Moriah, Avishai, e tanti altri
Una vacanza in Italia per 50 giovani israeliani vittime del terrorismo
Testata:
Data: 14/08/2003
Pagina: 2
Autore: Giorgio Paolucci
Titolo: Più forti dei kamikaze
Riportiamo un'importante testimonianza dei cinquanta giovani israeliani vittime del terrorismo ospiti della comunità ebraica in Italia, firmata da Giorgio Paolucci. E' pubblicata su Avvenire giovedì 14 agosto 2003.
La pizza, si sa, in Italia è un'altra cosa. Per Moriah, ragazza israeliana di 15 anni, quella che ha mangiato qualche giorno fa in riva al mar Tirreno è qualcosa di speciale. Ma non solo per motivi gastronomici. A parlare di pizza le veniva il voltastomaco, da quando in quel maledetto 16 febbraio di due anni fa il mondo le era caduto addosso. Ridevano e facevano baccano, lei e gli altri sette amici, seduti al bar del centro commerciale alla periferia orientale di Tel Aviv, dopo avere ordinato pizza e coca-cola per tutti. «D'improvviso un rumore assordante, intorno tutto diventa nero, il braccio sinistro ט come se non l'avessi più, penzola per conto suo. Vorrei urlare ma la voce si è paralizzata in gola. Intorno è tutto nero, i miei amici non li vedo più, dentro di me sale un grande freddo. Mi caricano sull'ambulanza, solo allora so di essere capitata in mezzo a un attentato. Il kamikaze, mi diranno dopo, è uno che ha due anni più di me: mio Dio, come è possibile? E il braccio, dov'è finito il mio braccio?».
«Vedi come lo alzi bene? Brava, hai fatto grandi progressi, vedrai che quando ci si vede l'anno prossimo sarא tutta un'altra cosa». Doriano, giovane fisioterapista italiano, da qualche giorno aiuta Moriah a continuare il programma di riabilitazione impostato dall'ospedale Schneider, vicino a Tel Aviv. Da dieci mesi la ragazza deve andare quattro volte alla settimana al reparto Petach Tikva, "La porta della speranza", dove cercano di rimettere in sesto quelli come lei. Lì i medici le hanno spiegato che non potrà più suonare né la chitarra né il flauto, le sue due grandi passioni, anche se riuscirà a fare un sacco di cose con quel braccio che temeva di avere perso per sempre. Ma prima di arrivare in quel reparto, ci sono volute dieci operazioni per ricucire il giovane corpo straziato dalla bomba del kamikaze palestinese. Dopo tanto tempo passato a ricordare nel silenzio di un dolore macerante, Moriah ha deciso di parlare. Col groppo in gola, ma senza alcun desiderio di vendetta, senza coltivare l'odio. Racconta che all'ospedale Schneider insieme a lei stanno curando anche un ragazzo arabo che si è ferito mentre preparava una bomba. «Non voglio passare la mia vita a imprecare contro chi fa queste cose, con l'odio nel cuore si vive male e non si costruisce nulla. Quel giorno al centro commerciale ho perso Shira, la mia compagna di banco, e ho perso la mia innocenza. Ho imparato che il male esiste, e forse esisterà sempre sulla terra. Per una ragazza di 13 anni come me la morte era qualcosa di lontano, l'importante era come cadono i capelli sulle spalle e vestire jeans alla moda. Ora la mia vita si è inspessita come queste cicatrici che non mi lasceranno più»
Quando finisce la seduta di fisioterapia, Moriah torna in giardino a giocare con gli altri ragazzi israeliani che uno strano destino ha fatto incontrare in terra italiana. Sono arrivati in cinquanta, ospiti della comunità ebraica che voleva fare qualcosa di concreto per i giovani che sono stati indelebilmente segnati dal terrorismo. Una settimana lontano dal clima di tensione che si respira nel loro Paese, accompagnati da dieci studenti universitari e da Angelica e Yehuda Calò Livné, marito e moglie, due insegnanti da anni impegnati in attività educative che coinvolgono arabi ed ebrei nel tentativo di creare una cultura di pace (si veda l'articolo in questa pagina). L'iniziativa si chiama «Con le pinne, senza fucile, ed occhiali» ed è un contributo a farli vivere in quelle condizioni di normalità che da anni in Israele non ci sono più. «Qui non si fa psicoterapia di gruppo, non è il nostro mestiere - chiarisce Angelica, ebrea nata a Roma 48 anni fa, allieva del rabbino Toaff e che a vent'anni ha scelto la vita di un kibbutz di Galilea -. Ai ragazzi offriamo una vacanza, la nostra amicizia, un'atmosfera serena in cui vengono aiutati a superare lo choc di cui sono rimasti vittime e a ritrovare uno sguardo positivo sulla vita. In questi giorni qualcuno è tornato a sorridere dopo mesi: e questa, non è già una cosa grande?».
ָ E' tornato a sorridere Avishai, capelli rossi e lentiggini a profusione, lo sguardo perso di uno che in pochi istanti si è visto rapire per sempre la madre e due sorelle. All'inizio dell'anno gli hezbollah sono scesi dal Libano e hanno seminato la morte a Naharia, nel nord della Galilea. Dopo quelle raffiche di kalashnikov Avishai è rimasto solo con suo padre, come era successo l'anno prima ai suoi amici Erez e Gadi che avevano perso entrambi i genitori in un altro attentato, e ai quali sua madre aveva fatto una promessa che non può più mantenere: «Ora che siete orfani mi prenderò cura di voi, qualsiasi cosa accada». Avishai, che quando è sbarcato a Fiumicino non alzava mai lo sguardo da terra e se ne stava sempre per conto suo, in questi giorni di vacanza italiana ha aperto la porta di un cuore che per mesi era rimasto chiuso a chiave, si è confidato con Angelica e gli altri, ha ritrovato il sorriso.
L'ha ritrovato anche Omri, che a 16 anni ha perso il padre per la follia omicida di un kamikaze che si ט fatto esplodere nel suo ristorante a Natania, affollato da decine di israeliani che festeggiavano la vigilia di Pasqua. Lui, Omri, è stato solo sfiorato dalla morte, salvo perchè nel momento fatale era fuori dal locale. Ricorda a memoria le parole che sua madre disse ai microfoni della televisione, poche ore dopo l'attentato: «Da domani mi rimbocco le maniche, dovrò prendere il posto di mio marito». Dove trova la forza per questo, le aveva chiesto il cronista. «Se dipendesse solo da come mi sento adesso, me ne andrei a letto e mi lascerei morire. Ma ho sei figli, come faccio ad arrendermi? Ricomincio da loro». Neppure Omri, come i suoi compagni di sventura, coltiva l'odio, e si rimane colpiti dalla sua capacitא di guardare al futuro in maniera positiva. Dice che «con i palestinesi si puע convivere, ognuno nella sua terra, ognuno in un Paese sicuro dove si possa diventare grandi in maniera normale, ma in troppe delle loro scuole si insegna a odiare, e i giovani crescono con il nemico nella testa. Bisogna ricominciare dall'educazione di noi giovani, non voglio vivere come se fossimo sempre in guerra». Si può sperare che questo accada? Omri guarda i suoi compagni di sventura, aggrotta la fronte, accenna un timido sorriso. Stanno preparando una serata di canzoni israeliane, una l'ha composta lui, che è uno sfegatato del rap. Accenna poche parole: «Anche se il cuore ט spezzato in mille schegge, c'è ancora un dopo in cui sperare». Chissà se, quando diventeranno grandi, questi ragazzi riusciranno a costruire la pace che sembra impossibile.
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