Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
La fotografia come arma: immagini senza contesto Commento di Daniele Scalise
Testata: Informazione Corretta Data: 04 settembre 2025 Pagina: 1 Autore: Daniele Scalise Titolo: «La fotografia come arma: immagini senza contesto»
La fotografia come arma: immagini senza contesto
Commento di Daniele Scalise
Daniele Scalise
La foto è vera, ma manca il contesto. Ad esempio questa foto del raid di Jabaliya, all'inizio del conflitto, mostra devastazione e civili uccisi e feriti, ma dimentica di documentare quel che c'era prima: era una delle basi di lancio dei razzi di Hamas. Nella guerra di informazione, anche la fotografia cessa di essere oggettiva e diventa un'arma.
In guerra, l’immagine è più rapido della parola e più resistente della smentita. La foto non si legge, si assorbe e passa dalla retina all’emozione prima che la ragione possa chiedere: “Cosa sto guardando davvero?”. Nei conflitti che riguardano Israele, questo potere è usato sistematicamente per orientare lo sguardo, isolare un fotogramma e trasformarlo in un atto d’accusa.
Quando scoppia un round di violenza a Gaza, le immagini che occupano le prime pagine sono quasi sempre le stesse: bambini feriti, donne in lacrime, macerie fumanti. Tutto reale, tutto terribile. Peccato che sia incompleto. Raramente si vedono foto dei tunnel di Hamas, delle postazioni missilistiche tra le case, o degli ostaggi israeliani in mano ai miliziani. L’assenza selettiva costruisce un racconto visivo dove Israele appare solo come forza distruttrice e i palestinesi solo come vittime passive.
Una foto è una frazione di secondo. Se scegli il momento in cui un soldato israeliano punta un’arma, senza mostrare che sta coprendo civili durante un’evacuazione, ottieni un’immagine di aggressione. Se inquadri un’esplosione a Gaza, senza dire che colpisce un deposito di armi, ottieni una “strage di civili”. Lo scatto è vero, ma decontestualizzato diventa una mezza verità, cioè una menzogna perfetta.
Molti lettori guardano la foto e leggono solo la didascalia. E qui il condizionamento è diretto: “Un palestinese ferito dopo un raid israeliano” è diverso da “Un miliziano ferito in uno scontro a fuoco con l’IDF”. Stesso volto nella foto, significato opposto. La didascalia è la chiave che decide se il soggetto è una vittima o un combattente.
Prendiamo il caso del cimitero di Jabaliya. Data: 13 ottobre 2023.Dopo un’esplosione, le agenzie internazionali diffondono immagini drammatiche: corpi coperti da teli, familiari in lacrime, macerie tra le lapidi. I titoli parlano di “strage di civili in un cimitero”. Nessuna menzione iniziale al fatto che l’area fosse stata usata da Hamas per il lancio di razzi verso Israele, e che l’esplosione fosse stata innescata da munizioni immagazzinate lì. Per giorni, quelle foto restano simbolo della “ferocia israeliana”. Quando i dettagli emergono, il circ mediatico ha smontato i tendoni e si è andato a piazzare altrove. Quel che conta è che le prime immagini hanno tatuato la versione iniziale.
In Ucraina, le immagini di soldati che sparano da aree residenziali sono usate per mostrare la brutalità russa. In Siria, le foto di miliziani tra i civili servono a denunciare il terrorismo islamista. A Gaza, lo stesso tipo di immagini – se mai pubblicato – viene interpretato come resistenza legittima. La logica è invertita: ciò che altrove prova la colpa di un gruppo armato, qui diventa prova della sua “lotta di liberazione”.
La fotografia ha un vantaggio sleale sulla verità: la precede. Una volta impressa nella memoria collettiva, resiste alle correzioni come appunto un tatuaggio. Vallo poi a spiegare che la scena era diversa, che mancavano elementi fondamentali. Il fotogramma resta lì, pronto a essere riutilizzato a ogni nuova ondata di accuse. In questa guerra, Israele combatte anche contro album fotografici già pronti, dove il finale è noto: soldati come oppressori, civili palestinesi come vittime inermi. Non servono fotomontaggi: basta scegliere l’inquadratura giusta e tagliare tutto il resto. È il modo più semplice – e meno riconoscibile – per trasformare un obiettivo fotografico in un’arma di propaganda.