Riprendiamo dalla REPUBBLICA del 03/11/2025, a pag. 22/23, con il titolo "E’ di nuovo stagione degli imperi ", un estratto dal nuovo libro di Maurizio Molinari "La scossa globale".

Maurizio Molinari

La scossa con cui Trump investe l’ordine internazionale ha tre possibili esiti: può portare a un nuovo equilibrio globale sulle sfere di influenza rispetto a Mosca e Pechino; può innescare un cortocircuito planetario e dunque determinare una fase di conflitti, diretti o per procura, fra Usa, Cina e Russia — con dimensioni e conseguenze senza precedenti —; può aprire una stagione di endemica instabilità con un domino di crisi, militari ed economiche, in più scenari, quindi moltiplicare l’imprevedibilità globale. Una situazione analoga a quanto avveniva un po’ ovunque nei secoli precedenti la Prima guerra mondiale, quando erano la potenza militare, le ambizioni personali e le mire commerciali di sovrani, imperatori, principi, ribelli e pirati di ogni tipo a determinare gli eventi, piccoli e grandi, di generazione in generazione.
Ognuno di questi scenari comporta opportunità e rischi destinati a ridefinire nel profondo il mondo in cui viviamo. Se infatti vi sarà un accordo globale fra Trump, Putin e Xi sulle nuove sfere di influenza, ciò significherà l’ingresso in una nuova stagione degli imperi destinata a rafforzarne la capacità di imporre i propri interessi, creando aree grigie di conflitto permanente a bassa intensità, con l’inevitabile conseguenza di ridefinire l’ordine internazionale e le sue istituzioni — così come una spartizione della ricchezza economica planetaria, a scapito di altri Paesi. La previsione di Foreign Affairs va in questa direzione: se ottant’anni fa i leader di Unione Sovietica, Regno Unito e Stati Uniti si incontrarono a Yalta per dividere l’Europa in sfere di influenza in modo da poter determinare la sovranità e il futuro dei vicini, oggi i leader di Cina, Russia e Stati Uniti stanno di nuovo cercando di negoziare principalmente tra loro un ordine globale in cui le istituzioni multilaterali vengono messe da parte e le grandi potenze dettano le condizioni agli Stati più deboli. Arrivare a questo equilibrio è tuttavia un percorso tutto da costruire, e denso di incognite.
A dimostrarlo è quanto avviene dall’indomani dell’arrivo di Trump alla Casa Bianca: prima il neopresidente tenta di raggiungere un accordo con Putin sull’Ucraina cercando nella Russia un partner per isolare la Cina, maggiore rivale strategico. Poi però, davanti alle resistenze del Cremlino, persegue la strada opposta: un accordo geoeconomico con Pechino per isolare Mosca. Entrambe le opzioni restano sul tavolo. E ce n’è anche una terza: che Mosca e Pechino decidano di unirsi formalmente contro Washington, portando alle estreme conseguenze la sfida globale delle autocrazie alle democrazie.
Pertanto non appare più inverosimile lo scenario di un conflitto aperto: quali che saranno gli schieramenti avversari, i rischi per la sicurezza globale si annunciano molto seri per il semplice fatto che si tratta di superpotenze nucleari dotate degli arsenali più forti che la Storia dell’uomo ha conosciuto. Con l’aggravante di essere portatori di interessi destinati a collidere nel lungo termine, comportando per gli altri Paesi il rischio di diventare, loro malgrado, i veri campi di battaglia.
L’attuale fase di transizione può durare a lungo prima di generare un nuovo equilibrio internazionale. In presenza di tali e tante variabili l’approccio più prudente ed efficace è rinunciare alle previsioni, dedicando più tempo e risorse alle interpretazioni: occorre conoscere i protagonisti, le dinamiche e i conflitti le cui caratteristiche sfidano la nostra comprensione e, a volte, anche l’immaginazione.
L’approccio tribale al potere che prevale nelle nazioni protagoniste di questa stagione ci obbliga a riconsiderare l’arte del comando come anche a ripensare i sentieri della rappresentanza.
Capi di Stati e di governo come Trump, Putin, Xi, Bin Salman, Erdogan, Netanyahu, Khamenei, Modi e Milei, per quanto diversi in tutto tra loro, hanno in comune il fatto di rappresentare una versione della leadership in cui carattere personale, forza politica e identità tribale si sovrappongono, il che li trasforma in protagonisti assoluti dei rispettivi interessi nazionali, ridimensionando di conseguenza ruolo e influenza di ministri, gabinetti e governi.
Questo spiega le difficoltà dell’Unione Europea, fondata su una concezione opposta, ovvero una leadership collettiva dove nessuno dei leader nazionali prevale sugli altri ed è la struttura burocratico-amministrativa a essere spesso decisiva. Quando l’Europa riesce ad avere un formato esecutivo ristretto per discutere alla Casa Bianca con Trump il futuro dell’Ucraina — in occasione del summit di Washington dopo l’incontro Usa-Russia in Alaska –, il numero di leader che la rappresentano, in vesti diverse, è di ben otto.
Per affrontare la stagione dei leader tribali anche l’Europa ha bisogno di averne uno, una figura capace di affiancare con autorità gli organismi collegiali Ue. Sembra assai difficile evitare di guardare a Berlino, per il semplice motivo che la Germania è lo Stato più ricco, grande e popoloso della Ue. Un ponte geopolitico naturale fra Europa Occidentale e Orientale. E presto sarà anche il meglio armato.
In tale cornice, risorse come le terre rare, le criptovalute, l’intelligenza artificiale, l’acqua e i satelliti spaziali ci obbligano a guardare alla sfida neomercantilista fra Usa e Cina in maniera ibrida, ovvero tenendo presente non solo gli equilibri commerciali nelle manifatture e lo sfruttamento dell’energia tradizionale, ma anche diverse fonti di ricchezza che ci portano a ripensare l’industria mineraria, l’uso del cosmo come spazio economico, la definizione stessa del denaro e dell’alta tecnologia. Cresce così la sensazione di essere arrivati al momento nel quale il nuovo secolo ridisegna le nostre vite, trasformando in archeologia quanto resta del Novecento.
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