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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Setteottobre Rassegna Stampa
09.11.2025 Le ONG che operano in Israele/Palestina, chi le finanzia
Analisi di Daniele Scalise

Testata: Setteottobre
Data: 09 novembre 2025
Pagina: 1
Autore: Daniele Scalise
Titolo: «Smontaggi. Le ONG che operano in Israele/Palestina: chi le finanzia e con quali obiettivi»

Smontaggi. Le ONG che operano in Israele/Palestina: chi le finanzia e con quali obiettivi
Analisi di Daniele Scalise per Setteottobre


Daniele Scalise

Smontaggi. Le ONG che operano in Israele/Palestina: chi le finanzia e con  quali obiettivi - Setteottobre
Parlare di “le ONG” a Gaza è una semplificazione comoda ma ingannevole: dietro c’è un arcipelago di attori con visioni, metodi e soldi molto diversi. Dai fondi europei alle reti religiose, fino al crowdfunding, la mappa dei finanziamenti è complessa e spesso opaca

Dire “le ONG” come se fossero un blocco è comodo e falso. In Israele/Palestina convivono reti molto diverse per visione, metodo e denaro: organizzazioni per i diritti umani e l’assistenza umanitaria; centri legali che portano casi nei tribunali israeliani e in sedi internazionali; gruppi di monitoraggio sugli insediamenti e sull’uso della forza; ong civiche che lavorano su educazione, welfare, coesistenza; strutture che combattono il BDS e la delegittimazione di Israele; think tank che incidono su leggi e policy; realtà legate ai movimenti dei coloni; associazioni per le vittime del terrorismo. Il campo è frammentato e, insieme, iper-politicizzato.

Le fonti di finanziamento seguono alcuni canali ricorrenti. Primo: fondi pubblici europei e di singoli Stati europei, erogati tramite bandi tematici su diritti, sviluppo e società civile. Secondo: agenzie delle Nazioni Unite e grandi ong internazionali che subappaltano programmi sul terreno. Terzo: fondazioni private occidentali, laiche e religiose, che sostengono advocacy, cause legali e progetti educativi. Quarto: reti confessionali (soprattutto protestanti e cattoliche in Europa, evangeliche negli Stati Uniti) che finanziano sviluppo locale, dialogo o, sul versante opposto, programmi di sostegno ideologico e materiale alle comunità degli insediamenti. Quinto: filantropia ebraica della diaspora e federazioni comunitarie, con priorità che vanno dalla difesa legale dei soldati alle iniziative di integrazione sociale. Sesto: fondi governativi e privati del mondo arabo e musulmano per la sanità, l’istruzione e l’assistenza nei territori palestinesi. Infine, una quota crescente di crowdfunding digitale che rende più veloce la mobilitazione ma anche più opaca la tracciabilità.

Gli obiettivi dichiarati corrispondono ai canali. Le ong per i diritti e il monitoraggio puntano a documentare violazioni, fermare abusi, ottenere rimedi giudiziari e spingere cambiamenti di policy; quelle umanitarie forniscono servizi essenziali e protezione dei civili; i centri legali costruiscono contenzioso strategico, in Israele e fuori; i gruppi pro-coesistenza lavorano su scuole, municipi, sanità, pratiche professionali condivise; le organizzazioni “anti-delegittimazione” contestano campagne di boicottaggio e propaganda ostile, e difendono Israele nei consessi internazionali; i think tank elaborano proposte normative che toccano sicurezza, welfare, mercato, assetti istituzionali; le realtà legate agli insediamenti raccolgono fondi per infrastrutture, sicurezza e presenza sul territorio; le associazioni delle vittime difendono diritti, memoria, indennizzi.

Il conflitto su chi paga e perché si accende su tre fronti. Primo, trasparenza: Israele ha introdotto obblighi di disclosure per le ong che ricevono quota rilevante di fondi pubblici esteri; dall’altro lato, donatori chiedono tracciabilità ai partner palestinesi. Secondo, confini tra aiuto e politica: le ong dicono di “fare diritti” o “umanitario”, i critici parlano di “lawfare” e di ingegneria politica per via giudiziaria; la definizione cambia a seconda del bersaglio. Terzo, rischi di prossimità: da anni circolano accuse incrociate di collusioni ideologiche o strutturali (con gruppi estremisti, con apparati statali, con colonie), smentite, verifiche, sospensioni e riprese di finanziamenti. In mezzo restano i cittadini, che ricevono benefici tangibili o subiscono campagne di delegittimazione a seconda del quartiere in cui vivono.

C’è infine una questione di asimmetria. Nei momenti di alta tensione, i grandi donatori internazionali orientano priorità e linguaggi; la società civile locale, ebraica e palestinese, finisce per adattarsi alle parole chiave che sbloccano i bandi. È un circuito che produce risultati concreti ma anche incentivi perversi: si privilegia la denuncia che fa notizia rispetto al lavoro lento nei municipi; si finanziano progetti corti a rendicontazione perfetta e si trascurano processi lunghi che riducono davvero la violenza. Se vogliamo capire “chi paga e per cosa”, bisogna guardare meno ai manifesti e più ai bilanci, alle linee di spesa, agli indicatori di esito. Lì si vede la realtà: un ecosistema necessario, spesso virtuoso, talvolta strumentale, in cui la parola “ong” è diventata un campo di battaglia.


info@setteottobre.com

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