Critiche infondate al governo Sharon
da Franco Venturini
Testata: Corriere della Sera
Data: 21/11/2005
Pagina: 1
Autore: Franco Venturini
Titolo: Sharon e la debolezza delle Grandi coalizioni
Il CORRIERE DELLA SERA di domenica 20 novembre 2005 pubblica in prima pagina e a pagina 34 un articolo di Franco Venturini, "Sharon e la debolezza delle Grandi coalizioni".

Incentrato sul tema delle coalizioni di governo allargate, la cui adozione nel nostro paese Venturini intende sconsigliare rifacendosi agli esempi tedesco e israeliano, l'articolo sembra sacrificare alla sua tesi il rispetto dei fatti: non è vero che la coalizione di governo israeliana sia stata un fallimento, né che, fino a che a guidare il Labour era Shimon Peres, essa fosse lacerata da insanabili contrasti.
I contrasti sono emersi quando alla guida del partito laburista israeliano è andato Peretz. E a quel punto la coalizione è uscita di scena.
Non senza aver prima ralizzato l'importante risultato del ritiro da Gaza che inspiegabilmente Venturini minimizza lasciando intendere di considerare degli illusi i commentatori che vi hanno visto una svolta storica.
Senza però spiegare i motivi di questo suo scetticismo, che tanto ricorda quello di alcuni irriducibili detrattori di Sharon le cui opinioni sono sovente ospitate dai quotidiani italiani.

Ecco il testo:

Non si può dire che Ariel Sharon sia stato colto alla sprovvista, perché al premier israeliano non era di certo sfuggito fino a che punto il ritiro da Gaza avesse scosso, per ragioni diverse, tanto il maggioritario Likud quanto i suoi alleati di governo laburisti. Ma la mancata sorpresa non rende meno evidente, e interessante per noi italiani, il paradosso politico verificatosi a Gerusalemme.
Il disimpegno dei militari e dei coloni dalla Striscia di Gaza è stato, operativamente, un sicuro successo. I tempi sono stati rispettati, i temuti disordini non hanno superato livelli fisiologici, i palestinesi hanno mantenuto la promessa di non interferire. E mentre alla Knesset e all'interno del suo stesso partito Sharon veniva costretto a continui bracci di ferro, i sondaggi d'opinione davano nettamente ragione al primo ministro confermando che la società israeliana ha vedute più ampie di quelle di buona parte dei suoi rappresentanti.
Non solo. Prima, durante e dopo il ritiro, Sharon venne sommerso da compiacimenti internazionali senza precedenti, fiumi d'inchiostro e dotti discorsi provarono a raccontare la sua mutazione da «falco» a «colomba», anche i più scettici gli concessero il beneficio del dubbio pur temendo che quella del capo del governo fosse stata soltanto una mossa tattica destinata a non avere seguiti in Cisgiordania e nell'auspicata ripresa del negoziato con i palestinesi.
Ebbene, tre mesi appena dopo la sua vittoria sul campo Ariel Sharon è oggi un premier dimezzato in attesa delle elezioni anticipate previste per marzo. E non è ancora del tutto chiaro se alle urne Sharon andrà alla testa del partito che contribuì a fondare, il Likud, oppure se sceglierà di far nascere una nuova formazione politica che lo metta al riparo dal rivale Netanyahu e insieme gli consenta di meglio affrontare il nuovo avversario laburista Amir Peretz.
Guardiamo altrove, guardiamo alla Germania. I vertici cristianodemocratici e socialdemocratici hanno festeggiato ieri l'altro l'accordo definitivo per formare il nuovo governo di «grande coalizione». Dopo il voto del 18 settembre la trattativa è durata due mesi e non sono mancati per la signora Merkel, nuovo cancelliere, momenti di tensione e paure di non farcela.
Ma se la Germania ha un governo, come si presenta il suo programma? Quel tanto che è stato reso noto dà pienamente ragione a quanti temevano una infinita serie di compromessi al ribasso. In campagna elettorale la Merkel aveva promesso meno tasse per tutti e riforme strutturali per rilanciare l'economia tedesca. Ora, da imminente capo del governo, la stessa signora Merkel annuncia che con l'Iva aumenteranno anche le tasse per gli scaglioni più alti e gli unici accenni di riforme strutturali (a parte l'aggiornamento dell'organizzazione federale del Paese) riguardano la maggior durata dei periodi di prova prima delle assunzioni e l'innalzamento dell'età pensionabile nell'arco di un lunghissimo periodo di tempo. L'enfasi, semmai, è sul rientro dal deficit di bilancio che non si vede come potrà essere realizzato. Quanto alla sanità e agli ingranaggi più delicati del sistema fiscale e del mercato del lavoro, le riforme resteranno in lista d'attesa.
Cosa unisce quanto è già accaduto in Israele e quanto sta per accadere in Germania? Una lezione che dovrebbe interessarci, mentre in Italia riaffiora periodicamente il dibattito su possibili futuri esperimenti consociativi: i governi di «grande coalizione», che si trovino a Gerusalemme o a Berlino, non sono in grado di affrontare efficacemente quelle «grandi questioni» in funzione delle quali sono spesso nati o vengono accettati.
Ogni situazione nazionale è diversa dalle altre, beninteso.
In Israele è stato il partito laburista in crisi di identità a rovesciare il tavolo comune, sbarazzandosi dell'eterno conciliatore Shimon Peres.
In Germania sono state le paure incrociate degli elettori a produrre un verdetto aritmeticamente diabolico e ancora oggi la memoria della Repubblica di Weimar rende difficile un troppo frequente ritorno alle urne. In Italia esisterebbero altre peculiarità. Ma alzare lo sguardo oltre i nostri confini può essere comunque utile. E quel che vediamo, oggi, non depone a favore di quelle grandi coalizioni dove il consenso è tanto ampio sulla carta da potersi tranquillamente ridurre a ben poca cosa nella realtà.
Tre mesi dopo Gaza il premier israeliano è un leader «dimezzato» Ciò che accade a Gerusalemme e a Berlino è una lezione per l'Italia
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