Prima che “Munich” arrivasse nei cinema italiani ho letto avidamente tutti gli articoli che sono usciti negli Stati Uniti dopo le prime proiezioni private. Ero curioso di capire perché Steven Spielberg avesse definito il suo film “una preghiera per la pace”. Quando è uscito in Italia sono andato a vederlo, non una ma due volte, non perché non ne avessi tratto subito una impressione precisa, ma perché volevo essere sicuro di non essermi sbagliato nel darne un giudizio positivo. Ho letto il lungo, documentatissimo articolo-recensione di Anselma Dell’Olio e, correndo il richio di essere catalogato fra gli “intellettuali pro-sionisti che cercano la ribalta nel tumulto intorno al film e denunciano le critiche a Munich come un vano atteggiarsi contro quello che dopo tutto è solo un film, un intrattenimento, per di più girato da quel sant’uomo pluridecorato che ci ha regalato E.T. e Schindler’s List”, se permettete vorrei dire la mia. Cosa non facile, perché l’articolo di Anselma Dell’Olio, del quale non condivido la tesi, contiene molte osservazioni che pure condivido. Dando per scontato che i lettori del Foglio conoscano l’argomento, comincio dalla tesi. Non credo che “Munich” equipari il terrorismo palestinese alla reazione israeliana. E non tanto perché Spielberg ha dichiarato allo Spiegel di “essere pronto a dare la propria vita per Stati Uniti e Israele se fosse necessario”, ma perché tutto il film è incentrato sul racconto veritiero dei fatti, la strage degli atleti israeliani a Monaco e l’ordine dato da Golda Meir di eliminarne i responsabili. E’ difficile negare che sul piano tecnico ci siano stati degli assassini da una parte come dall’altra. Spielberg però fa capire allo spettatore chiaramente la differenza. La violenza, la criminalità palestinese viene messa in atto per raggiungere una finalità – l’indipendenza del popolo palestinese – escludendo ogni altro mezzo possibile, una indipendenza che i palestinesi hanno sempre rifiutato nei fatti, preferendo a un loro stato la cancellazione totale di quello israeliano. L’eliminazione dei terroristi da parte di Israele, che non si è limitata ai terroristi di Monaco ma che è proseguita sino a oggi, è la risposta a una criminalità politica organizzata che esclude il raggiungimento del proprio obiettivo per vie pacifiche. Se Spielberg avesse rappresentato gli agenti del Mossad come dei Rambo, combattenti per la giustizia contro il male, ci avrebbe dato un film sicuramente entusiasmante, di quelli che si vedono con le mani pronte all’applauso, ma sarebbe stato un altro film, per chi è già convinto delle ragioni di Israele, che conosce la storia mediorientale e ha capito da che parte stare. I cinque agenti del Mossad, con i loro dubbi, le loro ansie, le loro domande, sono una risposta a quel campione rappresentativo di tutta l’opinione pubblica disinformata dalla propaganda filo-araba e filo-palestinese che i media occidentali hanno contribuito con tanta caparbietà a diffondere in questi decenni. E’ a quel pubblico che Steven Spielberg e il suo sceneggiatore Tony Kushner hanno pensato quando giravano “Munich”. Uno spettatore al quale bisognava proporre una storia vera, ma dalla quale fossero esclusi gli stereotipi, i buoni e i cattivi. Ma mentre le ragioni di Israele, il suo diritto non divino, non religioso, ma storico) alla propria terra sono spiegati dai diversi protagonisti e possono essere accettati con convinzione dagli spettatori, Settembre nero e la violenza palestinese sono rivendicate dall’altra parte senza convinzione, anzi la tesi che meglio viene esposta, quella che i palestinesi possono aspettare anche cent’anni tanto alla fine saranno i numeri a vincere, è di fatto la spiegazione della politica di Ariel Sharon, del perché l’uscita da Gaza e dagli insediamenti isolati in Cisgiordania e della necessità per la sicurezza dello Stato ebraico della costituzione di uno palestinese. Il che è esattamente quello che i palestinesi sostengono di volere mentre nella realtà accade il contrario. Gli agenti del Mossad uccidono, ma noi che li guardiamo sullo schermo sappiamo che lo fanno per legittima difesa, perché, come dice Golda Meir “ogni civiltà deve scendere a compromessi con i propri valori quando è in gioco la sopravvivenza dello stato”. Avner e i suoi uomini uccidono per non essere uccisi. Che è poi la storia del dopo 11 settembre. Israele vive un 11 settembre da sessant’anni, nella quasi totale indifferenza dell’Europa. “Munich” ci ha mostrato il volto dei criminali di Settembre nero, un volto che i nostri media per scelta precisa evitano di farci conoscere, anche quando innocenti cittadini israeliani vengono fatti esplodere e saltare in aria dai cosidetti “militanti” di una delle tante jihad islamiche. Steven Spielberg e Tony Kushner saranno anche delle teste d’uovo di sinistra, ma le decorazioni se le sono meritate sul campo. Certo, come dicevo all’inizio, Anselma Dell’Olio può anche avere ragione nel sostenere che il film è antisemita e antisraeliano, nel film c’è una certa ambiguità che può favorire questa lettura. Ma questa ambiguità ne rappresenta anche la forza. I dubbi di Avner e dei suoi compagni sono la migliore introduzione alle ragioni di Golda, alle certezze di Ephraim e del suo Mossad. Poco importa che Avner alla fine scelga l’esilio, la fuga a Brooklyn. Qualcun altro lo sostituirà, perché sono le ragioni di Golda ed Ephraim a mantenere forte e libero Israele. Rambo l’avrebbe fatto capire ai già convinti. Spielberg ha cercato di comunicarlo agli altri.