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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Il Riformista Rassegna Stampa
13.11.2025 A dieci anni dal Bataclan, Lombardi (Cattolica) «Turning point, come Torri gemelle e 7 ottobre»
Intervista di Antonio Picasso a Marco Lombardi

Testata: Il Riformista
Data: 13 novembre 2025
Pagina: 4
Autore: Antonio Picasso
Titolo: «A dieci anni dal Bataclan, Lombardi (Cattolica) «Turning point, come Torri gemelle e 7 ottobre»»

Riprendiamo dal RIFORMISTA di oggi 13/11/2025, a pagina 4, l'intervista di Antonio Picasso ad Marco Lombardi dal titolo "A dieci anni dal Bataclan, Lombardi (Cattolica) «Turning point, come Torri gemelle e 7 ottobre»".


Antonio Picasso

LOMBARDI MARCO - Docente Università Cattolica del Sacro Cuore
Marco Lombardi, è professore ordinario di Sociologia all’Università Cattolica di Milano e coordinatore ITSTIME (Italian Team for Security Terroristic Issues & Managing Emergencies). Per Lombardi: "Dieci anni dopo il Bataclan il jihadismo ha cambiato volto, ma non ha smesso di farci guerra”

Dieci anni fa gli attentati di Parigi, che provocarono 130 morti e oltre 400 feriti, hanno gettano l’Europa nell’incubo del terrorismo islamico. Abbiamo parlato di questa chiave di volta della nostra storia con Marco Lombardi, professore di Sociologia all’Università Cattolica di Milano e coordinatore ITSTIME (Italian Team for Security Terroristic Issues & Managing Emergencies), centro di ricerca dello stesso ateneo che, da 15 anni, studia il fenomeno del terrorismo.

Professore, cos’è cambiato da allora?
«L’attentato al Bataclan ha segnato l’inizio di una stagione irripetibile per l’Isis che poi si è superata. Nel 2015, eravamo nella massima espansione dello Stato islamico. Era in corso la messa a terra del piano “stay and expanding”, controllo del territorio in Medio Oriente e attacchi in altri quadranti».

Quella stagione è stata superata. Quando la curva ha iniziato a scendere?
«Nell’autunno 2017, cadute Raqqa e Mosul, è mancata la modalità organizzativa e di conseguenza le strategie di Daesh, che però ha trovato una way out nel web. La comunicazione digitale».

La comunicazione digitale è da sempre un punto di forza per l’Islam radicale.
«Il terrorismo è comunicazione. Il terrorismo è terrore. Il suo fine è provocare paura. La sua efficacia sta nella minaccia. Indipendentemente dal fatto che si manifesti il fenomeno minacciato. Ricordiamoci di Osama Bin Laden. Gli annunci che anticipavano di tre giorni i suoi proclami provocavano dissesti in Occidente. Nelle metropolitane si registrava un afflusso minore di passeggeri. Quell’attesa era già una minaccia».

Possiamo dire quindi che il jihadismo diffonde un messaggio più vasto dell’attentato in sé?
«Nei suoi vent’anni di attività, il terrorismo islamico ha acquisito una grandissima competenza comunicativa. Da noi sottostimata. Sia dopo l’11 settembre 2001, sia dopo il Bataclan».

Qual è stato il nostro errore?
«Partire da una normativa anacronistica. Le nostre leggi parlano ancora di terrorismo sovversivo contro l’ordine costituito. Ma il Jihad è uno scontro molto più profondo. Di cultura e religione. Niente a che vedere con le Br o la Raf tedesca».

Perché le leggi che definiscono il terrorismo sono importanti?
«Le scelte politiche fanno le leggi, le quali dicono alle forze sul campo cosa possono fare e cosa no. Fissano dei paletti che il terrorismo non ha. Il jihadismo ha saputo cogliere questa nostra vulnerabilità. Al tempo stesso, ha sfruttato al meglio gli strumenti che la società digitale gli ha messo a disposizione».

Ecco, parliamo dei media. Com’è nato il rapporto jihad-social?
«Il jihadismo è un pioniere nell’uso di ciò che la tecnologia mette a disposizione in quel momento. Ha sempre fatto propaganda attraverso canali aperti, ma appoggiandosi a server difficili da decriptare, oppure facendo circolare file dai nomi strampalati che trovi su grandi repository pubbliche. Trovi la ricetta della torta della nonna, che però contiene l’ultimo messaggio dell’Isis».

E sui social?
«Daesh si sposta da un social all’altro, a seconda di quale sia il più utile. Quando c’era Facebook, usava Facebook. Poi è passato a Telegram, oggi c’è TikTok. Ha usato l’intelligenza artificiale prima di noi. Da anni, al-Naba (il settimanale online dell’Isis, Ndr) ricorre agli avatar per fare brevi notiziari in più lingue».

In dieci anni siamo riusciti a mettere mano alle leggi e a colmare questo ritardo?
«Il dibattito è in corso, ma è difficile giungere a una soluzione».

In che senso?
«È necessario aver chiaro cosa sia un atto di terrorismo. Una motivazione politica di destabilizzazione di un governo europeo è terrorismo. L’attacco individuale su un treno in Inghilterra è un atto di terrorismo? Forse no, perché non ha effetti destabilizzanti ed è privo di motivazione politica. Però crea terrore».

In questi dieci anni, la società europea com’è cambiata?
«L’ideologia dell’accoglienza e del wokismo ha permesso la creazione di una società parallela, senza che noi ce ne rendessimo conto. Lo vediamo nelle banlieue francesi. Nelle strade di Londra e Birmingham, si leggono cartelli che inneggiano alla Sharia. In Belgio, Molenbeek è un consolidato centro di smistamento di qaedisti».

È lì che si sono rifugiati gli attentatori del Bataclan.
«Ben da prima. È da lì che sono partiti i jihadisti che hanno ucciso Ahmad Shah Massoud, il “leone del Panshir”. Era il 9 settembre 2001».

Possiamo dire che Inghilterra, Francia, Belgio sono ormai dei choke points del Jihad al pari del Medio Oriente e dell’Asia centrale? E se sì, come si rompe questa rete?
«Oggi la situazione è più complessa. Ai pakistani, afghani e siriani, si sono aggiunti i turchi in Germania, che fino a qualche tempo fa erano meno radicali».

Anche la Fratellanza musulmana ha assunto una linea più intransigente.
«La sua è un’evoluzione diversa. Proprio perché non violenta, l’Occidente ne è rimasto infatuato. Questo ha permesso ai Fratelli di penetrare nella nostra società più lentamente, ma in maniera più invasiva e senza spargimento di sangue».

D’altra parte, è impensabile rinunciare ai nostri valori democrazia e libertà individuali che hanno appunto una componente di inclusività.
«Certo che no. Però non possiamo nemmeno negare che l’Islam è un’alterità rispetto a noi».

Dal Bataclan, al Nova festival. Fatte le dovute proporzioni, ci sono delle analogie tra i due massacri? E perché la Francia non ha reagito con la stessa determinazione di Israele?
«L’11 settembre, il Bataclan e il 7 ottobre sono tornelli di svolta per Usa, Europa e Israele. Ogni governo ha reagito diversamente, però. Dopo il Bataclan, l’allora presidente francese, François Hollande, disse: “Siamo in guerra con il terrorismo islamico”. Ma i suoi colleghi europei versarono acqua sul fuoco. In Ue, se si comincia a parlare di guerra, entrano in gioco i meccanismi di difesa reciproca (Art. 42 del Trattato sull’Unione Europea, Ndr). Questo è un limite che né gli Usa e né Israele hanno».

Concludiamo sul futuro di Daesh. Dove si sta espandendo oggi il jihadismo?
«È in corso un suo ricollocamento nell’area dell’Africa subsahariana. Mali e Ciad sono già suoi. Adesso i warning arrivano dal Burkina Faso e dal Camerun. Si sta creando una “black belt road” che permette al Jihadismo di arrivare alle coste dell’Atlantico e da lì entrare in contatto con i cartelli della droga dell’America latina e con loro fare soldi grazie al narcotraffico e ricevere pure efficienti mercenari da dispiegare nei vari fronti aperti. Penso al Sudan, per esempio. Però non dimentichiamo che l’Isis è sunnita. E con gli sciiti il conflitto non è mai stato risolto».

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redazione@ilriformista.it

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