Il ruolo dell'intelligence nella lotta al terrorismo
due editoriali contro ipocrisie e indignazioni strumentali
Testata:
Data: 01/12/2005
Pagina: 1
Autore: Pierluigi Battista - la redazione
Titolo: Caso Daki le ipocrisie italiane - Più intelligence è più intelligence
IL CORRIERE DELLA SERA di giovedì 1 dicembre 2005 pubblica in prima pagina un editoriale di Pierluigi Battista sul "Caso Daki" e le "ipocrisie italiane".

Ecco il testo:


«Intelligence», ecco la formula magica. A chi chiede cosa occorra fare concretamente per colpire il terrorismo senza ricorrere alla guerra, l’anti-guerrafondaio usa rispondere così: «migliorare il lavoro di intelligence». Come evitare bombe e interventi militari? Con l’«intelligence». Quale alternativa alla linea bellicista? Un maggiore impegno «nell’intelligence». Poi però, come dimostrano le reazioni smodate di chi deplora l’attenzione dell’«intelligence» negli interrogatori del Mohammed Daki recentemente assolto, anche l’«intelligence» diventa improvvisamente cattiva. L’«intelligence»? Un’indebita interferenza. Il lavoro oscuro e coperto dell’«intelligence»? Una intollerabile violazione dello Stato di diritto. Lucia Annunziata ha avuto il merito di svelare il pericolo dell’ipocrisia che si annida negli ondivaghi sostenitori delle virtù salvifiche dell’«intelligence». Chi «applaude come a una vittoria dello Stato di diritto l’assoluzione di Daki», ha scritto sulla Stampa , «derubrica evidentemente il terrorismo internazionale a una minaccia alla nostra società inferiore a quella della mafia; giudica l’importanza di un aiuto dato a uno dei cervelli dell’11 settembre minore del crimine di protezione di un mafioso». E infatti, ricorda molto opportunamente Lucia Annunziata, tra «i servigi prestati dal terrorista Daki, per sua stessa ammissione» si annovera «l’aiuto dato da lui, mentre viveva ad Amburgo tra il 1989 e il 2002, a uno degli uomini considerati la mente dell’attentato dell’11 settembre», mentre «l’ospitalità nella sua casa italiana era stata invece riservata a Ciise, un somalo, accolto da lui su ordine della Siria».
Un tribunale italiano ha giudicato queste ammissioni insufficienti come base di una condanna per terrorismo e le sentenze vanno rispettate anche se, come nota Annunziata, qualora al posto del «terrorista» ci fosse stato un «picciotto», difficilmente l’ospitalità a pezzi grossi di Cosa Nostra non sarebbe stata giudicata prova solidissima di «partecipazione ad associazione mafiosa». Il garantismo è salvo, ma chi è riuscito a mettere le mani sull’ospitale aiutante di noti terroristi se non la più volte invocata e poi subitaneamente malfamata «intelligence»?
È l’«intelligence» che agisce con i mezzi che le sono propri e con le necessarie modalità che ne assicurano l’efficacia. Ed è grazie all’«intelligence» se si è riusciti ad arrivare, se non a un «terrorista», a un amico compiacente e, per sua ammissione, palesemente complice di pericolosi terroristi. Ora chi ha sempre indicato nell’«intelligence» l’unica alternativa praticabile e moralmente accettabile alla guerra guerreggiata, eccepisce indignato sui mezzi poco ortodossi e assai discutibili sul piano dei princìpi dello Stato di diritto che l’«intelligence» ha adoperato (e non avrebbe potuto non adoperare) per smantellare la rete degli amici e dei complici (adibiti alla fornitura di case, documenti, «ospitalità») del terrorismo internazionale.
Ma allora, se i metodi dell’«intelligence» sono deprecabili, che senso ha reiterare la liturgia dell’«intelligence da attivare» ogni volta che si vuole indicare una credibile variante della guerra come strumento di aggressione al terrorismo internazionale? Non si rischia così di svuotare di senso, fino a diffondere attorno ad essa un insopportabile sentore di ipocrisia e di doppiezza, una legittima battaglia contraria alla guerra? Non sarebbe il caso di chiarire cos’altro dovrebbe fare l’«intelligence» se non individuare la rete di complicità di cui i terroristi godono in tutto il mondo? E allora perché delegittimare il lavoro di un magistrato anti-terrorismo che si avvale della collaborazione dell’«intelligence»? A meno che non si voglia, assolvendo Daki, condannare senza appello l’«intelligence» stessa, un tempo amata, e ora, chissà perché, detestata.
A pagina 3 IL FOGLIO pubblica l'editoriale "Più intelligence è più intelligence".

Ecco il testo:

Nella discussione sui modi più efficaci per affrontare il pericolo terroristico, in alternativa all’uso della forza militare, si è molto insistito su un uso più incisivo dell’intelligence. Un sistema complesso e poco conosciuto di reti estese in tutto il mondo, si diceva, non si può sconfiggere senza entrare in qualche modo al suo interno, senza infiltrarsi per scoprire notizie, per comprendere le forme organizzative, per cercare di prevenire gli attentati criminali.
E’ assai discutibile che questa azione, da sola, senza un intervento contro i paesi che condividono con i terroristi l’obiettivo di destabilizzare l’occidente, sarebbe sufficiente. Però è evidente che l’azione dei servizi segreti, quando si combatte un nemico che si nasconde nella clandestinità, è assolutamente indispensabile. Il governo americano e le sue agenzie forse non avevano bisogno di molti consigli per rendersene conto, e infatti hanno messo in campo tutte le loro forze anche in questa direzione. Però ora che qualche traccia di queste operazioni coperte è emersa, gli antichi sostenitori dell’intelligence sono tutti scandalizzati. Si scopre con indignazione che la Cia opera in modo non "trasparente", che non chiede pubblicamente il permesso di agire alle autorità giudiziarie, insomma che fa il suo mestiere di servizio segreto. Che cosa credono che sia l’intelligence quelli che ne invocano sempre l’impiego, salvo adontarsi quando scoprono che è stata effettivamente messa in opera? Per costringere terroristi a confessare i loro segreti, per cercare di sventare attentati e di scompaginare reti criminali, non si usano le prediche. Franco Frattini, che pure di servizi dovrebbe intendersi, minaccia gravi sanzioni ai governi europei sospettati di aver collaborato con la Cia nella lotta al terrorismo. Sarebbero, addirittura, complici della violazione dei diritti dell’uomo. I servizi sono segreti perché debbono infiltrarsi in organizzazioni illegali, anche con metodi non ordinari. Si fece così, anche in Italia e in Germania, nella lotta al terrorismo domestico, e lo sanno tutti, ma nessuno si è scandalizzato. I socialisti spagnoli, nella lotta contro l’Eta, hanno perfino superato i limiti, utilizzando, invece dei servizi di Stato, altre organizzazioni di tipo "privato".
Ora l’Europa si è improvvisamente scoperta una coscienza pudibonda, come se la lotta al terrorismo, anche dopo le stragi di Madrid e di Londra, non fosse affar suo.
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