Avraham B. Yehoshua su La Stampa, David Grossman su Repubblica, Amos Oz sul Corriere della Sera sono i tre intellettuali israeliani sui media italiani. Tre scrittori la cui importanza nel campo letterario supera i confini di Israele rendendoli voci autorevoli in tutto il mondo. Naturalmente non sono gli unici scrittori che l'opinione pubblica mondiale potrebbe leggere con interesse e profitto. Ma tant'è. Altri intellettuali, altri scrittori, altri opinionisti sembrano non esistere per i nostri media. Dei tre, di gran lunga più famoso sul piano letterario è Avraham B. Yehoshua, i cui scritti il quotidiano torinese ospita abitualmente. Pubblichiamo: "Bush pensi anche a Israele" uscito su La Stampa martedì 4 marzo 2003.
L'articolo, anche se non condivisibile in più parti, rappresenta l'opinione di uno scrittore da sempre schierato nel campo della pace (è stato uno dei fondatori del movimento "Pace adesso" "Shalom achshav" schierato da sempre a sinistra), e può essere utile ai nostri pacifisti perchè rappresenta l'opinione di un pacifista completamente diversa rispetto a quanto uno si aspetterebbe. Yehoshua stabilisce nettamente quali sono i confini tra pace e giustizia e da quale parte ci si debba schierare quando si ritiene che la prima non possa esistere senza la seconda. Anche la sua ostilità al premier israeliano Ariel Sharon, legittima tanto quella che gli esprime invece consenso, tiene sempre conto di un fattore fondamentale ignorato invece da chi in occidente si schiera contro Bush sventolando bandierine multicolori. Da che parte sta la democrazia e quindi la giustizia e da che parte stanno i dittatori e i popoli oppressi. Utile per capire la realtà mediorientale è anche l'analisi che Yehoshua fa dello schieramento politico che governa oggi Israele dopo le ultime elezioni.
Ripetiamo, opinioni personali che provengono da un intellettuale che milita nella sinistra israeliana, ma che proprio per questo non sospettabile di alcuna tenerezza nei confronti del governo di Israele.Il nuovo governo israeliano, presentato giovedì scorso alla Knesset, dalla quale ha ottenuto la fiducia, è un esecutivo particolare e come tale va giudicato. E’ incontestabilmente di destra, non solo perché il partito del Likud ne costituisce la componente dominante ma poiché altri due partiti che ne fanno parte - il religioso-sionista Mafdal e il partito d’Unione nazionale - rappresentano i coloni e i loro sostenitori. Sotto questo punto di vista non c’è quindi da attendersi nulla di nuovo nella futura linea politica israeliana: nuovi insediamenti verranno costruiti nei territori occupati e nessuno verrà smantellato. Ma se, come tutti prevedono, dopo la guerra contro l’Iraq gli Stati Uniti eserciteranno una forte pressione su Israele e sui palestinesi perché proseguano il processo di pace, l'attuale esecutivo potrebbe venire sostituito da un governo di unità nazionale che, pur con a capo Sharon, includerebbe il partito laburista.
Quindi, metaforicamente parlando Sharon è come un sarto che ha a propria disposizione diverse stoffe con cui confezionare un abito ed è in grado di confezionarlo in varie fogge, adeguandosi a ideologie diverse. Tra i 120 membri della Knesset ha a sua disposizione 106 potenziali candidati con cui formare una coalizione di governo e potrebbe creare con altrettanta facilità un governo di destra o di sinistra. Credo che si possa affermare con una certa misura di attendibilità che la sanguinosa Intifada ha fatto sì che israeliani e palestinesi si risvegliassero dai sogni inutili e controproducenti in cui si sono cullati per anni: il sogno palestinese del diritto al ritorno dei profughi e quello israeliano della «Grande Israele», comprendente anche la Cisgiordania. Dopo due anni di lotta violenta nessuna delle due parti può più ritenere di poter realizzare tali sogni, costati a tutti noi sangue e distruzione. Quando giovedì scorso ho visto Ariel Sharon in televisione, seduto con sicurezza sulla poltrona di capo del governo, circondato dai suoi vecchi e nuovi ministri, mi sono detto: a questo tavolo si dovrebbe aggiungere una poltrona per l'uomo che più di ogni altro ha contribuito alla sua rinascita, alla sua metamorfosi da dinosauro politico nel 1999 a popolare primo ministro. Quest’uomo si chiama Yasser Arafat. E’ infatti innescando una rivolta sanguinosa durante i colloqui di pace con il governo più moderato che Israele abbia mai avuto, che Arafat ha sgretolato la poca fiducia della popolazione israeliana nel processo di pace, ha fatto sì che tutti i partiti della sinistra perdessero voti alle ultime elezioni e ha portato Sharon e il suo partito al conseguimento di una grande vittoria. Eppure, nonostante la particolare composizione del nuovo governo, non bisogna essere pessimisti riguardo al processo di pace, a condizione però che gli Stati Uniti decidano di occuparsene con risolutezza, così come fanno ora con l'Iraq. Se gli Stati Uniti costringessero Israele non dico a rinunciare ai territori occupati prima di aver raggiunto un accordo di pace ma almeno a smantellare gli insediamenti esistenti e a non costruirne di nuovi, le manifestazioni contro la loro politica in Iraq sarebbero meno infuocate. E se invece di manifestare a favore di un tiranno squilibrato e spietato come Saddam Hussein (che ha intrapreso tre guerre sanguinarie negli ultimi vent’anni e mantiene un pericolosissimo arsenale), i dimostranti europei pretendessero con fermezza da Israele di congelare gli insediamenti e di evacuare la maggior parte di essi, e dai palestinesi di porre fine agli atti terroristici pena la sospensione degli aiuti economici, tali manifestazioni si porrebbero obiettivi piu' etici che potrebbero essere raggiunti con maggiore efficacia. Sorprendentemente però il nuovo governo di destra israeliano racchiude anche una speranza per quanto riguarda un tema cruciale per l'identità ebraica, da sempre dibattuta tra nazionalità e religione. Per la prima volta, infatti, dopo decenni, i partiti ultraortodossi sono stati allontanati dalla gestione del potere e dei fondi economici governativi. Il partito laico e di centro «Shinui», che ha spodestato tali partiti, ha raggiunto, a mio avviso, un obiettivo importante e quasi storico. L’importanza di questo evento si chiarirà meglio in futuro ma già ora si intravedono i primi segni di un nuovo corso. Molti - ebrei e non - non sempre capiscono la complessa problematica della sovrapposizione tra religione e nazionalità che caratterizza gli ebrei. Una parte di essi si è persino opposta in passato, e si oppone tuttora, alla creazione di uno stato indipendente e di un’entità sovrana ebraica proprio per il timore che un conflitto tra religione e nazionalità dividesse il popolo ebreo e ne distruggesse l'identità. Gli ebrei ultraortodossi sono sempre stati tra gli oppositori più agguerriti al sionismo e alla costituzione di uno stato ebraico. E anche quando, pur contro la loro volontà, ne sono divenuti cittadini, non hanno smesso di ripetere che «Israele si potrà realizzare solo nella Bibbia». In altre parole lo Stato ebraico non è il contesto legittimo entro il quale la vita ebraica, nelle sue varie forme, può svolgersi in modo democratico. Tale Stato, ai loro occhi, non è che uno strumento per realizzare se stessi in qualità di uomini di fede e in un certo senso in questo non differisce da qualsiasi altro stato. Gli ultraortodossi non si identificano con Israele. Lo Stato deve assicurare loro protezione, sicurezza fisica, sostegno materiale e sociale, garantire cioè le condizioni grazie alle quali essi possono dedicarsi allo studio delle Sacre Scritture, vero scopo dell'attività religiosa. Essi non credono nella democrazia perché è impensabile che il voto di persone laiche abbia lo stesso valore di quello dei credenti, sottomessi al governo della Torah. Nelle loro istituzioni politiche gli ultraortodossi non rispettano i principi democratici. Ogni decisione viene presa dai rabbini (la cui autorità proviene direttamente da Dio) e nella loro società non vi è libertà di discussione: ogni manifestazione democratica viene quindi ritenuta vana. L’allontanamento dal potere e dalle risorse governative imposto da «Shinui» ai partiti ultraortodossi e ai loro rappresentanti è un evento importantissimo. A mio avviso infatti, anche se tali partiti dovessero tornare in futuro a far parte di un governo, la loro posizione sarà diversa, più defilata e contenuta. Gli appartenenti ai partiti della sinistra non amano lo «Shinui». Tale partito ha rubato loro molti voti ed essi ne disprezzano il leader, Tomi Lapid, giornalista demagogo, un tempo sostenitore delle idee della destra ma che ora ha assunto posizioni più moderate. Lapid si esprime con un linguaggio tagliente e senza mezzi termini e non risparmia commenti pungenti ai leader della sinistra. Tuttavia, nell’insieme, «Shinui» è un partito moderato, disposto a un compromesso con i palestinesi e composto da molti ex esponenti dei partiti della sinistra. Anche se io non voterei per questo partito di stampo prettamente borghese, rispetto e apprezzo il suo tentativo di neutralizzare il controllo dei partiti ultraortodossi sui fondi statali. In fin dei conti tale tentativo è importante anche per il futuro del processo di pace in quanto i partiti ultraortodossi, nonostante i loro sostenitori siano esonerati dal servizio militare, sostengono posizioni sempre più militanti e radicali. Così, nonostante Ariel Sharon sia ancora capo del governo israeliano e il futuro del processo di pace non appaia molto roseo, in fin dei conti non tutto è negativo. Questa, a almeno, è la mia opinione
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