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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Il Foglio Rassegna Stampa
27.10.2025 Israele ha vinto la sua guerra
Articolo di Bret Stephens tradotto da Giulio Meotti

Testata: Il Foglio
Data: 27 ottobre 2025
Pagina: 1
Autore: Bret Stephens
Titolo: «Israele ha vinto la sua guerra»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 27/10/2025, nella sezione Un Foglio Internazionale, articolo di Bret Stephens originariamente pubblicata sul New York Times tradotto da Giulio Meotti dal titolo: "Israele ha vinto la sua guerra".

New York Times columnist accused of eugenics over piece on Jewish  intelligence | New York Times | The Guardian
Bret Stephens
Israele ha vinto la sua guerra | Il Foglio
Sinwar aveva scommesso sulla debolezza della democrazia ebraica. Ha fatto male i calcoli. Il 7 ottobre ha invece risvegliato un patriottismo trasversale che ha unito gli israeliani nella difesa del loro Stato e della loro identità

Benché oggi possa sembrare assurdo, molti tra i dirigenti di Hamas erano convinti che il massacro del 7 ottobre 2023 non solo avrebbe ferito Israele, ma l’avrebbe distrutto” scrive Bret Stephens sul New York Times.“ Lo credevano per fervore religioso. Lo credevano perché speravano di ispirare Hezbollah e l’Iran a unirsi alla battaglia con attacchi su vasta scala. E lo credevano perché pensavano che Israele, nonostante la sua sosfisticata tecnologia, fosse debole. Si sbagliavano – e quell’errore è stato fatale. Ma non del tutto infondato. ‘Fra vent’anni diventerete deboli, e allora vi attaccherò’, avrebbe detto Yahya Sinwar, la mente del 7 ottobre, al suo dentista del carcere israeliano circa vent’anni fa, secondo un’inchiesta di David Remnick per il New Yorker. Sinwar e altri dirigenti di Hamas vedevano in Israele un paese disposto a liberare più di mille prigionieri palestinesi – tra cui lo stesso Sinwar – per un solo ostaggio. Un paese i cui leader parlavano con durezza ma tendevano a evitare i rischi, temendo di turbare la sete di prosperità e tranquillità dell’opinione pubblica. Un paese attraversato da profonde fratture interne – religiosi contro laici, ebrei contro non ebrei, fautori e oppositori della riforma giudiziaria. Un paese ansioso del giudizio del mondo. Tutto questo Sinwar lo aveva dedotto leggendo con attenzione i giornali in ebraico, un’abitudine maturata nei lunghi anni trascorsi nelle prigioni israeliane. Ma proprio questo è stato forse il suo errore più grande. Il giornalismo in una democrazia – e in Israele in particolare – tende a trascurare ciò che funziona in una società, ossessionandosi per ciò che non funziona (mentre nelle autocrazie avviene l’opposto). Il risultato è che Sinwar conosceva bene i difetti auto-denunciati di Israele, ma non la sua forza profonda. Probabilmente non sapremo mai se Sinwar sia mai arrivato a comprendere la portata del suo errore. Gli israeliani non si sono affatto sgretolati di fronte alla carneficina, che egli avrebbe ordinato esplicitamente contro soldati e comunità civili ‘per suscitare terrore e destabilizzare il paese’, secondo un rapporto del Times. Non si sono limitati a poche settimane di combattimenti, come in guerre precedenti; non hanno ceduto alle pressioni internazionali; né hanno sacrificato i principali obiettivi bellici pur di ottenere la liberazione degli ostaggi. Al contrario, gli israeliani si sono compattati – e hanno vinto. Per quanto una ‘vittoria duratura’ sia mai possibile in medio oriente. Hanno cambiato gli equilibri con Libano e Siria. Hanno umiliato e indebolito l’Iran, il cui regime è ormai vacillante. Hanno recuperato i loro ultimi ostaggi vivi senza rinunciare al principale strumento di pressione su Gaza: il controllo del suo perimetro interno. Hanno ottenuto l’impegno di diversi paesi musulmani a garantire una Gaza libera dal dominio di Hamas; e se ciò dovesse fallire, almeno hanno la ragionevole certezza che molti gazawi resisteranno a futuri tentativi di Hamas di trascinarli in un’altra guerra disastrosa. Hanno mantenuto relazioni diplomatiche con gli stati arabi amici. E, nonostante le proteste di piazza nel mondo, gli editoriali ostili e gli irrilevanti embarghi sulle armi, hanno conservato il pieno appoggio dell’unico governo straniero che davvero conta: quello degli Stati Uniti. Tutto ciò, però, ha avuto un prezzo altissimo: una Gaza devastata, con decine di migliaia di vittime civili e sofferenze indicibili per chi è rimasto intrappolato nei combattimenti; un antisemitismo in crescita; e una generazione di progressisti occidentali – cui si aggiungono settori della destra estrema – che considera lo stato ebraico come l’incarnazione stessa del male. Forse tutto questo si sarebbe potuto evitare, anche se è difficile crederlo: Israele era già stato giudicato colpevole di ‘crimini di guerra’ dai suoi critici fin dai primi giorni del conflitto. Secoli di persecuzioni e discriminazioni, intervallati da brevi periodi di pietà e tolleranza, sono ciò che spinse gli ebrei a fondare lo stato di Israele. Ed è anche ciò che li ha spinti, in questa guerra, a vincere. Gran parte delle analisi sulla strategia militare israeliana si è concentrata sul ‘come’: come Israele ha portato a termine l’operazione dei cercapersone contro 

Hezbollah? Come il Mossad ha fatto entrare una bomba nella casa sicura di Teheran dove alloggiava il leader di Hamas Ismail Haniyeh? Come Benjamin Netanyahu ha convinto Donald Trump a unirsi all’attacco contro l’Iran?

Ma le domande sul ‘come’ rivelano meno di quelle sul ‘perché’. Perché, al contrario di quanto credeva Sinwar, Israele non è crollato il 7 ottobre? Perché gli israeliani hanno resistito a massacri, sfollamenti interni, attacchi missilistici e isolamento internazionale? Perché Israele ha voluto vincere, invece di accontentarsi di una fine prematura della guerra che avrebbe lasciato intatti i suoi principali nemici? La risposta mi è apparsa in una base militare israeliana vicino a Gaza, dove ho incontrato un sergente soprannominato Cholo. Prima del 7 ottobre, Cholo faceva il dj ai concerti rave in Brasile; ma era tornato immediatamente in Israele per arruolarsi. ‘Non sostengo questo governo’, mi ha detto. ‘Ma andrò nell’esercito’. La parola giusta per questo è patriottismo – o, come scrisse Mark Twain, ‘sostenere il proprio paese sempre, il proprio governo solo quando lo merita’. Molti dei soldati israeliani che hanno combattuto e sono caduti a Gaza e sugli altri fronti avevano probabilmente manifestato contro Netanyahu durante le proteste sulla riforma giudiziaria. Venivano da ogni orientamento politico. Hanno combattuto non per ideologia o appartenenza di partito, ma perché gli obiettivi e i metodi di Sinwar, il 7 ottobre, avevano reso chiaro che la posta in gioco era esistenziale. E il sostegno entusiastico che quegli obiettivi e metodi hanno suscitato nel mondo intero ha reso evidente un’altra verità: ancora oggi, non esiste un asilo sicuro per gli ebrei. Non in Australia. Non in Canada. Non in Gran Bretagna, Francia o Germania. Forse nemmeno in America. I progressisti sinceri credono davvero che, se lo stato ebraico scomparisse domani le furie antiebraiche in medio oriente, in Europa o in Nord America si placherebbero? O piuttosto troverebbero bersagli ancora più facili? Gli israeliani non hanno combattuto soltanto perché minacciati da un pericolo esistenziale. Hanno combattuto anche contro una menzogna esistenziale: la menzogna secondo cui Israele sarebbe uno stato colonialista, una razza invasiva priva di radici in quella terra. E’ una menzogna ormai diffusa ovunque, nonostante tremila anni di storia la smentiscano. Ed è una menzogna che, man mano che si rafforza, attacca le radici stesse dell’identità ebraica. ‘Se ti dimentico, Gerusalemme’, non era solo una metafora letteraria. Per dimostrarlo, Israele doveva combattere e vincere questa guerra. L’attuale cessate il fuoco apre interrogativi difficili su ciò che verrà dopo – per israeliani, palestinesi e per tutti coloro che hanno a cuore il loro futuro. Ma dovrebbe chiudere, una volta per tutte, alcune questioni fondamentali. Gli israeliani sono deboli? Il loro stato poggia su fondamenta di sabbia? Il loro attaccamento alle proprie convinzioni è superficiale? Sinwar e chi lo seguiva pensavano di sì. La tomba che si è scavato da solo dovrebbe averli smentiti per sempre”.

(Traduzione di Giulio Meotti)

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