghiere ebraico, per il quale Agam creò una custodia nei pantaloni logori. Ha scelto di non accendere il fuoco durante lo Shabbat per cucinare per i suoi aguzzini. Ha festeggiato Pesach segregata in una piccola stanza senza luce. Ha pulito la stanza e adornato la tavola con tovaglioli e altre piccole “decorazioni” fatte con ritagli di carta.

La Bibbia racconta di Daniele, che si trovò alla corte di Nabucodonosor II, re di Babilonia. Daniele si rifiutò di “contaminarsi” con il cibo proibito dal re e chiese di potersi nutrire di semi. Giuseppe Flavio ci informa dei sacerdoti portati a Roma durante il regno di Nerone. Lì, in quella città pagana, gli ebrei che avrebbero dovuto officiare il tempio “non erano indifferenti alla pietà verso Dio, nemmeno nelle loro afflizioni, ma si sostentavano con fichi e noci”. La situazione dei sacerdoti suscitò compassione nella più improbabile dei Romani, la moglie di Nerone, l’imperatrice Poppea, che contribuì a garantire la loro liberazione.

Sono stati fatti molti paragoni tra l’Olocausto e il 7 ottobre, soprattutto quando gli ostaggi tornano a casa, alcuni emaciati e con gli occhi infossati, simili ai sopravvissuti di quella precedente atrocità. Le storie di osservanza ebraica clandestina nei tunnel di Gaza, simili a quelle dei campi di concentramento nazisti, aggiungono un ulteriore tassello a questo parallelismo.

Mentre un elicottero delle Forze di difesa israeliane la riportava a casa, Berger teneva una lavagna su cui aveva scritto in ebraico: “Ho scelto il cammino della fede e sul cammino della fede sono tornata”.

L’ostaggio Matan Zangauker ha raccontato di aver trovato un libro dei Salmi consumato sottoterra e di aver pregato quotidianamente. In un luogo con poca aria e quasi nessuna luce diurna, il ritmo costante di quei versi è diventato una routine, poi un punto di riferimento, poi un conforto.

Ferito e torturato, il ventenne Matan Angrest fu trascinato a Gaza, unico sopravvissuto del suo equipaggio dopo l’attacco di Hamas. Matan ricorda: “Ho chiesto i tefillin, un libro di preghiere e un Tanakh e, in qualche modo, me li hanno portati. Da quel giorno in poi, ho pregato tre volte al giorno: mattina, pomeriggio e sera. Mi ha dato forza. Mi ha protetto”. Matan raccontò che Gali Berman aveva un rotolo della Torah e che i due avevano letto ripetutamente tutti e cinque i libri della Torah. “Conosco ogni parashà della Torah a memoria”.

La famiglia di Rom Braslavski ha raccontato che la preghiera lo ha sostenuto quando cibo e sonno non lo hanno fatto, un’ancora di salvezza a cui si è aggrappato nelle settimane peggiori, mentre Hamas lo torturava, anche sessualmente. I rapitori hanno ripetutamente cercato di costringere Braslavski a convertirsi all’islam, a cui lui si è opposto. “Continuavano a ripetermi: ‘siamo musulmani’, ‘siamo arabi’, ‘siamo la vera religione’, ‘siamo Maometto’. L’unica cosa che mi dava forza era sapere che tutti quelli intorno a me non erano ebrei e che il motivo per cui ero lì era semplicemente perché sono ebreo”.

Bar Kupershtein era un giovane rapito durante l’attacco al Nova Festival. Ha dichiarato che la sua fede è stata fondamentale per sopravvivere: “Pregavo in silenzio, nel cuore, nell’anima” quando all’inizio non poteva fare rumore. Quando i suoi carcerieri musulmani pregavano, questo lo motivava: “Se loro pregano, devo pregare ancora di più, loro per la morte, io per la vita”.

Alla liberazione, Kupershtein avrebbe incontrato il ministro della Difesa per consegnargli un braccialetto con la scritta, in ebraico, “sempre nelle mani del Creatore”. Kupershtein racconterà che ciò che gli ha dato più forza a Gaza è stata una canzone scritta due secoli fa dal rabbino Nachman di Breslov. Il testo dice che Dio si trova anche nei luoghi più bui.

Eitan Horn del kibbutz Nir Oz ha digiunato per la prima volta in vita sua durante Kippur mentre era nei tunnel di Gaza. Sasha Troufanov, un ingegnere che lavorava presso una filiale di Amazon, si è ritrovato prigioniero sul retro della motocicletta di un terrorista diretto a Gaza. Gli avevano sparato a entrambi i piedi. La prima domenica mattina della sua libertà, Sasha indossò i tefillin con l’aiuto del rabbino Berel Lazar, rabbino capo di Russia. Era la prima volta che Sasha li indossava. Keith Siegel, un residente di Kfar Aza cresciuto nella Carolina del Nord, ha trascorso 484 giorni a Gaza. E’ stato costretto ad assistere alla tortura di un altro ostaggio. E’ stato preso a calci, gli hanno sputato addosso e lo hanno abusato psicologicamente. Costantemente affamato, Siegel ha perso trenta chili. Trovava forza nelle poche preghiere che riusciva a ricordare. Prima di mangiare la pita ammuffita o bruciata che gli veniva data ogni giorno, recitava l’unica benedizione che conosceva: l’Hamotzi. Quando, dalla prigionia, vide un conduttore televisivo israeliano recitare in diretta un’altra benedizione, Borei Minei Mezonot, la fece sua, recitandola prima di mangiare qualsiasi altro cibo gli venisse offerto. Finalmente rilasciato il 1 febbraio 2025, sua figlia Shir gli chiese quale piatto speciale avrebbe gradito per il pasto dello shabbat. Con sua sorpresa, Siegel rispose: “Quello che desidero di più è una kippah e una coppa per il kiddush”. La memoria è un tempio che non può essere distrutto. Racconterà Sharabi: “Ci svegliavamo, recitavamo Birchot Hashachar (le benedizioni recitate ogni mattina)”. Per tutta la settimana, riservavano una porzione della loro misera pita quotidiana per lo shabbat. Il venerdì sera, Eli recitava pensando a sua moglie, sua madre e le sue sorelle, che non sapeva ancora che erano state tutte uccise, e il kiddush sull’acqua e l’hamotzi sulla pita.

I tunnel non hanno finestre, né vento, né cielo. Solo aria viziata, acqua stagnante, silenzio che pesa come ferro. E’ lì che hanno vissuto, o meglio che sono sopravvissuti, gli ostaggi. Lontani da tutto, dimenticati da quasi tutti. Eppure, in quell’abisso, è successo qualcosa che il mondo di sopra non può comprendere: la fede ebraica non è morta. Si è accesa, come brace coperta, ma non si è spenta. E quando arrivava il venerdì, in silenzio, chiudevano gli occhi e mormoravano la benedizione delle candele, senza candela, senza tavola, senza luce. Le labbra secche si muovevano nel buio e il buio diventava meno ostile per quelle voci che si levavano nel silenzio forzato.

Un popolo, che ha conosciuto la notte ma che non si è arreso alla notte di Auschwitz, torna alla sua terra da ogni parte del mondo dopo tanti secoli; uno stato rinasce; sopravvive a un nemico dopo l’altro; resiste, anche negli inferi dei corpi ridotti a ossa e quando il mondo intorno sembra scomparire. C’è chi lo definirebbe un miracolo.

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