Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
L’appello del giorno dopo Commento di Daniele Scalise
Testata: Informazione Corretta Data: 31 ottobre 2025 Pagina: 1 Autore: Daniele Scalise Titolo: «L’appello del giorno dopo»
L’appello del giorno dopo Commento di Daniele Scalise
Daniele Scalise
Gli appelli umanitari, le petizioni, le raccolte firme, arrivano sempre il giorno dopo. Arrivano quando l'indignazione è già dilagata dai media, quando è una battaglia sicura e hai visto chi si è schierato. Servono per la propria reputazione e non per la causa in sé.
Arrivano sempre tardi, ma arrivano: le petizioni del giorno dopo. Quelle che si moltiplicano quando tutto è già accaduto, quando la cronaca ha già chiuso il sipario e resta solo l’eco morale. “Firma anche tu.” “Aggiungi il tuo nome.” “Facciamo sentire la nostra voce.” È l’attivismo del rimorso, la mobilitazione postuma. Una catarsi in formato digitale.
L’appello del giorno dopo è un gesto che si presenta come politico, ma funziona come consolazione. È un modo collettivo di dirsi “non siamo stati indifferenti”, quando invece lo si è stati eccome. Il meccanismo è sempre lo stesso: la realtà irrompe con la sua brutalità – un attentato, una guerra, una violenza, una legge ingiusta – e nel momento in cui bisognerebbe scegliere, esporsi, magari litigare, il bravo cittadino tace. Aspetta di capire dove tira il vento, chi si è schierato, quali parole usare per non sbagliare tono. Poi, quando il consenso morale si è formato, e la direzione giusta è chiara, allora sì: firma, posta, condivide.
È un fenomeno che non nasce dal cinismo, ma dal bisogno di apparire integri. La firma serve a proteggere la reputazione, non a cambiare le cose. È la messa in scena dell’impegno, l’ultimo atto di una tragedia in cui l’eroe arriva sempre dopo la battaglia. L’importante non è prevenire il danno, ma documentare di averlo deplorato.
C’è un tempismo perfetto in questa coreografia morale: l’appello parte quando la ferita è già mediatica, quando l’indignazione è sicura e non costa niente. Chi lo firma lo fa con sollievo, perché finalmente può essere buono senza rischiare nulla. È la pacificazione postuma che permette di tornare alla propria routine con la coscienza stirata e profumata di buone intenzioni.
In apparenza è democrazia partecipata, in realtà è un modo elegante per non partecipare affatto. Si scambia la reazione per azione, la solidarietà per cura di sé. La petizione del giorno dopo è il placebo della cittadinanza: attenua i sintomi dell’impotenza, non la malattia.
Eppure funziona, perché risponde a un bisogno profondo: quello di sentirsi “dalla parte giusta” senza doverci arrivare da soli. Firma dopo firma, si costruisce un’adesione di massa che non disturba nessuno, non cambia nulla, ma regala un’identità. Il “bravo” di oggi non è chi agisce, ma chi sa indignarsi nel momento giusto, quando non serve più a niente.
Così, ogni disastro si chiude con la sua petizione, ogni vergogna con il suo hashtag. E il ciclo riparte, identico: l’indifferenza preventiva seguita dall’indignazione tardiva. In fondo è comodo: si lascia al tempo il compito di scegliere le vittime, e poi ci si schiera. Sempre tardi, ma sempre bene.
L’appello del giorno dopo è la firma sul registro della buona coscienza. È la maniera più civile di non essere mai dove le cose accadono davvero.