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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Informazione Corretta Rassegna Stampa
27.09.2025 Condanniamo… ma
Commento di Daniele Scalise

Testata: Informazione Corretta
Data: 27 settembre 2025
Pagina: 1
Autore: Daniele Scalise
Titolo: «Condanniamo… ma»

Condanniamo… ma
Commento di Daniele Scalise 

 
Daniele Scalise

Guterres, segretario generale dell'Onu, aveva pronunciato il tipico discorso sul 7 ottobre: Hamas ha commesso un crimine ingiustificabile, ma "non è avvenuto nel vuoto". E da lì si apre la strada alle solite accuse contro Israele: occupazione, apartheid, coloni, ecc... Un trucco retorico che è stato adottato da tutto il discorso pubblico della sinistra, per annebbiare le colpe dei terroristi palestinesi e girare l'accusa sempre contro Israele.

Roma, esterno giorno. Pomeriggio che sfuma. In piazza sventolano bandiere, si accendono i microfoni, un deputato prende la parola dopo un attentato contro civili. “Condanniamo con fermezza questo atto vile, nessuna giustificazione.” Pausa misurata, sguardo lungo sull’orizzonte. “Ma non possiamo dimenticare il contesto, le umiliazioni, l’occupazione, la disperazione.” La folla annuisce: in un attimo la condanna iniziale si scioglie, riassorbita dal connettivo che la segue. Sui quotidiani del mattino la frase comparirà intera; e tuttavia la seconda metà funzionerà da valvola di sfogo, scaricando il peso morale dall’autore del crimine a una nebbia di cause. Molte vere in astratto, nessuna utile a spiegare perché, proprio ieri, è stato colpito un autobus.

            La tesi si può dire in una riga: il cordoglio condizionale usa la condanna come premessa obbligata e il “ma” come connettore di assoluzione. Innesca uno scambio sleale tra un’azione puntuale e un contesto generico, e alla fine la responsabilità evapora. Lo si riconosce da tre spie che tornano identiche: la grammatica dei connettivi, il gioco dei tempi verbali, la truffa delle proporzioni morali.

            La prima spia è il connettivo che sconta la colpa. Il “ma” è la cerniera sovrana; a rotazione sfilano “però”, “tuttavia”, “d’altra parte”, “al contempo”, “non possiamo non”. Sono segnali quasi acustici più che semantici: ciò che precede è l’assicurazione sulla vita, ciò che segue è il messaggio vero. La formula si presenta con pudore ma non si nasconde: “Condanniamo senza se e senza ma, ma…”. Il paradosso è nudo.

            La seconda spia è il modo in cui si piegano tempi e modi. Sul crimine si indossano forme attenuanti, come una felpa larga: “si è verificato”, “si registrano morti”, “ci sono state esplosioni”. A volte spunta il condizionale dubitativo, “sarebbero stati colpiti civili”, che diluisce la certezza nel forse. Appena entra il contesto, il registro si irrigidisce e si fa assertivo: presente durativo, indicativo pieno, verbi di causa e necessità. “Continua l’occupazione”, “permangono le disuguaglianze”, “è inevitabile la reazione”. Il tempo del delitto diventa un accidente puntiforme; il tempo del contesto una marea che spiega e assolve. Persino l’ordine delle frasi disegna il pendio: prima un fatto che appassisce, subito dopo una cornice che si impone.

            Terza spia: le proporzioni morali truccate. La retorica propone equivalenze che non equivalgono. Un attentato contro civili viene pesato a bilancio con una decisione di governo; un omicidio con un blocco stradale; un ostaggio con un embargo culturale. Cambia il denominatore a piacere, e con esso il senso. Talvolta si brandisce una verità sacrosanta, “ogni vita vale una vita”, ma la si usa per neutralizzare il giudizio sugli atti specifici. Il risultato è un pareggio contabile che suona bene in retorica e fallisce alla prova della logica.

            Arriva, puntuale, l’obiezione: capire le cause non significa giustificare. Vero. Il punto non è la parola “cause”, è il posto che le si assegna nella frase e nel tempo della comunicazione. Se le cause entrano nella stessa boccata d’aria della condanna, introdotte da un connettivo di sconto, la gerarchia si capovolge. Non si tratta di bandire il contesto: si tratta di separarlo e distribuirlo con criterio. Prima si nomina l’atto e il responsabile; poi, in un secondo momento e in un paragrafo autonomo, si discute la storia lunga. Mescolare i piani nello stesso periodo non illumina: confonde.

            Come rispondere senza urlare? Con la regola del punto fermo. Chiedere e proporre dichiarazioni in due frasi, non una sola cucita con il “ma”. Frase A: “Condanniamo X, atto compiuto da Y contro Z. È un crimine.” Punto. Frase B: “In un’altra sede discutiamo delle cause strutturali e delle politiche necessarie.” Non è formalismo, è igiene del discorso pubblico. Se l’oratore insiste con il “ma”, chiedere di riformulare spesso basta a farlo correggere senza che se ne accorga.

            C’è poi la domanda di precisione, la più utile di tutte. Non “condanna la violenza?”, ma “condanna l’attacco X del gruppo Y contro civili Z?”. La domanda precisa impedisce la fuga nel generico e riduce lo spazio del cordoglio condizionale. Se, dopo la risposta, compare l’inevitabile “ma”, conviene fermarsi: “Questa è un’altra discussione. La condanna vale da sola, sì o no?”. Gli esempi aiutano a vedere la differenza: sporco è “Condanniamo l’attentato, ma finché non si affronteranno le cause…”. Pulito è “Condanniamo l’attentato. È un crimine contro civili. E sosteniamo ogni tavolo serio che affronti le cause.” Il contenuto resta legittimo; cambia la morale implicita.

            Altrettanto importante è ciò che conviene non fare. Non rispondere con un contro-“ma” speculare: è la stessa trappola, solo a segno invertito. Non lasciare che il contesto risucchi i nomi propri: un atto ha autori, bersagli, luogo e data. Non accettare il gioco del conteggio a caldo: i numeri iniziali sono quasi sempre provvisori e diventano munizioni per il pareggio morale. Non scivolare nell’ironia sul dolore: l’arguzia ferisce spesso chi non c’entra.

            Perché succede? Per ansia di rispettabilità, perché si teme che una condanna “pura” faccia perdere pubblico o alleati. Per abitudine redazionale, perché “condanniamo ma” sembra una formula equilibrata e rispetta un cliché di impaginazione. Per pigrizia concettuale, perché si scambia la simultaneità delle frasi con la complessità del pensiero. Per mimetismo: se tutti lo dicono, dirlo pare innocuo. Non lo è.

                        Cosa resta in tasca? Che una condanna è un atto morale, non un preambolo retorico. Se ha bisogno di un “ma” per reggersi, non è una condanna, è un permesso a metà. Il lettore non chiede epica, chiede ordine: nomi, verbi, tempi; punto fermo, poi contesto; connettivi che collegano, non che assolvono. Bastano due frasi e una scelta: dire ciò che è, e soltanto dopo spiegare perché accade. Solo così la discussione successiva, anche durissima, resta dentro quella cornice civile in cui le parole hanno ancora peso.


takinut3@gmail.com

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