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Febbraio 2014


I profughi ebrei dai Paesi Arabi
Interviste a Daniel Meron e David Meghnagi, testimonianza di Cecilia Nizza e Sharon Nizza






I profughi ebrei dai Paesi Arabi


I profughi ebrei dai Paesi Arabi

  • Gli ebrei del Nord Africa e del Medio Oriente erano antiche comunità esistenti prima delle invasioni arabe e della conquista islamica. In alcuni casi, come in Iraq e Yemen, esistevano comunità ebraiche prima della diaspora del 70 e.v.
  • Numerose comunità ebraiche erano presenti in tutti i Paesi del Nord Africa, dal Marocco all’Egitto, e del Medio Oriente, dall’attuale Israele all’Iraq, Iran fino all’oriente indiano.
  • Dopo la cacciata degli ebrei dalla Spagna nel 1492, le comunità ebraiche di Marocco, Tunisia, Egitto, Eretz-Israel e Siria si rinvigorirono.
  • Durante il periodo islamico, gli ebrei, come i cristiani, erano soggetti allo statuto della dhimma, il profilo subalterno di “comunità protetta”, con limitati diritti su proprietà, vestiario e circolazione, e specifici doveri, come il pagamento della tassa sull’infedele, detta jizya.
  • Gli ebrei erano attivi in ogni settore sociale, contribuendo alla vita economica e in parte alla gestione amministrativa. Il profilo di autonomia culturale, dovuto all’emarginazione e alla discriminazione, ha permesso il mantenimento di antiche lingue, come il giudeo-ispanico, e lo sviluppo di dialetti arabo-ebraici e persiano-ebraici. L’integrazione nella cultura locale è testimoniata dai diversi usi, costumi e lingue degli ebrei orientali – così ad esempio, gli ebrei iracheni si dividevano in comunità arabo-ebraiche e curdo-ebraiche.
  • Con la crescente influenza europea in Medio Oriente nel XIX secolo, e le attività educative dell’organizzazione francese “Alliance”, gli ebrei orientali integrano la cultura locale con la cultura europea.
Il crescente antisemitismo
  • Nel XIX secolo, l’antisemitismo di stampo europeo è esportato in Medio Oriente, grazie anche al contributo di numerose traduzioni in arabo dei testi antisemiti, ad opera prevalentemente di cristiani.
  • Il movimento sionista, che si diffonde anche tra le comunità ebraiche del Nord Africa e del Medio Oriente, è interpretato come una ribellione alla condizione sociale subalterna degli ebrei ed offre un incentivo all’ostilità anti-ebraica di stampo islamico.
  • Le prime violenze anti-ebraiche organizzate avvengono in Palestina, dove nel 1929 la comunità ebraica di Hebron è massacrata e messa in fuga. Le violenze tra ebrei e arabi in Palestina avranno ripercussioni per tutte le comunità ebraiche in Medio Oriente.
Ebrei deportati dalla Libia
  • I Paesi arabi sotto dominio coloniale europeo filo-nazista perseguitano le comunità ebraiche con l’intento di estendere la soluzione finale al Mediterraneo: le comunità ebraiche di Tunisia, Algeria e Libia sono soggette alle leggi razziali, a deportazioni in campi di concentramento e anche nei campi di sterminio in Europa.
Dimostrazioni filo naziste in Iraq
  • La collaborazione tra arabi e nazisti, suggellata dal Gran Muftì di Gerusalemme Amin Hussein, consolida l’antisemitismo e causa nuove violenze. Nel 1941, la comunità ebraica di Baghdad è vittima del grande pogrom ricordato con la parola farhud.
Progrom del 1945 a Tripoli
  • Dopo la guerra e l’evidente necessità di uno Stato ebraico, nuove violenze si abbattono sugli ebrei dei Paesi arabi. Nel 1945, la comunità ebraica libica, a Tripoli e Bengasi, è soggetta a una serie di pogrom che sono ricordati col nome di meura’ot o pra’ot. Nuove leggi discriminatorie limitano la libertà e i diritti degli ebrei, in particolare degli attivisti sionisti. Il clima di odio anti-ebraico e anti-sionista prelude al grande esodo degli ebrei dai Paesi Arabi.
L’esodo, l’espulsione: i profughi ebrei

  • Le nuove e sempre maggiori discriminazioni anti-ebraiche nei Paesi arabi sono state una politica diretta all’emigrazione forzata della popolazione ebraica indigena. La creazione dello Stato di Israele ha offerto l’ennesima scusa per espellere gli ebrei.
Ebrei iracheni arrivano in Israele
  • In alcuni Paesi, come in Iraq, Siria, Libano, Algeria, Marocco, gli ebrei sono espulsi in massa. Il neonato Stato di Israele organizza ponti aerei per l’evacuazione della comunità ebraica dallo Yemen, l’operazione “Magic Carpet”, e dall’Iraq, l’operazione “Babilonia”. Un altro esempio è l’operazione “Mural”, diretta da David Littman, per salvare i bambini ebrei marocchini cui era impedito di lasciare il Paese.
David Littman, operazione “Mural”
  • Alcune comunità rimangono negli anni successivi, per subire un’altra ondata di violenze e persecuzioni che portano all’emigrazione negli anni ’50 e ’60.
  • In Egitto, la cacciata degli ebrei avviene con l’avvento di Nasser al potere, a fine anni ’50, dopo la confisca delle proprietà, il ritiro del passaporto. In Libia, la restante comunità ebraica è espulsa nel 1967, dopo la Guerra dei Sei Giorni, grazie alle trattative internazionali per il rilascio degli “ostaggi” ebrei.
  • Molti profughi si stabiliscono in Israele, Italia, Francia, Gran Bretagna, Brasile e Stati Uniti.
  • I pochi ebrei rimasti, intrappolati nelle dittature mediorientali negli anni successivi, sopravvivono tra continue discriminazioni e persecuzioni. Negli ultimi vent’anni, Israele e altre organizzazioni internazionali hanno salvato piccoli gruppi di ebrei siriani e yemeniti, dove la persecuzione e le violenze anti-ebraiche rendono impossibile la vita dei pochi ebrei rimasti.
  • Dopo un iniziale riconoscimento internazionale, la questione degli 850,000 profughi ebrei dai Paesi arabi è dimenticata, lasciando lo spazio all’imponente narrativa dei profughi palestinesi.
Giustizia per gli ebrei dai Paesi arabi

  • La rapida integrazione degli ebrei orientali nelle nuove patrie di adozione così come la prevalenza della memoria della Shoah hanno fatto dimenticare la storia delle antiche comunità ebraiche del mondo arabo cancellate nei pochi anni successivi alla creazione dello Stato di Israele, dove la loro integrazione non è sempre stata facile.
  • Israele e alcune organizzazioni, come la “Justice for Jews from Arab Countries” stanno ripresentando la narrativa dei profughi ebrei per fronteggiare l’imponente dominio della memoria palestinese. I profughi palestinesi, unici a mantenere questo status di generazione in generazione, sono usati come arma politica contro Israele dai Paesi arabi. La differenza numerica (600,000 profughi palestinesi e 850,000 profughi ebrei) e sostanziale (i profughi arabi hanno direttamente partecipato alla guerra contro Israele e molti di loro hanno fatto ritorno, contrariamente agli ebrei dai Paesi arabi) impone una più ampia considerazione della storia del Medio Oriente per una soluzione del conflitto secondo equità e giustizia.
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Intervista a Daniel Meron, Ministero Affari Esteri Israeliano


Intervista a Daniel Meron
Ministero degli Esteri Israeliano, Direttore del Bureau Nazioni Unite


Chi sono i rifugiati dai Paesi arabi?
La questione dei rifugiati ebrei dai Paesi arabi è uno degli argomenti meno conosciuti e dibattuti nella storia contemporanea. I Paesi arabi avevano delle numerose e importanti comunità ebraiche, spesso di antica origine, le cui radici si rifacevano a 2500 anni fa, come in Iraq.
Nel XX secolo gli ebrei nei Paesi arabi avevano diritti civili e politici e le comunità ebraiche arano parte integrante della società contribuendo a tutti i livelli di vita sociale. Oggi però nessuno sa che molti ebrei in Iraq erano giornalisti, insegnavano nelle università, avevano importanti commerci ed erano attivi in qualsiasi altra sfera.
Quando il sionismo incominciò a diffondersi nel Medio Oriente, e sempre più negli anni ’30 e ’40, le cose sono radicalmente cambiate: lo status degli ebrei nei Paesi arabi è peggiorato a causa dell’incitamento all’odio anti-ebraico, con l’adozione di politiche discriminatorie, boicottaggi contro gli ebrei, espulsioni e attacchi alle comunità. È il caso del “farhud”, il pogrom anti-ebraico a Baghdad nel 1941, durante il quale sono stati uccisi molti ebrei e danneggiate le loro proprietà, o delle violenze contro la comunità ebraica in Libia nel 1945 e in Marocco nel 1948.

Come sono diventati rifugiati?
Dopo la fondazione dello Stato di Israele, l’incitamento alla violenza contro gli ebrei nei Paesi arabi si è fatto sempre più intenso, con anche una chiara politica diretta a imporre l’emigrazione ebraica: confisca delle proprietà, ritiro della cittadinanza, discriminazioni dirette. La Lega Araba, fondata nel 1945, ha adottato nel 1949 una risoluzione secondo cui gli Stati arabi avrebbero dovuto congelare i conti bancari intestati agli ebrei e impedirne l’accesso per favorire l’evacuazione dei cittadini ebrei dai Paesi arabi.

Quanti ebrei sono stati sfollati?
Tra gli anni ’40 e gli anni ’70 circa 850.000 ebrei sono stati espulsi dai Paesi arabi diventando rifugiati. In alcuni Paesi gli ebrei sono stati espulsi subito dopo la creazione di Israele, mentre in altri l’emigrazione forzata ha preso piede negli anni successivi.

Sono riconosciuti come profughi dalla comunità internazionale?
Due anni dopo la creazione di Israele il 14 maggio 1948, un articolo di Mallory Brown pubblicato sul New York Times denunciava che “Gli ebrei sono in grave pericolo in tutti i Paesi musulmani”. L’articolo parla di Paesi musulmani, ma io mi riferisco ai profughi ebrei dai Paesi arabi. Anche le Nazioni Unite hanno trattato della questione: l’ACNUR (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) ha riconosciuto gli ebrei dai Paesi arabi come profughi prima nel 1957 e poi nel 1967. In più la Risoluzione ONU 242 del 1967 adottata dopo la Guerra dei Sei Giorni parla di una giusta soluzione al problema dei rifugiati: il fatto che non si nomini la nazionalità non è un caso, significando che la risoluzione intende includere sia arabi sia ebrei.
Anche i trattati di pace con Egitto e Giordania trattano della questione dei rifugiati, prevedendo l’istituzione di una commissione per la composizione delle controversie sulle rivendicazioni finanziarie dei rifugiati. Recentemente, anche Clinton nel luglio 2000 a Camp David ha riconosciuto il diritto degli ebrei rifugiati dopo la Guerra di Indipendenza 1948-49 al risarcimento per l’espulsione dai loro Paesi.

Perché è importante parlarne?
È anzitutto una questione di giustizia. Quando si parla di giustizia in Medio Oriente non ci si può dimenticare dei profughi ebrei: qualsiasi accordo sul conflitto così come le analisi sul Medio Oriente contemporaneo dovrebbero includere la questione dei profughi ebrei dai Paesi arabi perché altrimenti non ci sarà giustizia.
Le rivendicazioni degli ebrei sono spesso trascurate per ragioni politiche. Tuttavia, nel 2010 la Knesset ha adottato una legge secondo cui qualsiasi accordo futuro con i Paesi arabi deve comprendere anche la soluzione della questione dei profughi ebrei. Questa legge assicura che le loro rivendicazioni non siano dimenticate.

Ci sono degli Stati che appoggiano i rifugiati ebrei?
C’è un’attività internazionale a sostegno della memoria e alle rivendicazioni dei profughi ebrei. C’è un’organizzazione chiamata “Justice for Jews from Arab Countries”, diretta da Stanley Urman, con associati negli USA, in Canada, in Gran Bretagna, Francia e Israele.
Il Congresso americano ha adotatto nel 2008 una risoluzione che riconosce gli ebrei che sono stati costretti a emigrare dai Paesi arabi come vittime di violazioni dei diritti umani. Ancor più importante, la risoluzione riconosce che ogni dibattito sui profughi palestinesi debba anche trattare dei profughi ebrei, per una questione di giustizia e diritto.
Ci sono altre proposte di legge pendenti nel parlamento americano, presentate in gran parte da Jerrold Nadler, e nel parlamento canadese. Anche il Parlamento Italiano ha organizzato una conferenza su questo tema a iniziativa dell’ex parlamentare Fiamma Nirenstein.

Cosa fa Israele in proposito?
Nel 2012 abbiamo organizzato una conferenza su “Giustizia per gli Ebrei dai Paesi Arabi” e abbiamo adottato la Dichiarazione di Gerusalemme, che propone anche attività del governo israeliano. Stiamo documentando storie e perdite personali, per avanzare richieste di compensazione per beni distrutti, confiscati o andati perduti.
In secondo luogo, stiamo avanzando la questione in tutti i fora internazionali e nazionali per raggiungere un accordo che metta fine al conflitto che includa anche le rivendicazioni ebraiche. Infine stiamo pensando di istituire un giorno in memoria delle comunità ebraiche dai Paesi arabi e della loro espulsione.
Il parlamentare israeliano Shimon Ohayon ha anche stabilito una lobby alla Knesset per difendere gli interessi dei rifugiati ebrei.
Siamo anche attivi all’ONU, dove abbiamo organizzato due conferenze, di cui una lo scorso ottobre 2013, che ha scatenato violente critiche nella stampa araba.

Perché non si parla di quest’argomento?
C’è un tentativo da parte dei Paesi arabi di dominare la narrativa storica a livello internazionale e in particolare è la narrativa palestinese a spadroneggiare nelle organizzazioni internazionali.
Per esempio, l’ONU ha istituito il Giorno di Solidarietà col Popolo Palestinese, che si celebra ogni 29 novembre, ricorrenza della Risoluzione ONU sulla Partizione della Palestina, ossia la stessa risoluzione che stabiliva la creazione di uno Stato arabo e di uno Stato ebraico che è stata rifiutata dagli arabi. Non solo, ma l’ONU ha dichiarato il 2014 l’Anno di Solidarietà col Popolo Palestinese.
Ed è proprio per questo tentativo di dominare la narrativa internazionale e in particolare nelle organizzazioni che trattano di pace e giustizia che si ignorano i diritti e le rivendicazioni ebraiche. Ma vogliamo affrontare la situazione presentando la nostra narrativa e difendendo i diritti legittimi e le rivendicazioni degli ebrei che sono stati sfollati e privati dei loro beni, espulsi dai loro Paesi per il solo fatto di essere ebrei.





Intervista a David Meghnagi, Università di Roma Tre


Intervista a David Meghnagi
Professore di Psicologia clinica, Direttore del Master internazionale di II livello in didattica della Shoah, Università di Roma


Com’era composta la comunità ebraica in Libia?
Alla vigilia del grande esodo per Israele, la comunità contava 35.000 persone circa su una popolazione inferiore a un milione di persone. La comunità aveva il suo grande centro a Tripoli, ma esisteva anche all’interno.
Nel periodo ottomano, nell’Ottocento, la condizione giuridica e sociale migliorò nettamente rispetto ai secoli precedenti. Da un punto di vista religioso gli ebrei restavano dei dhimmi, ma erano più tutelati rispetto alla popolazione.
Questo cambiamento relativo di status è fonte di un’ostilità e di un’ambivalenza crescente che si sedimenterà nei decenni successivi. L’indebolimento del potere ottomano avrà come conseguenza un peggioramento delle condizioni di vita.

È cambiato qualcosa nel periodo coloniale italiano?
L’arrivo degli italiani fu percepito dagli ebrei come una promessa di cambiamento e di miglioramento delle condizioni di vita. Agli inizi il nuovo potere guardò agli ebrei come a una popolazione ponte verso l’Italia. Ma la prospettiva cambiò rapidamente, molto prima della svolta razzista e antisemita del regime.
Nonostante le persecuzioni poi subite, la dominazione italiana si conservò nella memoria collettiva come un periodo di sospensione della condizione d’inferiorità giuridica rispetto alla popolazione araba.

Come erano i rapporti tra ebrei e arabi?
Il rapporto tra ebrei e arabi nella società tradizionale islamica era caratterizzato da un’ambivalenza costitutiva che nei momenti di crisi e indebolimento del potere centrale poteva comportare dei contraccolpi pericolosi, anche mortali.
Non a caso nella storia degli ebrei di Tripoli, accanto al Purim ufficiale, che racconta la storia di Ester e il miracolo del salvataggio dal progetto omicida dell’empio Amman, ci siano altri due Purim, legati alle vicende locali della comunità e a pericoli mortali scampati.
Per l’Islam, nella sua versione più tollerante, gli ebrei erano una minoranza dominata, un “popolo vinto” che aveva diritto alla protezione in cambio di una condizione subalterna e umiliata. Indipendentemente dal loro status economico e sociale, gli ebrei dovevano “saper stare al loro posto” se volevano evitare una reazione violenta e distruttiva.
In una società dove uomini e donne erano nettamente separati, dove le donne non potevano mostrare in pubblico nemmeno il volto, gli ebrei erano considerati e percepiti come “uomini svirilizzati” e “come donne”. Per questo motivo, a differenza dei mussulmani, i maschi ebrei potevano entrare in contatto con le donne arabe per la vendita dei loro prodotti. La specializzazione degli ebrei in alcuni rami del commercio era frutto anche di questa condizione sociale.

Il miglioramento dello status degli ebrei dall’Ottocento non ha portato un cambiamento dei rapporti con gli arabi?
La messa in discussione della forma di dominio e di assoggettamento degli ebrei nella società araba non è venuta dall’interno, per un’evoluzione positiva dei rapporti tra i gruppi e le persone. Il cambiamento è avvenuto per un’azione indotta dall’esterno. Agli inizi, in forma più timida, grazie alla riconquista ottomana. Poi, in forma più sostanziale, con la conquista italiana.
Come conseguenza di questa incapacità di esprimere dall’interno il cambiamento, ogni progresso nella condizione giuridica degli ebrei era percepito dalla maggioranza islamica come un attacco ai valori dell’umma islamica. In questa nuova dialettica gli ebrei erano “colpevoli” per il solo fatto di volersi emancipare dal giogo del dominio islamico.
La radice dell’odio violento che si scatena due anni dopo la liberazione, quando si comincia a discutere del futuro del paese, ha qui una sua precisa origine. Potrebbe sembrare un contro senso che alla vigilia dell’indipendenza, col rischio di mettere in discussione la sua credibilità, il nazionalismo arabo scateni ben due pogrom contro una comunità indifesa che viveva nel paese molti secoli prima delle invasioni arabe. Le cose appaiono in una diversa luce se si guarda alla sua logica più interna.
Nella logica del nazionalismo arabo e del suo richiamo all’umma islamica, scatenare la violenza distruttiva contro una minoranza indifesa era un atto di “sfida” al potere straniero, un modo vile per metterne in discussione l’autorità e la capacità di mantenere l’ordine presente e futuro, senza però pagarne i prezzi.
Ben altre sarebbero state, infatti, le conseguenze, se la sollevazione si fosse rivolta contro i soldati britannici di stanza nel Paese, intervenuti solo tre giorni dopo lo spaventoso massacro, dopo che la popolazione ebraica del vecchio quartiere era riuscita a contenere gli assalti e a respingerli.

L'identità ebraica libica aveva una componente sionista?
L’ebraismo libico ha risposto con forza al richiamo sionista. Basta pensare che già agli inizi degli anni venti, a Gerusalemme si discuteva della possibilità di un’emigrazione in massa dell’intera comunità ebraica tripolina.
Nei primi decenni del secolo scorso il movimento sionista arrivò a conquistare la maggioranza nelle elezioni comunitarie. Sionismo significava apprendere l’ebraico moderno e partecipare attivamente a un sogno di rinascita che trovava il sostegno aperto della totalità dei rabbini locali.
All’indomani della liberazione del dominio fascista, le sedi giovanili sioniste riaprirono i loro battenti ed era una gara. Si studiava l’ebraico e ci si preparava al futuro. Le organizzazioni dell’Yishuv curavano i bambini e li preparavano a una nuova vita. A Tripoli il sionismo era vissuto come identità globale. Il ritorno a Sion era il compimento di un ciclo storico radicato nella preghiera e nei sogni collettivi di un’intera nazione, in cui antico e moderno si congiungevano.

La comunità ebraica in Libia sotto il regime fascista ha sofferto anche delle persecuzioni anti-ebraiche?
Le persecuzioni fasciste erano avvenute in tempo di guerra. La frequentazione col dolore e con la persecuzione, le aveva “messe in conto”. Nella percezione collettiva, che ne coglieva solo in parte la profondità, erano “una conseguenza” della guerra, anche se in realtà preludevano a esiti spaventosi, come avvenne purtroppo per la comunità ebraica di Bengasi deportata in massa nel campo d’internamento di Giado, a sud di Tripoli.
Pochi lo sanno. Per le pessime condizioni di vita nel campo oltre seicento, un quarto della comunità, non fece ritorno. E se non ci fosse stata la liberazione sarebbero morti probabilmente tutti.

Subito dopo, la nascita dello Stato di Israele ha causato un’ondata di violenze anti-ebraiche in tutto il mondo arabo. Cos’è accaduto in Libia?
Il pogrom del 1945 giunse inatteso. Era avvenuto quando la speranza era tornata a pulsare e la comunità era tornata a organizzarsi liberamente. Per gli ebrei di Libia rappresentò una frattura nel tempo e nello spazio. Il pogrom segnò la fine di un intero mondo. Il pogrom era stato meticolosamente preparato dai nazionalisti, molti dei quali negli anni del fascismo avevano vissuto negli altri Paesi arabi ed erano stati conquistati dal panarabismo e dall’antisemitismo del Muftì di Gerusalemme. Dopo di allora nel rapporto fra ebrei e arabi, nulla fu come prima.

La componente antiebraica era quindi parte del nazionalismo arabo?
Assolutamente sì. Forte della reticenza degli Stati europei a farsi carico della protezione della minoranza ebraica locale, il nazionalismo arabo affermava il diritto di disporre arbitrariamente dei propri ebrei, “colpevoli” di avere osato mettere in discussione il loro status di dhimmi.

Quali furono le reazioni della comunità ebraica?
Sul versante delle vittime, lo scoppio di violenza antisemita, significò la rottura definitiva di ogni precedente equilibrio. Da allora anche chi non la avesse coltivata col pensiero, l’esperienza più che bimillenaria degli ebrei in Libia volgeva al termine. Non essendo possibile vivere da liberi nel futuro stato libico, essendo ormai chiaro che non ci sarebbe stato più posto per loro, con un sussulto di orgoglio e di riscatto, l’esilio fu trasformato in esodo, il dolore e la sofferenza furono sublimati.
Le migliaia di persone affluite dall’interno del paese dormivano per le strade e nelle sinagoghe, attendendo spasmodicamente il giorno della loro partenza verso la terra dei sogni.
Tra il ’45 e il ’48, centinaia d’imbarcazioni sfidarono il mare per raggiungere Erez Israel. Nei canti che sentivo da bambino a casa, s’invocava Dio perché il mare fosse clemente con chi aveva il coraggio di sfidare i mari e le batterie costiere britanniche. Negli anni che precedettero il grande esodo, le direzioni ebraiche trattarono con le classi dirigenti arabe l’intero processo.
Poiché per gli uni non c’era futuro ebraico in Libia, e per i secondi l’unico futuro possibile era ormai altrove, si giunse a trattare la cessione delle attività artigianali ebraiche ad arabi. In cambio della cessione delle loro attività, gli ebrei che per secoli furono i più grandi artigiani del mondo arabo, formarono i lavoratori arabi perché prendessero dopo il loro posto.

Come si organizzò la vita ebraica dopo il grande pogrom del 1945?
Dopo il pogrom del ’45, la comunità corse ai ripari per non ritrovarsi impreparata di fronte a un nuovo e più sanguinoso appuntamento. Consapevoli del pericolo, gli ebrei acquistarono in segreto armi e si procedette a un addestramento quasi “militare” che coinvolse 150 ragazzi e 50 ragazze che vennero poi rafforzati da decine di poliziotti ebrei fuori servizio.
Uno shaliach inviato in segreto dallo Yishuv (Israele pre-statale, n.d.r.) contribuì a organizzare dei piccoli gruppi di autodifesa, fra loro sconosciuti, che si addestrarono in località deserte nei dintorni di Tripoli, procurandosi armi al mercato nero. Nelle settimane che precedettero il pogrom, le autorità religiose tranquillizzarono la popolazione ebraica; la comunità digiunò e pregò, mentre i giovani si armarono e si prepararono.
L’attacco contro i quartieri ebraici fu respinto con un fuoco di armi inatteso. Militarmente organizzata, la gioventù ebraica passò al contrattacco al grido di “Haganah”.

Quali sono i ricordi della sua famiglia?
La mia memoria famigliare è interamente costellata da quegli eventi. Avrò avuto tre o quattro anni quando fingevo di essere occupato con i miei giochi per meglio ascoltare e capire il perché dei funerali al buio, con il coprifuoco, lungo un percorso protetto da un cordone di truppe armate che non erano intervenute prima e impedivano ora ai parenti di poter seguire i loro cari verso l’ultima dimora.
Parlare dei pogrom del novembre ’45 e del giugno ’48 era un tabù. Sul terrazzo soprastante la casa in cui abitavo c’era una scritta in gesso bianco: “novembre 1945, giorno della chomata”. Con questo termine, due miei fratelli avevano dato un nome al massacro (pra'oth). Secondo i calcoli ufficiali, dai 130 ai 167: decine di corpi mutilati, sinagoghe bruciate e profanate, rotoli della Torah calpestati, fatti a pezzi e bruciati, donne incinte, cui era stato squarciato il ventre, bambini con la testa spaccata contro le pareti. I miei genitori corsero dei rischi.
Facevano molta attenzione nel parlare in nostra presenza. Quando mia madre ne parlava con altre signore, aguzzavo le orecchie. Lo stesso facevo quando ne parlava con mio padre. Tutto però era avvolto in un mistero: il ricordo della tragedia, come quello della resistenza e del grande esodo che aveva coinvolto la quasi totalità degli ebrei di Libia. Non si poteva parlarne, né chiedere, e quando i più anziani lo facevano, era con mezzi termini ed io avevo appreso a riconoscere il significato di certe perifrasi, le allusioni quando il discorso cadeva sul ’45 e sul ’48, o su Giado.
Della morte non era bene parlare soprattutto in presenza di bambini. La morte a Tripoli era un evento molto più famigliare che non in Occidente. Se a mancare era un ebreo, la morte lambiva tutta la comunità. Non c’era persona che non esprimesse il suo cordoglio. I funerali degli arabi potevano bloccare il traffico anche per ore. Ma una cosa è la morte naturale. Altra cosa è la morte in seguito ad un episodio di violenza organizzata.
Le immagini dei ricordi del ’45 da me segretamente carpiti erano opprimenti. Per alleviare l’angoscia cerco le tracce di un’altra storia, dell’autodifesa ebraica che nel ’45 respinse la folla omicida all'ingresso della Hara (il quartiere ebraico) e nel ’48 arrivò preparata al nuovo tragico appuntamento.
Tra i molti indizi, vi era la fossa comune in una zona appartata del cimitero, dove era stata eretta una grande tomba in memoria di Mushi Fellah, un uomo facoltoso che aveva commesso l’imprudenza di affrontare da solo le persone che l’hanno poi assassinato.
Vent’anni dopo, nel giugno del 1967, nelle settimane che abbiamo passato asserragliati nelle nostre abitazioni, il nipote Simon per poco non faceva la stessa fine. Come se la parvenza di normalità che aveva contraddistinto i nostri rapporti con la maggioranza islamica fossero ancora quelli di un tempo, aveva commesso l’imprudenza di affacciarsi dal portone di casa. A salvarlo furono le urla della Sig.ra Baranes che aveva seguito la scena dal balcone della casa di fronte. Agile come un gatto e forte come una tigre, Simon poteva sferrare dei pugni devastanti. Ma in quel momento era in difficoltà. Era solo, contro molti, alcuni dei quali armati. In più era anche inciampato cadendo. Bastava poco per finirlo. Ma ce la fece a rialzarsi e a chiudere dietro di sé il portone.
Ripetere per cambiare è un impulso profondo che proviene dall’inconscio, che purtroppo non sempre riesce. In silenzio dissi: “Signore del cielo, Ti ringrazio”.

Il Sionismo metteva anche in pericolo?
Nella mia infanzia Israele rappresentò un luogo magico dove avrei potuto conoscere i nonni e gli zii, era il luogo del riscatto, di un amore unico in cui gli affetti personali e le aspirazioni culturali si saldavano.
Tra i ricordi più dolorosi della mia infanzia, fu una notte passata a bruciare foto e lettere dei parenti ricevute da Israele attraverso l’Italia. Il governo libico dopo avere messo sotto il suo diretto contro la comunità ebraica e nominato un commissario governativo, voleva avere informazioni precise su chi era partito. Piansi tutta la notte per quelle foto bruciate. Erano l’unica testimonianza visiva che avevo, dei miei parenti. Chi sa se gli avrei mai visti. Ormai eravamo ostaggi. Se una famiglia voleva partire anche per una visita medica, qualcuno doveva restare in ostaggio.

Le violenze ripresero sistematiche nel 1967, dopo una crescente ostilità contro Israele e gli ebrei: come si svolsero gli eventi?
Le avvisaglie del pogrom c’erano state venerdì due giugno, quando anche gli ulema avevano invocato nelle moschee la guerra santa. Quasi contemporaneamente era stata indetta per il cinque giugno una settimana di propaganda in favore della causa palestinese, alla quale sotto la pressione della propaganda egiziana e siriana, si era associato anche il governo, dichiarando in nome del Re che il Paese si considerava “in stato di guerra difensiva” e si poneva a piena disposizione per “la liberazione della Palestina”.
Le radio accese a tutto spiano in ogni luogo affermano che l’entità sionista non ha più speranza. Presi dal panico i notabili della comunità avevano inviato al Re un telegramma di solidarietà, in cui si affermava una posizione di neutralità e si sottolineava la fedeltà alla sua persona. L’angoscia era grande. Come ogni anno in occasione della giornata della Palestina i più benestanti avevano dovuto versare “il loro obolo” per la Palestina. Odiosamente taglieggiati, avevano dovuto fingere di essere felici, sperando che il male minore proteggesse da quello peggiore.
Nel chiuso delle sinagoghe fu stato proclamato il digiuno; nelle case sono stati accesi i lumi a Rabbì Meir e a Bar Yochai. Più di ogni altra cosa mi terrorizzava in quei giorni la prospettiva di una violenza generalizzata contro le donne. Avevo paura per mia sorella, per mia madre e per mio padre. Le immagini terrifiche di quel che sarebbe potuto accadere erano attenuate dall’angoscia prodotta dall’immagine degli eserciti arabi che accerchiavano lo Stato ebraico. Tel Aviv distava pochi chilometri dal fronte orientale, il confine a Gerusalemme era costituito da un reticolato.
Nel buio e nel silenzio della notte mi chiedevo che cosa sarebbe accaduto se a colpire per primi fossero stati gli eserciti arabi. Alla notizia dello scoppio della guerra, il 5 giugno ’67, la folla era esultante per le strade. Radio Cairo annunciava la distruzione di Tel Aviv e Haifa. Sapevamo che erano notizie false, cui la propaganda araba ci aveva abituati, ma l’angoscia era grande. Dai balconi della sede dell’OLP arrivano appelli alla guerra santa.
Nell’attesa silenziosa e interminabile che i famigliari e i vicini tutti rientrassero a casa, mi chiedevo angosciato cosa avremmo dovuto fare se la folla avesse tentato ora di forzare il portone d’ingresso del palazzo in cui abitavamo. Mio fratello Isaac era riuscito a fuggire da una finestra interna, quando l’ufficio era già in fiamme. Come nel ’45 e nel ’48 gruppi di giovani avevano segnato di gesso le case e i negozi degli ebrei. Solo con difficoltà, dopo aver proclamato lo stato di emergenza e il coprifuoco, le autorità erano riuscite a riprendere il controllo della situazione.
Il momento critico fu giovedì 8 giugno quando la polizia dovette fronteggiare una marcia su Tripoli dei contadini di una vicina località (Zawia), che aveva fornito la più alta percentuale di volontari libici per la “guerra santa contro gli infedeli”. Armati di bastoni e coltelli, volevano ripulire Tripoli di ogni presenza ebraica. La congiunzione delle due proteste doveva segnare l’inizio di una sollevazione generale che avrebbe dovuto coinvolgere, nelle intenzioni degli organizzatori, importanti settori dell’esercito. Le cose andarono per fortuna diversamente.
Gli ebrei che vivevano ancora nell’antico quartiere furono evacuati e trasportati a centinaia con altri fatti affluire dai quartieri della città nuova, nei posti di polizia, nelle caserme e del campo di Gurgi, alla periferia della città. Nei giorni seguenti le notizie degli scontri avvenuti alla periferia della città tra la polizia e i rivoltosi si erano mescolate al terrore panico che l’aviazione israeliana si accingesse a bombardare il Paese.
Nella fantasia collettiva Israele era ora onnipotente, i suoi soldati potevano arrivare ovunque per ripagare con la stessa moneta le efferatezze compiute contro gli ebrei indifesi. L’isteria collettiva era favorita dalla notizia che gli israeliani erano entrati nello spazio aereo egiziano da ovest e non da est come ci si attendeva. Il timore di subire la sorte che avevano preconizzato per gli ebrei, si era trasformata in terrore e panico. Nella mente esaltata di chi fuggiva verso l’interno, gli israeliani sarebbero potuti arrivare da un momento all’altro per vendicarci…

Come ha vissuto quei momenti?
Dalle tapparelle chiuse delle finestre di casa non si capiva granché, ma era possibile vedere gruppi di auto e di moto cariche di sacchi di farina in fuga. L’attività economica era totalmente paralizzata, la gente che alcuni giorni prima esultava, vagava inebetita. Cessati erano gli abbracci sotto la sede dell’OLP dei giovani volontari per il fronte, vicino a camion carichi di masserizie, il tè incluso, per una gita di morte.
L’esaltazione parossistica aveva lasciato il posto alla disperazione più cupa. Il silenzio era rotto di notte dai passi pesanti dei militari che montavano la guardia alle nostre abitazioni. I camion della polizia si avvicendavano per le strade deserte. Chiusi nelle nostre case, passavamo interminabili giornate davanti ad un televisore comune. Non vi era nulla che indicasse un possibile ritorno alla situazione precedente.
Non sapevamo nulla dei nostri parenti e di mio fratello Simon, emigrato sette anni prima in Israele. Ci chiedevamo cosa fare se l’esercito o la polizia fossero venuti a prelevarci per il campo di Gurgi, come garantirci da una trappola.
L’idea era di guadagnare tempo, dire se necessario che eravamo in contatto con il vicino comando di polizia, chiedere ai capi della comunità in possesso di un passaporto straniero di informare le loro ambasciate e le autorità generali di polizia e dello Stato di ogni possibile sviluppo.
Mia madre era ossessionata dal pensiero che la polizia potesse fare con noi quello che avevano fatto i nazisti. Chi poteva garantirci che i militari dopo averci caricato su dei camion con la prospettiva di portarci in un luogo sicuro, non decidessero poi di ucciderci. Come darle torto? Non era già avvenuto così in Europa? Eravamo soli e tagliati fuori dal mondo.
Avevamo bisogno di garanzie, ma a chi chiederle? Mia madre non si dava pace. Incitava tutti a rifiutarsi di seguire la polizia nel caso lo avesse richiesto. Mio fratello Yakov aveva assunto la direzione dell’intero blocco e poteva contare sul sostegno attivo dei miei fratelli. A chi chiedeva che fare mio fratello e mia madre ripetevano che bisognava in ogni caso guadagnare tempo, far capire che non eravamo isolati, che avevamo amici nel comando di polizia, che la nostra situazione era seguita all'esterno, che altri s’informavano su di noi. Incrociare eventuali richieste, con telefonate al comando di polizia e con scambi d’informazione con conoscenti che avessero un passaporto straniero con la richiesta di informare le ambasciate.
Le paure di mia madre erano fondate. Come avremmo saputo in seguito, con quella tecnica un gruppo di soldati aveva prelevato e trucidato due famiglie che abitavano nelle prossimità della nostra abitazione. Con uno dei ragazzi trucidati, avevo parlato la sera prima del pogrom. Tornando insieme a casa, ricordo di avergli detto che eravamo in pericolo e che dovevamo preparaci al peggio. Ma che Israele non sarebbe mai sparita dalla faccia della terra.
Eravamo in cinquantadue e dividevamo il cibo che mia madre riusciva a procurarsi grazie ad una famiglia di mussulmani di colore con cui avevamo buoni rapporti. I figli avevano partecipato al saccheggio, ma con noi si comportarono diversamente e acquistavano per noi tutti del cibo ricevendo in cambio dei piccoli doni. Per non creare sospetti tra i vicini arabi e palestinesi, dopo aver fatto la spesa, chiamavano mia madre col nome della loro figlia più piccola, ‘Ishà. Come noi altre famiglie avevano incontrato in quei giorni la solidarietà dei vicini cristiani e mussulmani. Il giorno della partenza la mamma di ‘Ishà aveva chiesto perdono per il peccato commesso di fronte a Dio. Non l’ho dimenticato.
Potevamo dirci fortunati. Abitavamo non molto distanti dal comando centrale di polizia. La sera ci riunivamo tutti in una casa per ascoltare insieme le ultime notizie dalla viva voce di Arrigo Levi. Passata la grande paura, c’era chi scaricava la tensione accumulata mimando l’ultimo discorso di Nasser, in cui si annunciavano le dimissioni e lo scambio di telefonate fra Re Hussein e il rais egiziano, intercettate dai servizi segreti israeliani. Maliziosamente qualcuno sorrideva di un uomo anziano risposato da poco, che si faceva il bagno tutte le sere prima di appartarsi nelle proprie stanze. Un altro si faceva preparare dalla moglie dei biscotti a forma di stella di David, che portava al collo festoso.
Una sicurezza nuova aveva trovato posto nei cuori. In molte case si concepivano nuove vite. Alla vista sul video dei soldati di Israele che pregavano al muro occidentale, la commozione era alta. Ma un pensiero non mi dava pace: pensavo a chi non era più e mi chiedevo semmai avrei rivisto mio fratello.
Le immagini sul video si avvicendavano. Una donna palestinese guardava col figlio il ponte Allenby. “Poveretti” esclamò una bimba fra noi. “Poveretti mrd” (poveretti un accidente), le fece eco un altro. “Se fosse andata diversamente, per noi sarebbe finita”. Nasce una discussione. “È una piccola”, dice uno. “Piccola un corno” sta per dire un altro. Si trattiene per non ferire quell’anima e non offendere il padre. La voce smarrita di quella colomba, salita al Cielo come una preghiera dalle nostre case indifese, era la conferma che la paura e l’angoscia non avevano intaccato l’amore e l’empatia per le sofferenze altrui.

Come siete fuggiti?
I giorni passavano e noi restavamo rinchiusi nelle nostre case. In una casa c’era il telefono che squillava. Il più delle volte erano telefonate minatorie che mettevano a dura prova i nostri nervi. Un giovane ebreo che aveva commesso l’imprudenza di riaprire i battenti della sua macelleria per portare della carne a degli amici, era stato ucciso a coltellate. Una giovane si era messa il velo arabo per procurarsi del pane, tradita dal suo accento, era stata uccisa sul posto.
Chi possedeva un passaporto straniero, aveva già lasciato la città. Per noi tutto era più complicato. Avevamo bisogno di un visto di uscita e di un Paese disposto almeno a farci transitare per Israele. Un Paese c’era ed era l’Italia. Alla fine dopo lunghe trattative internazionali, il governo libico aveva deciso di offrire un visto turistico di tre mesi agli ebrei che lo avessero richiesto.
Avrei dovuto essere felice. Quel momento lo avevo accarezzato e sognato per anni. Ma ora che si avvicinava quel momento, ero pieno di amarezza. Non sapevo chi dei miei amici era ancora vivo, la sera del 5 giugno le fiamme erano salite molto in alto sull’antico quartiere ebraico. Non l’avevo immaginata così la mia partenza. Se uno di noi era preso dalla tristezza, vi era sempre qualcuno che lo incoraggiava benevolmente. Se qualcuno aveva telefonato a dei colleghi di lavoro arabi per salutarli, ricevendo in cambio ingiurie e minacce di morte, c’era chi rideva di crepacuore per l’ingenuità e l’inconfessato bisogno di amore.
Durante i preparativi dalla tasca di mia madre era caduto un calzino. Era di mio fratello che aveva lasciato il Paese sette anni prima. Quante volte ci avevano richiesto di dare una spiegazione per quell’assenza, alle autorità e ai vicini arabi. Mia madre non si era mai separata da quel calzino. Lo teneva segretamente fra le tasche come un amuleto. Mio fratello era al fronte siriano e non sapevo se aveva fatto ritorno. Vedendo quella scena mi sono detto in silenzio: “Signore, fa’ che sia vivo!”.
Il giorno della partenza c'era una jeep della polizia ad attenderci. Era mattino presto, l’aria era fresca per la brezza marina, presto avrebbe fatto un caldo afoso. Il poliziotto armato di mitra non vedeva l’ora di liberarsi dall’ingrato incarico. Mi sentivo solo con i miei bagagli. Il sogno di lasciare per sempre il mio Paese si stava per avverare, ma non era così, che avevo immaginato la mia partenza.
Fu lì che cominciai a pensare che il racconto biblico dell’Esodo, era stato in realtà abbellito e capovolto nei suoi significati originari. La fuga con le azzime era stata la vera realtà che il testo biblico ha conservato con grande evidenza. Le piaghe che colpirono l’Egitto esistettero solo nella fantasia di chi si era salvato fuggendo. Cominciai così a guardare in una nuova luce “La cantica del mare”, a rappresentarmi il nemico che annega non come un evento accaduto realmente. Le schiere egizie che annegavano nelle acque erano dei fantasmi persecutori che finalmente potevamo lasciarci per sempre alle spalle.
Nella solitudine di quegli attimi, mentre confusamente cercavo di dare un ordine ai miei pensieri, avevo visto passare un amico italo-maltese. Fu il nostro uno sguardo carico di parole, un saluto rapido. Come se nulla fosse accaduto, c’eravamo detti “ciao”.

E così siete divenuti profughi…
A lungo ho vissuto come se l’esperienza della mia infanzia appartenesse al passato remoto. Era una frattura nel tempo e nello spazio. Un grande spartiacque divideva la mia vita. Il prima e il dopo erano irriducibili. Eppure erano passati pochi anni. Occupandomi del problema anche da un punto di vista professionale, lavorando con persone che hanno vissuto dei traumi collettivi, ho poi compreso che il mio sentire rispondeva a uno schema.
Gli attori potevano avere trascorso l’infanzia e la giovinezza a mille e più chilometri di distanza dai luoghi in cui vivono attualmente: Roma, Parigi, New York, Londra e Tel Aviv. Ma la frattura interiore segue lo stesso andamento. Solo molto tempo dopo, grazie alle nuove generazioni che non hanno sperimentato direttamente il trauma, i legami possono riannodarsi rinnovando l’interesse per i luoghi del passato. Nel mio dolore non ero solo.
Elaborando la mia storia, ho potuto essere di aiuto a chi in condizioni diverse ha vissuto esperienze di sradicamento ed era alla ricerca di un ritrovamento che rendesse sopportabile l’esperienza della perdita e del dolore. Come analista, ho avuto modo di lavorare con pazienti europei e israeliani, arabi e iraniani, ebrei, musulmani e cristiani.
La preoccupazione per l’esistenza di Israele mi ha accompagnato dalla prima infanzia. Come ha scritto Celan, pensare a Israele, è preoccuparsi per la sua esistenza futura. Se anche lo avessi dimenticato, e non avrei mai potuto, la cancellazione per legge dalle mappe geografiche di quel punto minuscolo chiamato Israele era la proiezione simbolica di un programma omicida, che la violenza verbale delle trasmissioni delle radio arabe rendevano esplicito.

Ha mai pensato di tornare?
Impegnato a sostegno del dialogo e per una composizione politica del conflitto che lacera il Vicino Oriente, l’idea di un ritorno al mio Paese natale, anche per una breve visita, non mi aveva mai sfiorato. Non c’era più nulla che mi legasse a quel passato. Mi ritenevo fortunato perché ne ero uscito vivo. Il vincolo tra le generazioni non si era spezzato, i figli hanno potuto conoscere i nonni, la gente ha potuto ricrearsi una vita libera in luoghi più ospitali.
Ma vi è pur sempre qualcosa d’inquietante nel ritenersi fortunati perché altri hanno avuto un destino inenarrabile. Le emozioni possono sciogliersi nell’incontro con i profumi dell’infanzia, nell’attesa a uno scalo aereo, in treno, seduti al bar o osservando i figli che giocano.
Molti anni fa, durante una sosta all’aeroporto di Roma, sul tabellone che indicava dei voli in partenza due scritte ben distinte (Roma-Tel Aviv, Roma-Tripoli), a causa della stanchezza dell’attesa, mi apparvero come sovrapposte. Per un attimo ebbi la sensazione che un luogo portasse all’altro e viceversa. Come in sogno potevo partire e tornare, essere ovunque a casa perché il mondo intero è una casa e l’umanità intera è una sola famiglia.
La mia Tripoli aveva viaggiato con me, era parte del mio mondo onirico insieme ai ritmi della musica orientale così ricca ed espressiva, ai canti d'amore e a quelli liturgici che udivo in casa da bambino per la birkhat levanà (benedizione sulla luna, n.d.r.); alla nostalgia che provo quando penso agli amici perduti, all'intensità dei profumi della mia infanzia, alla brezza marina, alle fantasie che facevo guardando le navi in partenza immaginandomi al loro interno, cullato e protetto, al piacere che provavo nel passare dall’arabo all’ebraico e dall’ebraico all’arabo, nel comporre un tema in italiano come se fosse latino. Passare dall’ebraico all’aramaico come fosse un gioco.
La mia coscienza vigile poteva cedere a una piacevole fantasia…

Di voi ebrei profughi non si parla mai: quali sono i risvolti psicologici e politici?
Sono nato e cresciuto in un Paese arabo che ho lasciato per sempre dopo un sanguinoso pogrom, il terzo nella storia della mia famiglia in poco più di vent’anni. Lungo l’arco di due decenni, centinaia di migliaia di ebrei hanno forzatamente abbandonato le loro case e i loro averi in ogni area del mondo arabo e islamico.
Le minoranze ebraiche non avevano partecipato alla guerra di distruzione scatenata dagli eserciti della Lega Araba contro il nascente Stato di Israele e non costituivano un pericolo per nessuno. Erano ostaggi. La loro fuga fu silenziosa. Ignorata dalla stampa internazionale.
Spariti gli ebrei dal mondo arabo, è toccato ai resti delle antiche civiltà che avevano popolato il Vicino Oriente prima delle invasioni arabe. La centralità della Shoah nel dibattito sulla legittimità dell’esistenza di Israele ha fatto sì che la memoria delle sofferenze degli ebrei del mondo arabo fosse occultata per lungo tempo agli occhi anche degli israeliani.
Solo di recente si è cominciata a comprenderne l’enorme valenza simbolica e politica. Ricordare le sofferenze degli ebrei nei Paesi arabi è un salutare richiamo alla complessità dei problemi e alla realtà. Se si accetta che anche loro sono un elemento del complesso e sfaccettato mosaico mediorientale, le cose appaiono in una luce diversa.

E riguardo a Israele e ai profughi arabi?
Se gli Stati arabi avessero accettato il voto di spartizione dell’Assemblea delle Nazioni Unite, forse la storia avrebbe preso una piega diversa. Nel giorno in cui si festeggia la nascita di Israele, avrebbero potuto far festa anche i palestinesi. Con la loro politica verso le minoranze ebraiche, gli Stati arabi hanno fornito – sempre che ce ne fosse stato bisogno – una conferma della necessità dell’esistenza di Israele.
I profughi ci sono stati da entrambe le parti con una grande differenza. Nel caso degli ebrei si trattava di comunità indifese e lontane dal teatro di guerra, mentre i palestinesi erano una componente attiva di una guerra voluta dal mondo arabo. Gli ebrei caduti in mano agli eserciti arabi furono uccisi, messi in fuga, o fatti prigionieri. All’interno di Israele una parte consistente della popolazione araba è rimasta o è potuta tornare alle sue case.
Quando nacque, lo Stato di Israele aveva circa seicentomila abitanti. A parte i sopravvissuti che languivano nei campi europei nell’attesa di un Paese che li accogliesse, l’unico luogo da cui poter attingere per rimpiazzare l’Ebraismo scomparso era l’Oriente arabo. Ideato per far rinascere nell’antica terra dei padri “l’ebreo nuovo”, il sionismo poteva salvarsi solo con l’arrivo dei sopravvissuti ai Lager e dei loro fratelli oppressi dell’Oriente.
La società israeliana ha accolto i suoi esuli con una tensione morale incomparabilmente alta. L’arrivo degli immigrati fu considerato un valore in sé oltre che una necessità per non soccombere alla sfida demografica. Pur con le difficoltà dei primi anni, la vita nelle baracche e un senso d’insoddisfazione e di alienazione venuto a galla nei decenni successivi, gli ebrei di origine afroasiatica furono considerati e si consideravano parte di un processo di rinascita nazionale e di riscatto dopo secoli di umiliazioni.
Diversa è la situazione alla quale sono andati incontro i palestinesi. Per una scelta politica degli Stati arabi, la loro condizione di profughi divenne ontologica. Anche se il mondo arabo era immenso e lo spostamento era stato in alcuni casi limitato a qualche chilometro dagli antichi villaggi, l’idea di una loro integrazione nei Paesi arabi circostanti o lontani fu violentemente osteggiata. Il verdetto religioso e nazionalista era ineluttabile: la creazione di una patria ebraica nel cuore della nazione araba e dell’umma islamica era una violazione degli ordinamenti divini e terreni.
Aver considerato l’esistenza di Israele un’onta che poteva essere lavata solo tornando allo status quo ante, è stata la grande colpa morale e politica del nazionalismo arabo, il segno di un’immaturità politica, l’origine di un fallimento più generale.





Intervista a Cecilia Nizza-Cohen Hemsi


Intervista a Cecilia Nizza-Cohen Hemsi
Profuga dall'Egitto
La casa della famiglia Cohen Hemsi ad Alessandria, via Fouad nel 1947
La casa oggi

Siete stati espulsi dall’Egitto subito dopo la creazione dello Stato di Israele. Quali sono i ricordi della tua famiglia?
Devo dire che non ho ricordi personali: quando siamo stati espulsi, ero piccola. La mia famiglia era una famiglia di ebrei francofoni di Alessandria. Quando siamo stati cacciati, siamo andati per alcuni mesi in Francia, poi un anno in Israele, per poi stabilirci a Milano.

In casa tua si parlava del passato in Egitto con nostalgia, come in molte famiglie ebree egiziane?
I miei genitori non hanno fatto nulla per coltivare un sentimento nostalgico del passato egiziano, dello “Egyptus felix”. Frequentavano una cerchia di amici, anche loro profughi stabilitisi in Italia, ebrei e non ebrei, ma nessuna nostalgia se non in piccole cose.
A Milano c’era un negozio di articoli orientali e ricordo che una volta mio padre comprò la guava che per me era un frutto meraviglioso, o la bottarga. C’erano cibi tipici egiziani che si mangiavano come i falafel, il hamin, cioè i fagioli in umido: semmai la nostalgia si esprimeva mantenendo la tradizione culinaria.
Ci sono alcune parole in arabo che si usavano in casa, come “agami” (straniero), “haram” (peccato), “zeft” (schifo). Ricordo anche una canzone in ladino, che mio padre parlava pur non avendolo mai insegnato a noi figlie.
Il mio sradicamento dall’Egitto l’ho vissuto proprio in Italia, dove non era ben visto allora il bilinguismo – in casa parlavamo francese –, e il fatto che venissimo dall’Egitto faceva di noi poco più che dei primitivi!

Com’era la vita ebraica in Egitto?
C’erano due grandi comunità al Cairo e ad Alessandria. Noi siamo alessandrini. Mio padre, Joseph Cohen Hemsi, era redattore capo del Journal d’Alexandrie, dove scriveva anche di letteratura e di musica; aveva ricevuto un’educazione ebraica religiosa, che abbandonò dopo esser rimasto orfano a quindici anni. La sua famiglia era egiziana da generazioni, con passaporto italiano. Quindi forse erano di origine spagnola, giunti in Egitto dopo un passaggio in Italia.
Sotto il fascismo avevano perso la cittadinanza, perché il regime l’aveva tolta agli ebrei che non erano residenti in Italia. Mia madre era di famiglia bulgara e rumena, i suoi genitori si erano trasferiti in Egitto all’inizio del XX secolo.
La vita della mia famiglia, come delle altre comunità di origine europea in Egitto, era una vita tipicamente coloniale, con ricevimenti nelle sedi diplomatiche, domestici, circoli culturali e una vita intellettuale intensa. Poi c’erano ebrei più arabeggianti, che abitavano di più al Cairo e a Ismailia, che frequentavano meno i circoli europei e intellettuali.

Voi siete stati cacciati nel 1948, perché?
Già nel 1942, quando sembrava che Rommel sfondasse le linee, i miei genitori, appena sposati, erano fuggiti dall’Egitto verso la Palestina, dove, a Gerusalemme, mia sorella è nata. Nel 1943 tornano in Egitto convinti di riprendere la vita di sempre.
Nel 1947 mio padre pubblica un libro, Notre Combat, che ho ripubblicato nel 2007 – una raccolta di articoli scritti dal 1942. Il filo conduttore era la permanenza dell’antisemitismo dopo la sconfitta del nazismo, in particolare dell’antisemitismo in Egitto, dei Fratelli Musulmani e dei Giovani Egiziani, esprimendo però fiducia nell’amicizia tra arabi ed ebrei: era conscio che l’insorgere dell’antisemitismo era legato al sionismo, ma era fiducioso che un futuro Stato ebraico non avrebbe portato alla rottura tra arabi ed ebrei.
Risultato: prima fu internato nel campo di Abukir e poi espulso! Dei suoi fratelli, invece, uno lasciò il Paese nel 1953, mentre le sue sorelle nel 1956. Tutti si sono stabiliti a Milano, mentre nel 1960 il fratello ha fatto l’aliyà.

Fu incarcerato come sionista?
Nel maggio del 1948, subito dopo lo scoppio della Guerra di Indipendenza, con un migliaio di persone, accusate di attività sioniste e di comunismo, fu rinchiuso nel campo di prigionia di Abukir. Nei suoi diari mio padre parla della sua prigionia, dei suoi amici, tra i quali anche il noto collezionista Arturo Schwarz.
Mia sorella si ricorda ancora che andavamo a trovarlo. Finalmente mia madre ritrovò, negli scantinati dell’Ambasciata d’Italia al Cairo, il passaporto italiano con il quale potemmo lasciare il paese.
Ho un vago ricordo di quando, appena rilasciato e accompagnato dai miei zii, giunse direttamente al porto di Alessandria da cui siamo dovuti partire. Iniziava così la nostra vita di profughi.

Com’è stata la vita da profughi?
Ricordo poco, forse del mio pianto nel momento in cui dalla nave ci congedavamo dalla famiglia. La mia vita è cominciata veramente a Milano. Una vita difficile. Di tutte le cose che avevamo in Egitto si salvò solo una radio, con la quale mio padre ci ha iniziato alla musica classica. Della cassa di libri, divenuta poi un mito familiare, papà diceva che era andata perduta all’arrivo in Italia, probabilmente a Brindisi. Per lui fu una grave perdita, perché conteneva la sua biblioteca, cui teneva molto.
Con la guerra del Sinai, arriva l’ondata di profughi, quando la situazione per gli ebrei nell’Egitto di Nasser divenne impossibile. Si integrarono subito, vincendo l’iniziale diffidenza ambientale.
Il merito va sicuramente alla Scuola Ebraica che, nata quando vennero approvate le leggi razziste antiebraiche, dopo la guerra rimase in attività, divenendo il punto di raccolta per tutti quegli ebrei che dovevano lasciare i loro Paesi d’origine (libici, libanesi, persiani), per le vicende legate al conflitto arabo israeliano.
Nei primi anni in Italia mio padre scriveva ancora, su “Combat” di Camus e su altri giornali italiani, in particolare di Medio Oriente. In casa si parlava poco delle vostre vicende, sulla stampa mai.

Quando hai recuperato la tua identità “egiziana”?
Quando ho fatto l’aliyà e mi sono stabilita in Israele. In Italia nessuno mi ha mai chiesto della nostra vicenda, né ha mai chiesto di noi profughi. La nostra storia, e lo capisco, non poteva competere con una tragedia come quella della Shoah. E anche in Israele fu a lungo sottovalutata.
Ora invece se ne parla: ho recuperato la mia storia e la mia identità grazie a Levana Zamir in Israele e Yves Fadida in Francia, che hanno fondato due Associazioni di ebrei egiziani. Nel 2006 una mia amica m’informò di un convegno sugli ebrei d’Egitto, in programma a Haifa. Ci sono andata con il libro di mio padre e altri suoi scritti e lì ho conosciuto Levana Zamir e Yves Fadida, che mi hanno spinto a ripubblicare il libro di mio padre.
Finalmente ho preso coscienza di non sapere nulla della nostra storia, del nostro passato, di noi profughi ebrei dai Paesi arabi.

La tua consapevolezza politica e la tua identità non sono mai state legate alle vicende della tua famiglia?
La mia forma mentis liberale la devo a mio padre, mentre la mia consapevolezza politica l’ho acquisita nel 1967. La nostra impostazione intellettuale era critica, fondata sul dubbio. Pur essendo laico, aveva un forte senso dell’identità ebraica, su cui ha scritto molto, anche sulla figura di Gesù ebreo!
Grazie a questa formazione ho capito subito, nel 1967, che l’antisionismo è semplicemente antisemitismo. Ricordo le discussioni e le divisioni nei circoli giovanili ebraici con la maggioranza di sinistra, che ci accusava di essere fascisti.

Il ricordo della vostra storia di profughi ebrei dai Paesi arabi è recente; di voi non si è parlato per molto tempo e s’incomincia solo ora: perché?
Come dicevo prima, il ricordo della Shoah è prevalso rispetto alla nostra storia. Ma in fondo siamo tutti sopravvissuti, perché se il progetto di Himmler fosse andato in porto, anche gli ebrei dall’Africa alla Palestina mandataria sarebbero stati sterminati.
Anche nell’Africa del Nord ci sono state discriminazioni e persecuzioni anti-ebraiche: in Tunisia, in Algeria, in Libia, dominate dalla Francia petainista e dall’Italia fascista. E nemmeno di questo si parla. Ancor meno di noi profughi.
A livello personale, solo ora mi rendo conto di questa realtà. Veramente, non si parlava nemmeno di Shoah, perfino alla scuola ebraica, dove a ricordarci questa tragedia c’era solo un grande pannello con i nomi degli insegnanti e degli allievi deportati. È un percorso che ho fatto in maniera autonoma, con letture, film, spettacoli teatrali.
E poi, mentre negli anni ’60 frequentavo l’università, lavorando negli uffici della Comunità Ebraica, ho avuto l’incarico di battere a macchina gli elenchi dei deportati italiani, scoprendo l’enormità di quanto successo. Così, impegnata con i miei compagni nel movimento giovanile ebraico, siamo stati in grado nel 1965 di organizzare la celebrazione del ventesimo anniversario della fine della guerra. Ci siamo occupati di Shoah ma mai di profughi ebrei dai Paesi arabi.

Che valore ha parlarne?
Credo che sia una questione importante per vari motivi. È ora che ci si renda conto di quello che abbiamo passato, perché è una sofferenza che si somma a un’altra sofferenza. In fondo è il senso degli scritti di mio padre, che aveva proprio messo in guardia dalla permanenza dell’antisemitismo pur dopo la sconfitta della “belva nazista”.
Poi, con riferimento al conflitto con i palestinesi, perché non mettere sul tavolo delle trattative gli 800.000 profughi ebrei dai paesi arabi?





Intervista a Sharon Nizza


Intervista a Sharon Nizza
Seconda generazione di famiglia ebrea egiziana


Appartieni alla seconda generazione di profughi ebrei dai Paesi arabi. Quando hai iniziato a interessarti di ebrei profughi dai Paesi arabi?
In casa non si è mai parlato molto delle origini egiziane. Ho incominciato ad interessarmi all’argomento all’università: ho frequentato un corso sull’Egitto contemporaneo col prof. Meir Hatina, che ci ha parlato del Centro Accademico Israeliano al Cairo.
Mi sono interessata agli israeliani al Cairo e alla presenza ebraica, così ho recuperato le mie origini.
Joseph Cohen Hemsi

La figura di tuo nonno, Joseph Cohen Hemsi che ruolo ha avuto?
Ho scoperto il suo libro e i suoi diari. Il suo libro, Notre Combat, era dedicato alla madrepatria Egitto, ma dopo la pubblicazione nel 1947 era stato censurato e le copie bruciate tranne una.
Nel 2007 lo abbiamo fatto ristampare con un’introduzione. Nei diari di mio nonno, che ha scritto fino alla sua morte, è chiaro che non si è mai ripreso dal trauma di esser stato espulso dal Paese che considerava la sua patria e dall’ambiente cosmopolita e intellettuale in cui credeva. In uno dei diari scrive che se entro cent’anni dalla sua nascita non fosse stato ripubblicato, si sarebbe dovuta distruggere anche l’ultima copia. E siamo riusciti a ristamparlo prima dei cent’anni.

Le sue analisi sono legate all’Egitto del dopoguerra: come influiscono su di te oggi?
Mio nonno denunciava la permanenza dell’antisemitismo anche dopo la Shoah, soprattutto in Egitto e nel mondo arabo, ma credeva anche nel legame tra ebrei e arabi. Era sionista, e i suoi scritti sulla rinascita nazionale del popolo ebraico mi hanno fatto capire molte cose di me e della mia identità sionista.
Così ho incominciato ad interessarmi di profughi ebrei dai Paesi arabi, di cui sapevo poco.

Dopo due generazioni, tu sei ritornata in Egitto: come è stata la tua esperienza?
Sono stata in Egitto due volte, alla ricerca delle origini, la prima volta nel 2007 e poi nel 2012. Ho visto la casa in cui viveva la famiglia di mia madre ad Alessandria, in shari’ Fuad; ho visitato le tombe dei miei famigliari al cimitero di Alessandria, che è ormai abbandonato. Ho visitato altri luoghi della vita in Egitto della mia famiglia, che esistono ancora nonostante il degrado avanzato.

Hai conosciuto membri della comunità ebraica?
Ho avuto modo di conoscere vari ebrei egiziani. Al Cairo i luoghi ebraici sono presidiati, tanto che non si possono nemmeno fotografare; all’interno della sinagoga principale del Cairo, Sha’ar Hashamayim, c’era un ragazzo egiziano che faceva la guida, parlando di una fittizia prosperità della comunità ebraica egiziana.
Sono ritornata in Egitto dopo la rivoluzione, e sono stata al tempio del Cairo per le festività di Kippur e Sukkot – eravamo forse in sette. È stato molto emozionante; ho fatto amicizia con alcuni membri della comunità che mi hanno raccontato come vivono in Egitto.

Qual è la situazione per gli ebrei in Egitto ora?
Alcuni vivono in Egitto perché non hanno i mezzi economici per potersene andare, altri invece continuano a vivere in Egitto per interesse. Ho conosciuto anche l’ultima parente della mia famiglia rimasta in Egitto, una prozia. Nel 2012 stava abbandonando il Paese, perché si temeva il peggio con l’avvento al potere dei Fratelli Musulmani. Ora vive in Canada.
L’identità ebraica in Egitto è ormai cancellata, e quei pochi che sono rimasti non si identificano come ebrei, alle volte tengono nascosta la loro identità; certo la paura che esprimevano per il nuovo regime era dovuta anche al loro essere ebrei, ma principalmente come egiziani.

Perché ritieni importante parlarne? In fondo sei la seconda, o forse terza generazione, ormai vivi in Israele.
Non userei proprio la parola profugo perché non sono mai stati riconosciuti in quanto tali. Il fatto che abbiano dovuto abbandonare i loro Paesi e si siano ricostruiti una vita altrove esprime una grandissima dignità, che trae forza dalla storia del popolo ebraico, fatta di persecuzioni e di ricostruzioni, rimanendo legati al passato e progredendo.
Il mio interesse è dovuto anche al fatto che nella narrativa anche israeliana la sofferenza dei profughi dai Paesi arabi è completamente assente. Mio nonno racconta nei diari che espulsi dall’Egitto sono venuti in Israele dove sono rimasti per un anno, nelle tende (ma’abaroth), ma mia nonna non volle rimanere perché non sopportava il fatto che nessuno potesse riconoscere la loro sofferenza. L’attenzione totale era rivolta ai profughi dall’Europa sopravvissuti alla Shoah.

Perché parlarne proprio ora?
Risponde certamente a un senso di giustizia, ma dopo 60 anni è difficile anche parlarne. È anche importante parlarne perché quando si parla di profughi nel Medio Oriente il riferimento assoluto è ai profughi palestinesi, che peraltro hanno uno statuto particolare gestito dall’UNRWA che si tramanda di generazione in generazione.
Idealmente l’esistenza di profughi palestinesi ed ebrei è quasi come uno scambio di popolazioni, com’era avvenuto subito dopo la guerra anche in Europa. Ma metà di questa popolazione transfuga, quella ebraica, è stata obliterata.
Quando lavoravo alla Camera come assistente di Fiamma Nirenstein abbiamo fatto un’audizione su questo argomento e abbiamo riscontrato la generale ignoranza sulla questione. Nessuno ne sapeva nulla. Tuttavia non credo che possa portare a nessun risultato concreto, ma proprio perché sono la seconda generazione sento di dover portare avanti anche questa memoria.





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