Azar Nafisi: 'Rushdie voce libera vittima dell'odio islamista'
La intervista Viviana Mazza
Testata: Corriere della Sera
Data: 14/08/2022
Pagina: 14
Autore: Viviana Mazza
Titolo: 'Per lui il pericolo non è mai calato: i regimi vivono se possono zittire le voci libere'
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 14/08/2022, a pag.14, con il titolo 'Per lui il pericolo non è mai calato: i regimi vivono se possono zittire le voci libere' l'intervista di Viviana Mazza.

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Viviana Mazza

La letteratura come antidoto: intervista a Azar Nafisi | minima&moralia
Azar Nafisi

«Non ho mai creduto che l’avrebbero lasciato in pace», dice Azar Nafisi poco dopo l’attentato contro Salman Rushdie, al telefono dalla sua casa di Washington. La scrittrice iraniana di Leggere Lolita a Teheran (2003), memoir tradotto in 32 lingue che racconta la sua esperienza di docente universitaria espulsa perché aveva rifiutato di indossare il velo che leggeva clandestinamente libri banditi con le sue studentesse nella Repubblica islamica, ha dedicato proprio a Salman Rushdie il primo capitolo del suo ultimo saggio, appena uscito in inglese con il titolo Read Dangerously (Leggi pericolosamente). In esso spiega che il romanzo è una forma di resistenza al totalitarismo, perché è democratico per natura: «Contiene molte voci, il grande scrittore dà voce anche al “cattivo”, e ciò lo rende sovversivo. È l’esatto opposto dei regimi totalitari che impongono la propria voce (e dei cattivi scrittori che la forzano su tutti i personaggi). Il totalitarismo perseguita giornalisti e scrittori perché dicono la verità: i primi con i fatti, i secondi attraverso la finzione».

Perché era convinta che dopo tutti questi anni Rushdie non fosse al sicuro? «È una cosa politica. Ho sempre pensato che è strano che scrittori come Rushdie abbiano solo le loro parole per lottare, eppure alcune delle persone più potenti del mondo sono contro di loro. Khomeini aveva un grosso esercito e ogni sorta di armi, ma era così spaventato da quest’uomo che ha solo le sue parole. Gli artisti sono pericolosi agli occhi delle persone con una mentalità totalitarista — e non devi far parte del governo per averla: è un atteggiamento, un modo di vedere il mondo. Un dittatore vuole imporre la sua immagine del mondo a tutti, reprimere ogni voce contraria. È per questo che i tiranni mentono così tanto e creano falsificazioni della realtà. Per loro, l’atto di scrivere, in quanto indagine sul mondo e la psiche umana, è pericoloso».

Di cosa scrive nel capitolo su Rushdie? «Ho sempre pensato che Rushdie non scriva di religione e che, come lui stesso ha detto, non sia quella la sua principale preoccupazione. Lui ha raccontato una cultura di immigrati che è disconnessa, dislocata e impaurita, e questa è una critica dell’Occidente più che dell’Islam; il suo lavoro è stato trasformato in qualcosa di anti-religioso, benché in realtà non lo sia. In secondo luogo, sentivo che questa animosità, questa ostilità tra il poeta e il potere è qualcosa di profondamente radicato nella storia. Come nella Repubblica di Platone, dove Socrate dice che i poeti dovrebbero essere esiliati perché indisciplinati... Solo quelli che non insultano Dio hanno un posto nella Repubblica, gli altri no. Nel confronto tra Rushdie e i suoi nemici c’è un’eco di questo: non c’era spazio per lui nel dominio in cui comandano loro».

 Leggere Rushdie a Teheran... «Il potere di scrittori come Rushdie — e non solo: scrivo anche, per esempio, di James Baldwin — è il fatto di non odiare. Un grande romanziere dà voce a tutti i personaggi, anche ai cattivi, l’opposto della mentalità totalitaristica. Rushdie non scrive mai di coloro che vogliono ucciderlo con l’odio che loro invece esprimono nei suoi confronti. Si concentra sul proprio ruolo di scrittore. Perché la cosa più importante per uno scrittore è il suo lavoro».

Si sente vicina a Rushdie, per via delle esperienze che ha vissuto? E lo conosce? «Ci siamo incontrati in festival e altri eventi, abbiamo parlato. Sento una connessione con lui, in quanto scrittrice che ha vissuto parte della propria vita in una società totalitaria dove gli scrittori diventano pericolosi, e che si è sentita in esilio nella propria stessa casa, come un’aliena. Come Rushdie, anche io sono “dislocata” e il luogo dove trovo la mia casa è la mia scrittura. Ora abito qui, in un Paese democratico, ma ovviamente, come sapete, in un Paese democratico possono esserci tendenze totalitarie. Lo vediamo negli Stati Uniti e in tutto il mondo, non è un fenomeno limitato a certe nazioni. È solo grazie alla lettura e alla scrittura che io ho potuto superare una guerra, una rivoluzione e tutto il resto».

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