Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
La neutralità che pende Commento di Daniele Scalise
Testata: Informazione Corretta Data: 20 settembre 2025 Pagina: 1 Autore: Daniele Scalise Titolo: «La neutralità che pende»
La neutralità che pende Commento di Daniele Scalise
Daniele Scalise
La finta neutralità, un trucco retorico infallibile per fare propaganda antisionista passando per imparziali
Interno giorno, conferenza stampa in municipio. Sul palco siedono il sindaco, un assessore, il portavoce. La domanda di un giornalista è diretta: “Condanna l’aggressione avvenuta ieri davanti alla sinagoga?” La risposta del sindaco è un guanto di velluto: “Come amministrazione condanniamo ogni forma di violenza, da qualsiasi parte provenga. In questo momento non vogliamo alimentare polemiche, serve pace.” Applauso di rito, fine delle domande. Poche ore dopo, dagli stessi canali istituzionali compare un post indignato per un episodio di razzismo contro alcuni immigrati in stazione: nomi, dettagli, una presa di posizione netta. Due pesi sulla stessa bilancia? No. È la bilancia ad essere inclinata.
Quando la neutralità viene invocata solo per gli ebrei e per Israele non è una virtù istituzionale: è una tecnica di sottrazione. Si toglie il soggetto, si sfoca il nesso causale, si pretende di pareggiare ciò che pari non è. Le mosse retoriche con cui questa sottrazione si compie sono ricorrenti. La prima è l’imparzialità intermittente: “non entriamo nel merito”, ma soltanto qui. Su altri dossier sociali, invece, si entra eccome, con parole nette e schieramenti espliciti. È coerenza selettiva: si sceglie la cautela proprio dove il prezzo reputazionale sembra più alto o il quieto vivere più fragile. Lo si vede benissimo: quando c’è il rischio di risse sui social o di urtare una parte rumorosa, si issa la bandiera della neutralità; quando la platea è unanime, si fa militanza virtuosa. Non è prudenza, è calcolo.
La seconda mossa è il passivo terapeutico. “Si è sparato”, “si sono verificati disordini”, “sono morte delle persone”: il soggetto scompare e al suo posto arrivano verbi impersonali e sostantivi-ombre come violenza, tensione, scontro. La catena dell’azione si spezza: non c’è più chi ha fatto cosa, resta un clima generico in cui tutto è accaduto a tutti. È una retorica lenitiva, una crema anestetica: non cura e non chiarisce, attenua soltanto la sensazione. Ma il linguaggio non è neutro; se togli l’agente, togli responsabilità e intenzione. Qui la neutralità non è rigore: è amnesia indotta.
Terza mossa: il bilancismo contabile. “Condanniamo questo, ma ricordiamo anche quello.” Quel “ma” è una cerniera che scarica la condanna. In nome della proporzione si fabbrica un pareggio tra fatti non equivalenti: un attentato e una decisione politica, un’aggressione a un civile e un dibattito parlamentare, un atto terroristico e un posto di blocco. Il sillogismo è sempre lo stesso: se tutto è causa di tutto, allora nessuno è responsabile di nulla. Il trucco funziona perché suona ragionevole. Ma ragionevole non significa vero.
A questo punto arriva l’obiezione seria: “Un’istituzione deve rappresentare tutti; su un conflitto divisivo non può schierarsi. L’imparzialità è un dovere.” Giusto prenderla sul serio. La risposta sta nel distinguere: l’imparzialità di metodo non è indifferenza morale, ed equidistanza tra le parti non equivale a sospensione del giudizio sugli atti. Un sindaco, un rettore, un direttore di museo non devono esprimersi su ogni sfumatura geopolitica; devono però saper chiamare per nome un’aggressione, un atto antisemita, un gesto terroristico. Difendere chi è minacciato non è parteggiare: è custodire quello spazio civile che rende possibile anche il dissenso. Se domani toccasse ad altri, il principio varrebbe allo stesso modo.
Come si risponde senza urlare? Con tre semplici gesti, spendibili ovunque: in pubblico, in un’email al giornale, in un consiglio comunale, in riunione. Primo: rimettere il soggetto al suo posto. Non chiedere condanne “di ogni violenza”, ma una risposta sulla domanda precisa: “Condanna l’aggressione X compiuta da Y contro Z?” La precisione riduce la fuga nel generico. Secondo: separare i piani. “Possiamo discutere di politiche, ma adesso parliamo di un attacco contro civili. Questo non dipende da una trattativa, è un crimine. Lo riconosce come tale?” Spostare la conversazione dalla macro-narrazione al fatto concreto rende più difficile il bilancismo automatico. Terzo: chiedere coerenza, non eccezioni. “Ieri avete preso posizione netta su un episodio analogo: perché qui no? Qual è la regola che vige?” La richiesta di un criterio scritto smaschera l’imparzialità intermittente: se la regola non esiste, si vede; se esiste, va applicata a tutti.
C’è anche ciò che conviene evitare: non accettare la cornice dell’accusa. Non si tratta di “costringere a schierarsi pro-Israele”, ma di far rispettare standard uguali di linguaggio e responsabilità. Non si tratta di “strumentalizzare il dolore”, ma di impedire che venga sterilizzato in formule. Non si tratta di “zittire il contesto”, ma di impedire che il contesto assorba il reato come una spugna.
Per smascherare la neutralità che pende bastano due test rapidi. Il primo è il test della sostituzione: prendi la formula “condanniamo ogni violenza” e cambia l’oggetto con un’altra minoranza o con un caso specifico di cronaca. Suona adeguata o improvvisamente fiacca? Se è fiacca solo qui, non è neutralità: è asimmetria. Il secondo è il test del tempo verbale: guarda i verbi dei comunicati. Prevalgono passive e impersonali quando si parla di ebrei o di Israele, e forme attive quando si parla d’altro? Allora c’è un pendio. Il linguaggio non mente: sbilancia.
Perché succede? Non sempre per malafede. Più spesso per paura di perdere un pezzo di pubblico, per conformismo ambientale, per ignoranza del lessico minimo del conflitto, per il riflesso condizionato del “mettere tutti d’accordo”. È umano. Proprio per questo la risposta deve essere adulta: non indignazione permanente, ma disciplina delle parole. Pretendere termini precisi non è pignoleria; è tutela del significato. E il significato, quando si parla di violenza contro gli ebrei, ha una storia che non consente eufemismi.
Un antidoto pratico, per redazioni e uffici stampa, esiste ed è semplice: tenere nel cassetto tre righe sempre uguali e usarle in ogni caso analogo. Nominare l’atto, non il clima: “aggredito un cittadino in un episodio antisemita” non è “episodio di tensione”. Nominare il soggetto: “X ha colpito Y” non è “si sono verificati scontri”. Nominare la vittima come persona e cittadino, non come metafora politica. Se queste tre condizioni valgono per tutti, la neutralità torna a essere ciò che dovrebbe: garanzia di equità, non lamierino per coprire l’imbarazzo.
Cosa resta in tasca? Che la neutralità non è un altare, è uno strumento. O si usa con criteri uguali, oppure diventa una posa. Il lettore ha bisogno non di indignazioni a comando, ma di una bussola linguistica: rimettere i soggetti, separare i piani, chiedere coerenza. Bastano cinque minuti e tre domande ben poste per far emergere l’inclinazione. Dopo, la discussione può essere anche dura; almeno, però, sta sui fatti. E i fatti, quando hanno un nome e un verbo, sanno difendersi da soli.