Efraim Karsh
L’invito alla creazione di due Stati in Palestina, ripetuto da anni in tutte le sedi internazionali, in tutti gli incontri tra capi di Stato o primi ministri di ogni paese, in un rituale noioso e ipocrita, non fa altro che confermare che la creazione di due Stati e quindi la soluzione definitiva del contenzioso israelo-palestinese è impossibile.
Come disse una volta Albert Einstein, è semplicemente folle ripetere in continuazione la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi. Sembra, però, che l’Autorità Palestinese sia dell’avviso contrario: più gli esiti sono simili, più sicuro è il risultato che ci si attende: la distruzione dello Stato di Israele.
“Repetita iuvant”, dicevano i latini, e sembra che i palestinesi siano i veri eredi della saggezza latina. Solo che sono passati decenni e decenni e la situazione del popolo palestinese non ha fatto altro che deteriorarsi. Si tratta, con ogni evidenza, di un progetto varato fin dall’inizio dello scontro: più si deteriora la condizione della gente palestinese, più il suo odio si scatena contro Israele, e non invece verso coloro che sono la causa del suo malessere.
Inoltre, l’esito è opposto rispetto alle speranze: Israele è una società solida, ricca, in continua evoluzione. Eppure, i palestinesi hanno avuto molte occasioni di dare concreta attuazione a un proprio Stato accanto a Israele, ma i propri capi hanno sempre puntato al grosso obiettivo: uno Stato palestinese non “accanto” a Israele, ma “al posto” di Israele. La reiterazione, nel corso dei decenni, dello stesso obiettivo si è dimostrata una follia. Quando, tra il 1978 e il 1979, Egitto e Israele firmarono un trattato di pace, Arafat disse solennemente: “Noi vogliamo la Palestina. Non siamo interessati a pezzi di Palestina. Non vogliamo negoziare con Israele. Combatteremo”.
Questo lo disse in arabo agli arabi, mentre agli occidentali diceva, nel suo sgangherato inglese, che era pronto a trattare. Questa sua pseudo-furbizia non è valsa a nulla. Comunque, la storia del rifiuto dei due Stati da parte della dirigenza palestinese e dei paesi arabi data dal 1937, quando gli arabi rifiutarono un’assai conveniente spartizione proposta dalla Commissione di Lord Peel.
Questa storia, che si è protratta sino a oggi, è narrata da Efraim Karsh in un articolo apparso originariamente sul “Jerusalem Post” del 21 novembre e riproposta dal BESA Center due giorni dopo.
Perché Karsh ha pubblicato un articolo che contiene una lunga storia che tutti gli israeliani dovrebbero conoscere? Innanzitutto, la ragione sta nel fatto che molti israeliani, contrari alla politica di Netanyahu e favorevoli a una non ben definita “pace”, sottovalutano o addirittura ignorano (fingono di ignorare?) la verità storica che consiste nel rifiuto reiterato da parte palestinese di dare vita a uno Stato accanto a quello israeliano e in pace con esso.
Ma l’articolo di Karsh ha uno scopo più vasto: far conoscere all’opinione pubblica internazionale i capitoli di una vicenda che vede esclusivamente nel mondo arabo e palestinese i veri responsabili di una guerra senza fine.
Chi conosce queste vicende, troverà l’articolo di Karsh alquanto ripetitivo, ma coloro che si impuntano a reiterare la solita accusa al movimento sionista e poi a Israele di non volere la soluzione spartitoria hanno bisogno di conoscere i fatti, a meno che rifiutino di accettarli.
Dopo il 1937, la data cruciale del rifiuto fu il 1947, quando le Nazioni Unite vararono un piano di spartizione, rifiutato dai paesi arabi, che, dopo la nascita di Israele nel 1948, invasero il territorio israeliano per distruggere lo Stato ebraico. Questo fu il secondo rifiuto.
Dopo la guerra del 1967, stravinta da Israele, Gerusalemme propose di addivenire a una soluzione definitiva sulla base della restituzione dei territori occupati durante la guerra, in cambio di una nuova soluzione spartitoria che prevedesse la pace definitiva. Qualche tempo dopo, i rappresentanti degli Stati arabi e dell’Olp si riunirono a Karthoum, nel Sudan, ed espressero solennemente i tre “no” nei confronti della proposta israeliana (no alla pace con Israele, no al riconoscimento di Israele, no a trattative con Israele).
Questo fu il terzo rifiuto.
Stranamente Karsh non cita gli eventi che portarono a quel terzo rifiuto arabo. I rifiuti successivi porteranno il totale a sette. Si può dire, per dare più sapore al discorso di Karsh, che i “no” arabi assomigliano al rifiuto del bambino di fronte ad una pappa che non gli piace, sperando di averne una più saporita. Nel caso arabo, la pappa più saporita sarebbe tutta la Palestina, senza Israele. Di rifiuto in rifiuto, però, la pappa si fredda e il bambino resta a bocca asciutta.
Dopo la guerra del 1973, si ripeté lo stesso refrain. Dopo gli accordi di Oslo, nel 1993, le cose andarono peggiorando. L’Autorità Palestinese interpretò gli accordi come un cedimento da parte di Israele e accentuò la sua “strategia a fasi”, iniziata nel 1974, e incentrata sull’acquisizione di parti successive di territorio fino alla “completa liberazione della Palestina”. Le sconfitte precedentemente subite avevano insegnato che una politica di acquisizioni successive era preferibile allo scontro frontale, sempre perdente. Ma, alla prova dei fatti, neanche questa strategia ha dato frutti.
Comunque, Oslo ha significato un punto importante per i palestinesi. La capacità di portare le loro rivendicazioni ai più diversi livelli internazionali ha posto Israele sulla difensiva, anche se, a livello pratico, non vi sono evidenti esiti positivi.
Ma Oslo è stato un passo falso di Israele.
Tuttavia, la politica di persuasione dell’opinione pubblica internazionale ha permesso ai palestinesi di accentuare il proprio rifiuto di ogni dialogo con Israele finalizzato alla costituzione di uno Stato palestinese accanto a quello ebraico. Le due intifada hanno dimostrato come questo fosse ancora il vero progetto palestinese. Il rifiuto di Arafat alla fine dei negoziati del 2000, in cui Israele concedeva la gran parte della West Bank e Gaza all’AP per crearvi uno Stato, il successivo rifiuto del 2007 all’identica proposta di Olmert ad Annapolis e a quella di Netanyahu del 2009 hanno dimostrato senza ombra di dubbio che i palestinesi non vogliono – è il caso di ripeterlo – uno Stato “accanto” a Israele, ma “al posto” di Israele.
Antonio Donno
Già Prof.Ordinario di Storia dell'America
Università del Salento,Lecce.
Storia delle Relazioni Internazionali,Università
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