domenica 26 ottobre 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



Clicca qui






Il Foglio Rassegna Stampa
26.10.2025 La guerra lunga di Putin
Analisi di Siegmund Ginzberg

Testata: Il Foglio
Data: 26 ottobre 2025
Pagina: II
Autore: Siegmund Ginzberg
Titolo: «La guerra lunga»

Riprendiamo dal FOGLIO edizione sabato-domenica 25-26/10/2025, a pag. II, con il titolo "La guerra lunga " l'analisi di Siegmund Ginzberg.

Siegmund Ginzberg – 1933, l'incendio dell'Europa. Vi dice qualcosa? | I  tempi nuovi
Siegmund Ginzberg

Putin puntava su una vittoria-lampo in Ucraina, esattamente come Hitler puntava su una vittoria rapida contro l'Urss. E' finita, anche qui, con una guerra lunga e sanguinosa. Non è facile capire come si concluderà il conflitto.

La pace la proclamiamo subito. Per il cessate il fuoco abbiamo bisogno ancora di un pochino di tempo. Questo il succo dell’ultimo “contrordine compagni” circa la pace in Ucraina. Niente più vertice Trump-Putin a Budapest. “Un accordo di pace deve venire prima del cessate il fuoco”, la nuova posizione russa, espressa dal ministro degli Esteri Lavrov. Il che ha condotto Trump a soprassedere: “Non voglio un incontro sprecato, non ho tempo da perdere”.

Putin pensava probabilmente di poter chiudere rapidamente la faccenda già in quell’inverno del 2022. Erano stati i suoi servizi compiacenti a trarlo in inganno. Gli avevano prospettato una passeggiata contro un regime corrotto e in disfacimento, con le truppe russe accolte come liberatori dalle popolazioni russofone festanti. Non l’avevano neppure voluta definire guerra, termine che rischia di evocare un conflitto prolungato, ma “operazione militare speciale”, termine che dà l’idea di un blitz di commandos. Nel giro di giorni – qualcuno dice di 48 ore – i parà e le colonne corazzate russe avrebbero dovuto impadronirsi di Kyiv, far prigioniero, uccidere o cacciare in esilio Zelensky e la sua cricca, instaurare un regime fantoccio al posto di quello che si sarebbe dovuto sgretolare subito, consolidare un enorme ponte di terra in mano russa, senza soluzione di continuità dalla Crimea alla Moldavia. Andò in tutt’altro modo. Quattro anni dopo, i progressi russi sul fronte continuano ad andare al rallentatore. Secondo gli addetti ai lavori americani e britannici, al ritmo delle più recenti avanzate russe, gli occorrerebbero due anni e mezzo per occupare la totalità del Donbas, tanto fermamente rivendicato da Putin. Gli ci vorrebbero ancora ben quattro anni e mezzo, forse cinque, di guerra per occupare interamente tutte e quattro le regioni frettolosamente proclamate da Putin indipendenti dall’Ucraina nel 2022, giusto all’inizio dell’operazione militare speciale. Campa cavallo.

Non c’è certezza su come e quando finiscano le guerre. Sembrava, al volgere del nuovo millennio, che le grandi guerre fossero domate, o fossero destinate a risolversi in breve tempo. Siccome tutto prima o poi ritorna, comprese le idee sbagliate, fino a pochissimo tempo fa stava tornando in auge nel pensiero militare l’idea che fossero possibili vittorie rapide e decisive, grazie all’elemento sorpresa. Nell’estate del 1914 tutti gli stati maggiori e le cancellerie europee erano convinti che le ostilità sarebbero finite “entro Natale”. Le illusioni sono dure a morire. Passato il primo Natale di guerra, l’Italia si era buttata nel conflitto con la stessa idea sbagliata, che tutto potesse finire prima del nuovo inverno, e non ci fosse bisogno di scarponi solidi e cappotti per le truppe. Cominciarono tutti con grandi offensive che miravano a una rapida spallata decisiva. E invece ci si arenò nelle trincee sino al novembre del 1918. E forse la terribile carneficina sarebbe continuata ancora, se a imporre la parola fine, oltre alla grande stanchezza di tutti i popoli coinvolti, non fosse arrivata la Spagnola, un virus influenzale planetario e letale, tipo Covid.

I Blitzkrieg, le guerre lampo, non funzionano più come una volta. Anzi, forse non hanno mai funzionato. Nemmeno per chi la parola l’ha inventata. Ai successi fulminei della Germania del Kaiser all’inizio della Prima guerra mondiale, e poi della Germania di Hitler all’inizio della Seconda, seguì un prolungato periodo di logoramento, di stallo. Anche lo zar contava su un successo dell’offensiva iniziale: finì col rimetterci il regno e le penne. La Wehrmacht aveva invaso la Russia sovietica nel giugno 1941, pensando che la campagna potesse concludersi prima dell’arrivo dell’inverno. Un solo generale tedesco ebbe il coraggio di esprimere dubbi. Gli altri generali, cortigiani del Fuhrer, per viltà, lo zittirono. Non avevano equipaggiamenti invernali, erano sicuri che il regime di Stalin sarebbe crollato al primo urto. Quando le guerre si allungano prevale chi ha più risorse da mettere in campo, e per più tempo. La produzione industriale dell’America era inesauribile, imbattibile, non poteva essere scalfita né dalla Germania nazista, né dal militarismo giapponese. Era imbattibile la capacità di mobilitare le risorse intellettuali, compresi gli scienziati perseguitati e costretti a fuggire dalla Germania. Così come era inesauribile la disponibilità in risorse umane, di vite con cui rimpiazzare quelle perdute, della Russia di Stalin. Contro entrambi, alleati l’uno dell’altro, Hitler non aveva una chance.

Si obietterà: ma talvolta le guerre brevi hanno funzionato, sono riuscite a mettere la parola fine a conflitti che parevano insanabili. Sì, è vero. Ma a condizione che abbiano un obiettivo chiaro, preciso e dichiaratamente limitato. La guerra per le Falkland, nel 1982, durò non più di 74 giorni, compreso il tempo necessario alla lunga traversata per la squadra della Royal navy che Margaret Thatcher aveva inviato alle isole, dall’altro capo dell’Atlantico. L’obiettivo era riprendersi le isolette in capo al mondo che erano state occupate dall’Argentina, non un cambio di regime a Buenos Aires. Che come conseguenza della sconfitta cadesse l’infame dittatura dei generali argentini fu un di più, un bonus aggiuntivo. “Desert storm”, la campagna d’Arabia del 1991 di Bush padre, si concluse nel giro di poche settimane. Aveva come obiettivo costringere Saddam Hussein a ritirarsi dal Kuwait, non un cambio di regime in Iraq. Quando i neo conservatori, convinti che fosse venuto il momento di portare la democrazia in medio oriente, di vincere una volta per tutte, spinsero Bush figlio a darsi obiettivi molto più ambiziosi, addirittura epocali, le cose si complicarono, i tempi dell’impegno militare si allungarono a dismisura.

Sul finire degli anni 70, impadronirsi dell’Afghanistan era sembrato mossa facile e vincente per l’Urss di Breznev. Un colpo di stato, anzi di palazzo, seguito da un’invasione lampo, giustificata da una richiesta di “aiuto fraterno” da Kabul. Canovaccio collaudato, come in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968. In quel momento l’America di Carter era ancora sotto shock, a causa dell’inaspettata rivoluzione khomeinista in Iran. Scommisero che non avrebbe reagito. Quello architettato da Mosca fu un intervento da manuale. E chi li smuoveva più da lì? Dieci anni dopo erano stati invece costretti a ritirarsi con le pive, pardon, con la bandiera dell’Armata rossa, nel sacco. Sull’Afghanistan con ogni probabilità si erano giocati non solo quella guerra, ma anche l’Unione sovietica stessa, l’avvenire del comunismo reale, e dunque settant’anni di miti. Avevano fatto i conti senza l’oste. Esattamente come, sempre in Afghanistan, nell’Ottocento si erano fatti molto male i britannici, che pure erano all’apice del loro impero. Si poteva pensare che tanta sfilza di insuccessi catastrofici avrebbe dissuaso dal riprovarci, avrebbe scoraggiato altri volenterosi portatori a mano armata di civiltà e pace a quelle popolazioni feroci e barbare. Nemmeno per idea. Pochi decenni dopo l’ingloriosa ritirata sovietica successe esattamente lo stesso agli americani e alla coalizione da loro guidata (c’eravamo anche noi italiani, nella disperata missione di ricostruire un Afghanistan democratico).

L’inferno della regione che chiamiamo medio oriente è lastricato di guerre lampo trasformatesi in guerre senza fine. E di paci brevi, brevissime, o addirittura mai nate. Saddam Hussein probabilmente pensava di poter piegare, col placet di Washington, l’Iran di Khomeini in quattro e quattr’otto. Avesse previsto che sarebbe durata otto anni, con un milione di vittime per parte, forse non l’avrebbe nemmeno iniziata. Subito dopo il massacro del 7 ottobre, l’allora presidente americano Joe Biden aveva invitato Netanyahu a un’operazione militare “veloce, decisiva, preponderante”. Voleva dire: non impelagatevi in una guerra da cui non sapreste come uscire. Biden non era stato abbastanza convincente, dissuasivo, oppure non si era reso conto con cosa e con chi avesse a che fare. Nel dissentire pubblicamente dalla decisione del governo di procedere alla conquista di Gaza City, l’attuale capo di stato maggiore di Tsahal, Eyal Zamir, aveva avvertito che ci sarebbero voluti altri due anni di combattimenti. C’è voluta l’irruenza scostumata di Trump per convincere Netanyahu a farla finita subito, ad accettare, a firmare un cessate il fuoco. Forse aveva argomenti, “proposte che non si possono rifiutare”, che non conosciamo ancora del tutto.

Il cessate il fuoco, una tregua, non garantisce la fine di una guerra. Specie se una delle due parti, o entrambe, lo considerano sostanzialmente come una pausa. Ma accettare l’idea di un cessate il fuoco significa accettare l’idea che una soluzione militare al conflitto non c’è, o non è praticabile. Se invece pensi di poter vincere (o di dover necessariamente vincere) annientando il nemico, o di poterti ancora procurare vantaggi decisivi sul campo, non sarai interessato nemmeno al cessate il fuoco. Con la guerra che volgeva al peggio, dal 1943 in poi, Hitler avrebbe accettato volentieri una pace separata con gli Alleati. Ma già non erano più pensabili alternative alla resa senza condizioni della Germania nazista. Potersi vantare di aver vinto è un altro paio di maniche, quello non lo si nega a nessuno. Golda Meir lasciò volentieri che nel 1967, a conclusione della guerra dei sei giorni, Sadat cantasse vittoria in casa sua, in modo da poter far digerire la sconfitta ai suoi in Egitto, e la conseguente la necessità di far pace con Israele. Quella pace continua a reggere ai giorni nostri.

Far digerire alla propria gente la necessità di un compromesso di pace può essere più dura che fargli digerire una resa o una sconfitta. Laurie Nathan, che è uno specialista di mediazioni internazionali nei processi di pace, e ha al suo attivo un passato giovanile da attivista contro l’apartheid, ha avuto recentemente occasione di ricordare come ci si arrivò in Sudafrica: “Ci si arrivò solo quando entrambe le parti giunsero alla conclusione che si sarebbe potuto dover combattere per altri cent’anni, senza che una parte o l’altra fosse in grado di vincere”, ha spiegato. Quando si arrivò alla trattativa, molti nell’African National Congress storcevano il naso sulle concessioni ai bianchi, che ritenevano eccessive, soprattutto in materia di giustizia per i torti del passato e di diritti di proprietà. Nelson Mandela li zittì dicendogli: “Sveglia, compagni. Ricordatevi che noi non abbiamo mai vinto davvero!”.

Che si cominci a dire, anche nell’entourage di Zelensky, che per far finire la guerra in Ucraina potrebbe essere accettabile un “pareggio”, è una novità. Che ha, però, due controindicazioni: una è che, perché si giunga a un compromesso, un pareggio, bisogna che lo vogliano entrambi i contendenti; l’altra è che entrambi abbiano la forza di imporre una non vittoria ai recalcitranti nel proprio campo. Dipende dai leader (temo che non ci siano molti Mandela in giro), e dipenderà anche da che gioco giocano. Nel poker, un bluff può portarti a vincere o perdere tutto. Negli scacchi, il modo più elegante è forse concludere la partita in pareggio, con una “patta”, in cui non c’è scacco matto, ma non restano né al bianco né al nero mosse possibili. E’ più difficile che vincere o perdere: a vincere o perdere son capaci tutti, pattare richiede grandissima abilità, mano da maestri.

“Dovete amare la pace, quale mezzo di nuove guerre. E (dovete amare) la pace breve più che la lunga”, fa dire Nietzsche al suo profeta in Così parlò Zarathustra (capitolo 11). Un paradosso fuori dai denti, provocatorio. Nietzsche, lo confesso, è un filosofo che mi è antipatico. Dice cose sgradevoli. Che hanno incoraggiato, motivato a fare cose ancora più sgradevoli. Peggio ancora: talvolta la imbrocca. Nel senso che così va il mondo.

Ma sì, certo, a Nietzsche preferisco Kant. Il suo Progetto per una pace perpetua, è affascinante per la sua semplicità. Non gli avresti dato un soldo, tanto sembrava utopistico, al di fuori della realtà europea dei suoi tempi. Erano tempi di guerre senza fine, guerre rivoluzionarie e guerre di conquista, a ruota, una dopo l’altra. Ed ecco un genio che propone qualcosa in apparenza al di fuori di ogni “ragione pratica”. Che tutti gli stati demandino volontariamente eserciti, armi e spese militari a un’entità, una federazione multinazionale, mantenendo solo forze strettamente necessarie per l’ordine interno. Un’utopia bell’e buona. Non solo per il fantasioso illuminismo, ma anche per i tempi nostri. Quell’utopia, per quanto inverosimile, ha fatto strada. Ha finito col divenire una delle basi teoriche dell’Onu e dell’Unione europea.

Queste due grandi invenzioni, scaturite dalle macerie della Seconda guerra mondiale, hanno più o meno funzionato. L’Onu ha retto anche nei momenti più critici, quando era strattonata pericolosamente da superpotenze ai ferri corti tra di loro. Ha retto persino quando, nella guerra in Corea, l’Onu non faceva da paciere, ma era una delle parti combattenti, forniva le sue bandiere alla coalizione di forze occidentali guidata dagli Stati Uniti. L’armistizio, firmato nell’estate 1953 – dopo tre anni di guerra atroce, quasi tutte le città rase al suolo, e forse un milione di morti tra civili e combattenti per parte – aveva riportato le cose al punto di partenza: due Coree, quella del Sud, filoamericana, e quella del Nord, comunista, che si fronteggiavano lungo il 38esimo parallelo. La pace a tutt’oggi non è stata ancora firmata. Le trattative furono lunghissime e defatiganti. Una cosa che si tende a dimenticare è che quasi metà delle perdite americane si ebbero dopo che i negoziati di tregua erano già iniziati.

La Società delle nazioni, immaginata dal presidente Woodrow Wilson per il primo dopoguerra mondiale, ebbe vita breve e inefficace. Non erano trascorsi vent’anni dalla sua creazione, che i principali belligeranti nella Seconda guerra mondiale se ne erano già distaccati sbattendo la porta a Ginevra. Onu e Unione europea hanno invece funzionato al di là delle aspettative, per ben ottant’anni di fila. L’Europa unita ha conosciuto la pace più lunga di tutta la storia del continente. Il doppio del record precedente, quello della Belle époque: 43 anni senza grandi guerre, tra 1871 e 1914. La mia è la prima generazione che non solo non ha fatto guerre, ma non ne è neppure stata sfiorata. Guerre come quella in Vietnam, durata vent’anni, dal 1955 al 1975, erano per noi, in fin dei conti, “guerre degli altri”. Mentre quelle della nostra epoca rischiano, per la prima volta, di diventare in men che non si dica “guerre nostre”. “La lunga pace”, che è un altro modo con cui gli studiosi chiamano l’èra della “Guerra fredda”. La pace ha retto, bene o male, una crisi dopo l’altra. Forse soprattutto grazie al fatto che una guerra tra le superpotenze nucleari avrebbe significato distruzione reciproca garantita. Il guaio è però che al momento né Le Nazioni unite, né l’Europa appaiono essere al meglio della loro forma nel prevenire, disinnescare, far finire le guerre.

Per inviare al Foglio la propria opinione, telefonare: 06/5890901, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT