Un nuovo capitolo nelle relazioni israelo-americane?
Analisi di Antonio Donno
Il presidente USA Biden
In un breve passaggio dell’intervista di Giulio Meotti a Yossi Kuperwasser, direttore dell’unità di ricerca dell’intelligence militare israeliana, pubblicata sul “foglio” del 4 gennaio, Kuperwasser ha affermato che la guerra di Gaza è stata di fatto imposta a Israele e “proprio per questa ragione, sia Israele sia gli Stati Uniti devono concluderla con una vittoria”. Le ragioni dei due Paesi coincidono nella sostanza. Se Israele ha bisogno di eliminare Hamas dalla scena politica mediorientale e ripulire la Striscia di Gaza, per gli Stati Uniti la vittoria di Israele su Hamas ha un significato più generale: mettere in guardia Teheran sui rischi che correrebbe se dovesse allargare il conflitto nel Medio Oriente. Del resto, l’attentato che ha sconvolto l’Iran, e che quest’ultimo non può attribuire né agli Stati Uniti né a Israele perché, con ogni probabilità, è dovuto all’opposizione interna, pone al regime degli ayatollah un’urgenza interna ed esterna di grande rilievo. Il sostegno militare che Teheran assicura sia a Hamas, sia a Hezbollah, si sta rivelando nel tempo controproducente per le ambizioni regionali dell’Iran. Per quanto l’eccidio del 7 ottobre sia stato un evento terribile per Israele, la risposta di Gerusalemme si sta concentrando a eliminare dalla scena politica mediorientale un punto di forza iraniano a sud di Israele. Il che avvantaggia la ripresa di una presenza politica degli Stati Uniti nella regione, al fianco di Israele e nel contesto degli “Accordi di Abramo”, i quali assumono, a causa della situazione attuale, un valore politico di notevole rilievo. Nonostante queste evidenze, il Medio Oriente resta sempre un’area ad alto rischio. Tra gli osservatori della politica americana v’è qualcuno che afferma che “gli Stati Uniti si sono trovati […] in una posizione troppo schiacciata su Israele e questo ha indebolito la loro credibilità come mediatori del conflitto” (https://www.rsi.ch/info/mondo). Tutto il contrario. Gli Stati Uniti, fin dal primo momento dopo il 7 ottobre, non hanno inteso porsi come mediatori del conflitto; anzi, hanno sostenuto la reazione di Israele e il suo proposito di eliminare Hamas dalla Striscia di Gaza. Benché ripetutamente Biden abbia sollecitato Israele a moderare l’attacco per evitare il più possibile la perdita di vite umane, egli sapeva bene che Netanyahu non avrebbe accettato la richiesta americana; al contrario, l’eliminazione di Hamas favorisce la ripresa di una presenza politica americana nella regione, non solo contro le mire iraniane, ma soprattutto contro le ambizioni strategiche di Russia e Cina nel Medio Oriente. La guerra di Gaza presenta un aspetto rilevante per tutta la regione. Non si tratta soltanto dell’impegno israeliano a eliminare un nemico alle sue porte meridionali, per quanto di enorme importanza per la sicurezza dello Stato ebraico, ma potrebbe comportare l’inizio di un ridimensionamento del progetto politico regionale dell’Iran. I Paesi sunniti che hanno sottoscritto gli “Accordi di Abramo” e la stessa Arabia Saudita possono valutare l’eventuale cancellazione di Hamas dalla Striscia di Gaza come un fattore di sicurezza contro il pericolo egemonico iraniano per l’intero Medio Oriente. Sia il Mar Rosso, sia il Golfo Persico devono riproporre una libertà di navigazione a livello internazionale che soltanto il controllo americano può garantire, nel contesto di un impegno costante di Israele e dei Paesi degli “Accordi di Abramo”. Il Medio Oriente vive oggi una fase storica delicata che soltanto l’impegno congiunto Israele-Stati Uniti può gestire, insieme ai Paesi sunniti che temono il progetto egemonico di Teheran sulla regione. Nulla può essere dato per scontato, ma è fondamentale che dopo anni di distacco politico tra Gerusalemme e Washington si sia adesso profilata l’apertura di un nuovo capitolo nelle relazioni tra i due Paesi.
Antonio Donno