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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Il Riformista Rassegna Stampa
26.10.2025 Parla Georges Bensoussan: in Europa è scontro di civiltà tra lumi e Jihad
Intervista di Aldo Torchiaro

Testata: Il Riformista
Data: 26 ottobre 2025
Pagina: 4
Autore: Aldo Torchiaro
Titolo: «Lo storico Bensoussan: 'Guerra a Gaza può riprendere in qualsiasi momento, una massa di popolazione favorevole a Israele è resa muta dalla casta mediatico-intellettuale'»

Riprendiamo dal RIFORMISTA del 23/10/2025, a pagina 4, l'intervista di Aldo Torchiaro dal titolo "Lo storico Bensoussan: 'Guerra a Gaza può riprendere in qualsiasi momento, una massa di popolazione favorevole a Israele è resa muta dalla casta mediatico-intellettuale'".

File:Aldo Torchiaro.png - Wikipedia
Aldo Torchiaro

Georges Bensoussan, storico specializzato nella storia di Israele e della Shoah. 

Incontriamo il professor Georges Bensoussan, storico francese specializzato nella storia di Israele e della Shoah, mentre sta rivedendo il suo ultimo libro: una Storia del sionismo che uscirà nelle librerie francesi a gennaio.

La tregua Israele–Hamas può reggere nel tempo? Quali condizioni la renderebbero sostenibile?
«Non parlerei di pace, ma di tregua: ce ne sono state molte e ce ne saranno altre. Hamas, movimento messianico ed escatologico, non accetterà mai di disarmare né di rinunciare ai tunnel; siamo al limite di ciò che una tregua può offrire e la guerra può riprendere in qualsiasi momento, perché Hamas non conosce il compromesso e spinge la sua logica fino in fondo».

È ottimista sul conflitto nel suo complesso? Esiste un’uscita?
«È un conflitto senza esito. Non si tratta dello scontro tra due movimenti nazionali, ma tra una visione islamista del mondo e uno Stato-nazione, Israele, direttamente figlio dell’Europa delle Lumi; è un confronto tra la ragione occidentale e il jihadismo, e non vedo una pace nemmeno a medio termine: vedo una successione di tregue».

Dunque parla di uno scontro di civiltà vero e proprio?…
«Sì, è uno scontro di civiltà. L’errore di parte dell’intellighenzia occidentale è applicare schemi occidentali a un conflitto che non lo è. Non Francia contro Germania, ma due visioni del mondo: ragione dei Lumi contro jihadismo. Siamo alla presenza di un jihad, e non va dimenticato».

Questo “jihad” si sta propagando anche in Europa?
«Sì, perché cinquant’anni d’immigrazione hanno portato in Europa una popolazione musulmana che non ha abbandonato i propri schemi di pensiero; e meno li abbandona quanto più cresce numericamente. Una minoranza piccola tende a integrarsi; una molto grande fa blocco e impone i propri codici. È il caso di Francia e Belgio, più che dell’Italia, anche perché lì la popolazione musulmana è la più numerosa d’Europa».

L’Europa è davvero così ostile a Israele come spesso si dice?
«Non si può globalizzare l’Europa. Ungheria, Polonia, Italia e in parte la Germania hanno governi complessivamente pro-israeliani; Irlanda, Spagna e Slovenia sono più ostili; Francia e Regno Unito stanno nel mezzo. E poi va distinta la “casta” mediatico-intellettuale, spesso anti-israeliana, da una massa di popolazione più favorevole a Israele perché percepisce di avere il medesimo nemico: il jihadismo. Ma questa maggioranza è resa muta dal sistema mediatico».

Le élite europee agiscono talvolta come “agenti d’influenza”? Con quale ruolo dei petrostati del Golfo?
«In parte sì, per ragioni ideologiche, politiche e anche finanziarie. Il ruolo del Qatar è stato enorme: ha “comprato” individui e società. A Parigi, ad esempio, una parte dell’avenue des Champs-Élysées è di proprietà saudita e qatariota; una dinamica visibile anche a Londra».

Nuova aliyah dall’Europa: c’è un’onda duratura?
«È in corso un movimento modesto. La Francia, con circa 450.000 ebrei, registra da due-tre anni un’aliyah annua che non supera le 3.000 persone: poco. Molti lasciano la Francia verso Stati Uniti, Canada, talvolta Portogallo o Australia: non necessariamente verso Israele, anche per considerazioni di sicurezza e opportunità economiche».

Che cosa dovrebbero fare oggi UE e Stati Uniti per consolidare la sicurezza dei propri cittadini di fronte alla minaccia islamista?
«Finché i governi europei non avranno il coraggio di dire che l’islam jihadista ha dichiarato loro guerra, questa guerra è persa in partenza. Non mancano armi o denaro: manca il coraggio politico di nominare il nemico e affrontarlo».

Lei, a memoria di storico, ricorda una ondata di antisemitismo simile a quella di oggi?
«L’ampiezza odierna è nuova. Nel 1982 ci fu una forte ondata d’odio, con l’accusa—già allora—di “genocidio” a Israele; si è dimenticato che i massacri di Sabra e Shatila furono perpetrati da milizie cristiane e non dagli israeliani, pur con gravi responsabilità. L’onda attuale dura di più e colpisce più forte anche perché l’immigrazione arabo-musulmana è molto più numerosa in Europa e Nord America rispetto a quarant’anni fa, e perché per un pezzo di élite in crisi la causa palestinese è diventata una nuova religione civile».

Qual è la specificità dell’ecosistema digitale in questa crisi? I social amplificano la “guerra cognitiva”?
«Quarant’anni fa i social non esistevano; oggi sono più influenti dei media tradizionali e fungono da cassa di risonanza straordinaria dell’odio, moltiplicato dall’anonimato. Forse la quantità di odio non è maggiore, ma la sua visibilità e la sua capacità di mobilitazione lo sono certamente».

In definitiva: come se ne esce?
«L’unica via è il coraggio: politico, culturale e civile. Bisogna riconoscere la natura dello scontro e rispondere con gli strumenti necessari. Penso a Pericle: la condizione della libertà è il coraggio. Come l’Inghilterra del 1940, occorre tenere duro: senza quel coraggio, siamo perduti».

 


redazione@ilriformista.it

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