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Corriere della Sera Rassegna Stampa
02.08.2010 E' sbagliato boicottare gli accademici israeliani
Perchè l'Europa lo permette? Le dichiarazioni di Esther Orner riportate da Lorenzo Cremonesi

Testata: Corriere della Sera
Data: 02 agosto 2010
Pagina: 29
Autore: Lorenzo Cremonesi
Titolo: «La scrittrice israeliana cancellata: europei, che silenzio ipocrita»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 02/08/2010, a pag. 29, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo " La scrittrice israeliana cancellata: europei, che silenzio ipocrita ".

L'articolo è corredato di un riquadro dal titolo " Il giudizio" nel quale viene riportata una dichiarazione della scrittrice israeliana Esther Orner. Nell'edizione cartacea si legge : " Mai impedire un confronto. Anche Tel Aviv ha commesso un errore rifiutando l'ingresso a Chomsky ". La capitale di Israele è Gerusalemme, perciò è impossibile che una cittadina israeliana si sia espressa in questi termini. L'errore è stato corretto nell'edizione online, nella quale si legge : " Mai impedire un confronto. Anche Israele ha commesso un errore rifiutando l'ingresso a Chomsky  ".Meglio tardi che mai.
Ecco l'articolo di Lorenzo Cremonesi:


Esther Orner

TEL AVIV — Non è abituata a fare campagne Esther Orner. La vita pubblica in genere non la interessa. Vede la politica come «un fastidioso diversivo dal mio lavoro di scrittrice». Sopravvissuta all’Olocausto (aveva 8 anni nel 1945), guarda persino con sospetto a quelli che definisce «gli pseudo-intellettuali, ebrei e non, che speculano e cercano di guadagnare dalla tragedia dello sterminio nazista». Eppure, per una volta, è decisa a scendere in campo per difendere «me stessa e tutti gli israeliani dalla crescente intolleranza nel mondo accademico e intellettuale europeo». Tutto cominciò circa due mesi fa, quando un gruppo non meglio identificato di scrittori e accademici arabi (per lo più egiziani e palestinesi) ha chiesto che venisse cancellata la sua partecipazione a un convegno dal titolo: «Scrivere oggi nel bacino mediterraneo, scambi e tensioni», che era stato pianificato per il marzo 2011 presso l’università di Aix-en-Provence («Corriere», 24 luglio).

Lei ne parla con ponderata passione nella sua abitazione tra le viuzze alberate e le palazzine Bauhaus nel cuore della vecchia Tel Aviv. E l’indignazione c’è tutta: «Il fatto inammissibile e terribilmente ipocrita è che, almeno in un primo tempo, l’università abbia accettato il ricatto del gruppo arabo, che minacciava di non esserci se io fossi stata presente. Così, in modo discreto mi fu comunicato che era stato cancellato il mio invito. Quando poi la vicenda, rilanciata e commentata duramente sui siti web israeliani, è diventata di dominio pubblico, il rettorato ha deciso di cancellare completamente l’evento. Ma era ormai troppo tardi». A suo giudizio c’era soltanto una via d’uscita possibile: continuare la programmazione della conferenza. «Il rettore mi ha scritto che ha annullato il simposio in nome della libertà intellettuale. Io rispondo che proprio in nome di quel principio la conferenza avrebbe dovuto aver luogo, peggio per i boicottatori, se poi avessero deciso di autoescludersi».

Francofona per origine (è nata in Germania, ma i genitori la portarono in Belgio nel 1940 per sfuggire alle deportazioni), la sua scelta è stata quella di vivere a Parigi dai primi anni Sessanta al 1983. «I miei valori di riferimento sono quelli legati alla storia dell’Europa occidentale nel secondo dopoguerra», sottolinea. «Ricordo gli anni caldi delle rivolte studentesche. Il Sessantotto era filo-palestinese, ma io e mio marito, che era un fervente militante di sinistra, non eravamo esclusi. Israele era sotto attacco, eppure potevamo parlarne, discutere. Ora mi impongono il silenzio, vengo cancellata. Morale: si sta diffondendo tra i circoli intellettuali europei una pericolosa delegittimazione di Israele».

Un tema che tocca le corde profonde della sua attività di scrittrice. Nel primo romanzo, Autobiografia di nessuno, pubblicato nel 1999, racconta il suo rapporto bloccato con la madre, sopravvissuta ad Auschwitz (il padre invece perì durante le «marce della morte» nel 1945). «In quel libro ho voluto indagare quel nostro legame tanto difficile, impossibile. Iniziato quel giorno dopo la fine della guerra, quando lei mi venne a trovare presso la famiglia di cristiani che mi aveva nascosta. Ricordo: quella sera parlò, raccontò dei campi, dello sterminio, ne ho una memoria sfocata, ma terrificante. Ero una bambina, lei un’estranea. Pensavo fosse tutto falso e volesse solo farmi paura. Poi non ne accennò mai più. Fu il silenzio, e una sfida continua tra noi. In realtà non c’è stata mai alcuna comunicazione. È morta novantaduenne nel 1998. Io oggi ho settantatré anni e solo adesso cerco di capirla, le parlo scrivendo».

Comunicare — magari gridare, anche litigare — però tenere aperto il contatto, è in ogni caso meglio del silenzio. Su questo assunto Esther Orner non esita a criticare la scelta del governo israeliano, la scorsa primavera, di impedire l’entrata nel Paese dell’intellettuale radicale americano di origine ebraica Noam Chomsky, che era stato invitato all’università palestinese di Bir Zeit, in Cisgiordania. «È stato uno stupido errore. A me non piacciono affatto le idee di Chomsky. Ma non possiamo fare agli altri ciò che non vogliamo sia fatto a noi».

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