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Luce nel buio del tunnel. Come gli ostaggi a Gaza celebravano Hanukkah 13/12/2025

Un filmato recuperato dall’esercito israeliano durante le operazioni nella Striscia di Gaza mostra sei ostaggi israeliani mentre cercano di accendere le candele della festa di Hanukkah in un tunnel con scarso ossigeno. I sei ostaggi sono Hersh Goldberg-Polin, 23 anni, Eden Yerushalmi, 24 anni, Ori Danino, 25 anni, Alex Lobanov, 32 anni, Carmel Gat, 40 anni, e Almog Sarusi, 27 anni. Il filmato risale al dicembre 2023. Otto mesi dopo, il 29 agosto 2024, all’approssimarsi delle Forze di Difesa israeliane al tunnel sotto il quartiere di Tel Sultan, a Rafah (Striscia di Gaza meridionale), tutti e sei gli ostaggi furono assassinati con un colpo alla testa dai terroristi palestinesi.



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Daniele Scalise
Ragioni e Sentimenti
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La catena di montaggio della disinformazione 27/08/2025

La catena di montaggio della disinformazione
Commento di Daniele Scalise

Il raid di Nuseirat, per la liberazione di ostaggi israeliani, per i media è diventata "strage di civili". Anche se poi la versione mediatica è stata smentita e i media stessi hanno rettificato le notizie, il concetto è passato e l'opinione pubblica non ha più cambiato idea. La disinformazione mediatica è diventata una catena di montaggio, inarrestabile, il primo anello è costituito dalle fonti di parte, quasi sempre di Hamas. 

La bugia, quando parte, viaggia in business class. La verità, se arriva, lo fa in terza classe e con ore di ritardo. Nel racconto mediatico su Israele, il flusso è sempre lo stesso: fonte di parte → agenzia internazionale → media nazionali → social network. Un nastro trasportatore che confeziona la notizia già pronta per il consumo, senza passare dalla dogana della verifica.

La forza di questo meccanismo sta nella sua apparente naturalezza: nessuno si sente complice, tutti si definiscono “solo riportatori”. In realtà, ognuno contribuisce a dare alla bugia una patina di legittimità che la rende resistente a qualsiasi smentita.

Fase 1 – La fonte di parte
Nel caso di Israele, la catena spesso inizia con Hamas o con organismi a esso collegati. Il “Ministero della Sanità di Gaza” – organo del governo di Hamas – diffonde cifre, accuse, immagini. Nessuna redazione internazionale lo presenta mai così: diventa “Ministero della Sanità” e basta, come se fosse la controparte sanitaria di un Paese occidentale.

Fase 2 – Le agenzie internazionali
Reuters, AFP, AP raccolgono e battono la notizia. Il virgolettato della fonte diventa titolo: “Raid israeliano provoca X vittime”. Le precisazioni (“secondo le autorità di Gaza”) scivolano in coda, dove pochi lettori arrivano. L’agenzia è lo snodo decisivo: la sua autorevolezza trasferisce alla notizia un sigillo che le televisioni e i giornali nazionali non mettono più in discussione.

Fase 3 – I media nazionali
Qui la notizia si trasforma in racconto domestico. I titoli diventano più emotivi, le foto più forti, le cifre più tonde. Se l’agenzia ha già impostato il frame, la redazione lo amplifica. Nessuno ha il tempo – o la voglia – di tornare alla fonte primaria, di verificare in modo indipendente. È più rapido confezionare un pezzo “di flusso” e passare al successivo.

Fase 4 – I social network
Una volta online, la notizia esplode. Titoli e immagini vengono rilanciati senza link, fuori contesto, con slogan che moltiplicano l’effetto emotivo. Quando, giorni o ore dopo, emerge la verità, il ciclo è già concluso: la smentita non ha alcuna possibilità di competere con il primo impatto virale.

Un caso concreto? Nuseirat, 8 giugno 2024
Quel giorno, l’IDF lancia un’operazione a Gaza per liberare quattro ostaggi israeliani. Poche ore dopo, il “Ministero della Sanità di Gaza” diffonde un comunicato: “Più di 200 civili uccisi in un massacro israeliano”. Reuters, AFP e AP rilanciano i numeri senza verificarli. Le principali testate – dal Guardian a El País – titolano sulla “strage” e sul “costo umano” dell’operazione, minimizzando il fatto che erano stati salvati quattro ostaggi rapiti l’ottobre precedente. Sui social, il racconto si riduce a una formula: “Israele uccide centinaia di civili per salvare quattro persone”.

Nei giorni seguenti, emergono dati diversi: molti dei morti erano miliziani armati, la cifra iniziale era gonfiata, e Hamas aveva usato i civili come scudi umani. Ma a quel punto l’immagine era già fissata: Israele come aggressore spietato, gli ostaggi come pretesto, e la realtà dei fatti relegata a note a piè di pagina.

Il problema non è solo che la verità arrivi tardi. È che, quando arriva, trova il campo occupato: l’immagine mentale si è già formata, l’indignazione si è già consumata, il giudizio è già stato emesso. Chi diffonde la smentita appare difensore di Israele, e quindi sospetto.

Questo sistema è una catena di montaggio perché ogni passaggio aggiunge un elemento di apparente solidità e credibilità: la fonte è “ufficiale”, l’agenzia è “affidabile”, il quotidiano nazionale è “autorevole”, il social network è “popolare”. Ma la materia prima, se è tossica, resta tossica. E una volta distribuita in milioni di copie, nessuna rettifica potrà mai bonificare il danno.

In guerra, la prima vittima è la verità. Ma nella guerra mediatica su Israele, la verità non muore per caso: viene sacrificata scientemente sull’altare della velocità, dell’emotività e di un pregiudizio consolidato. E in questo sacrificio, tutti – dal cronista distratto al direttore compiacente – hanno le mani sporche.


Daniele Scalise


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