Simpatia per il diavolo fondamentalista
al mensile cattolico piace l'Iran
Testata: Jesus
Data: 29/06/2005
Pagina: 1
Autore: Alberto Comuzzi
Titolo: A cavallo tra passato e futuro
Nel numero di giugno del mensile cattolico Jesus è pubblicato un articolo
di Alberto Comuzzi intitolato "A cavallo tra passato e futuro". Un'analisi,
non proprio obiettiva, su un paese che da sempre finanzia i maggiori gruppi
terroristici Hezbollah e Hamas, che non ha mai rinunciato all'arma
nucleare, che odia tutte le democrazie con particolare riguardo per Stati
Uniti ed Israele e nel quale le donne non possono uscire dopo il tramonto
perchè altrimenti sono definite "scostumate".


L'Iran è oggi il maggior pericolo per la stabilità e la sicurezza di tutta
l'area mediorientale e la recente elezione di un ultra conservatore fra i
più radicali, Mahmud Ahmadinejad, non può che aumentare tale minaccia.


Un paese che però suscita le simpatie del giornalista. ...."Per i segnali
di apertura che le autorità hanno lanciato nei confronti dei crstiani".


Oltre ad un evidente errore di valutazione " è praticamente scontata
l'elezione di Rafsanjani alla presidenza" il giornalista ravvisa che "in
Iran è difficile trovare segni di povertà, il popolo è ospitale, la Repubblica dell'Iran riconosce libertà di culto anche se le religioni che non siano quella
islamica non possono mostrare pubblicamente la propria fede, il governo di
Teheran (davvero encomiabile!!) ha invitato le maggiori organizzazioni di
pellegrinaggi italiani a organizzare viaggi nel Paese" ecc.....


Riportiamo l'articolo in quanto ogni ulteriore commento è superfluo.

L'ala lucente dell’Airbus 320 plana, alle prime luci di un’alba rossastra,
sulla pista di Teheran. La città è ancora addormentata, ma dentro
l’aeroporto è un brulicare di tonache nere svolazzanti (il chador che tutte
le impiegate dello Stato sono tenute a indossare), che acuiscono il
contrasto con i variopinti colori di giganteschi poster pubblicitari. A
causa dell’embargo, in Iran, da oltre vent’anni, non entrano beni
industriali strategici occidentali; il governo iraniano ha così deciso di
rifiutare gli altri prodotti di largo consumo, a cominciare dall’universale
Coca-Cola. È ben presente, però, la martellante pubblicità, simbolo e reale
ancella del più classico consumismo occidentale. Non c’è sala d’aspetto
d’aeroporto, viale o piazza di città iraniana in cui non campeggi, nitido e
gigantesco, qualche invito a consumare Zam Zam Cola o Zam Zam Orange,
versioni islamiche e buone imitazioni, nel gusto e nella colorazione, delle
più note Coca-Cola e Fanta.


Strano Paese l’Iran, dove ti fai subito un nemico se non fai capire al tuo
interlocutore che hai ben presente che lui, con il mondo arabo, non ha
nulla a che vedere. «Noi discendiamo dai Parti e dai Medi», ti ripetono
ossessivamente, «che con gli arabi non hanno nulla da spartire». Strano
Paese l’Iran, dove coesiste una legislazione che consente di avere quattro
mogli e una quinta pro tempore – con il consenso della prima moglie, però –
ma dove non s’è ancora compresa e accettata la differenza tra sindaco,
responsabile religioso e giudice, essendo le tre figure e i relativi poteri
concentrati quasi sempre in un’unica persona, quella dell’imam (che può
essere ayatollah, mollah, califfo o mufti, a seconda delle accezioni e
delle storie dei vari Paesi musulmani).


Strano Paese l’Iran, dove i seguaci dell’ayatollah Khomeini perseguono
l’ideale storico concreto della città musulmana – incarnato nei valori del
nazionalismo, del socialismo e della rivoluzione –, ma dove gli stessi
seguaci devono poi fare i conti con i valori altrettanto forti pretesi da
una società che spinge verso una distinzione fra religione e Stato, modelli
di vita occidentalizzanti, sistema politico basato su istituzioni
democratiche.


L’Iran di oggi dà l’impressione d’essere impegnato nella ricerca di una
nuova via al capitalismo, però di stampo islamico. In altri termini è come
se l’attuale leadership iraniana dicesse: il capitalismo occidentale non ci
piace e non lo vogliamo, ma quello che realizziamo noi può stare in piedi.
D’altra parte il Paese, dal punto di vista delle risorse naturali, è uno
dei più ricchi del mondo: detiene il 9 per cento delle riserve mondiali di
petrolio e il 15 per cento di quelle di gas. L’ayatollah Ali Akhbar Hashemi
Rafsanjani, attuale presidente del Consiglio delle scelte (un organismo
atipico, preposto fra l’altro a dirimere le dispute fra il Parlamento e il
potentissimo Consiglio dei guardiani che ha poteri di veto sulle leggi e
sugli atti del governo e, soprattutto, che seleziona i candidati alle
elezioni), appartiene a un’antica famiglia dell’aristocrazia economica che
controlla l’intera produzione di pistacchi del Paese.


Il 56 per cento della produzione mondiale di pistacchi è prodotto nel
Rafsanjan, la zona a sud-est del Paese che porta lo stesso nome dell’
ayatollah, e dove opera la Rppc (una gigantesca cooperativa che rappresenta
70 mila coltivatori, aziende di lavorazione e di esportazione del
pistacchio). Per capire che cosa significhi controllare la produzione e la
commercializzazione del pistacchio in Iran, basti ricordare che, dopo il
petrolio e il gas, questa particolare pianta di frutta secca costituisce –
assieme alla produzione di tappeti – le maggiori entrate dalle esportazioni
del Paese


Nell’imminente tornata elettorale (il 17 di questo mese si vota per
eleggere la massima carica dello Stato) è praticamente scontata l’elezione
di Rafsanjani alla presidenza. Su di lui, politico pragmatico a capo del
partito dei tecnocrati, convergeranno sia una parte dei voti dei riformisti
(guidati da Khatami) sia dei conservatori (che fanno capo a Khamenei).


Nonostante la devastante guerra con l’Iraq e i ripetuti terremoti, è
difficile notare segni di povertà tra i settanta milioni di iraniani.
Girando per le principali città del Paese – dall’antica capitale, Isfahan,
alla nuova, Teheran, dalla città giardino di Shiraz (poco distante dalla
storica Persepoli) a Yazd (che ospita il tempio del fuoco e le torri del
silenzio degli zoroastriani) – non si notano accattoni, né segni di povertà
endemica. La capitale Teheran, nonostante sia circondata da imponenti
montagne, soffre invece degli stessi mali che affliggono le grandi città
dell’Occidente: traffico caotico e inquinamento. I ricchi viaggiano su
Mercedes o su fuoristrada giapponesi, le classi medie e piccolo borghesi su
Paikan, letteralmente "Freccia" (un modello di vettura anni Sessanta,
prodotta da una fabbrica francese nel Paese), le classi meno abbienti usano
motociclette di tipo economico in gran parte di marca giapponese.


Agli occhi di un occidentale, talune contraddizioni di questo singolare
Paese al confine tra mondo arabo e Oriente asiatico appaiono davvero
stridenti. Per esempio: i prodotti di cosmesi femminile, gli abiti e la
stessa biancheria intima per signora hanno fatturati ragguardevoli, eppure
i manichini nei negozi sono tutti rigorosamente maschili. Le donne possono
uscire di casa la sera, ma devono essere accompagnate da uomini. Dopo il
calare del sole, le iraniane sono considerate "scostumate" anche se, in
gruppo, prendono una boccata d’aria per strada. Eppure le iraniane sono
donne molto emancipate: tra le nuove generazioni pochissime non terminano
gli studi superiori, moltissime frequentano l’università e quasi tutte
parlano fluentemente l’inglese o il francese.


Anche sotto il profilo religioso non mancano le sorprese. Monsignor Ignazio
Bedini – originario di Sassuolo, in Emilia, ma da 15 anni vescovo di
Teheran e da 42 residente nel Paese – dice che «l’Iran è un Paese di 70
milioni di credenti, dove nessuno si permetterebbe mai d’imprecare contro i
santi, i profeti o, meno che meno, di bestemmiare il nome di Dio». Le
moschee sono tutte molto ben tenute, ma il venerdì, giorno sacro
nell’islam, è difficile stabilire quanti siano i fedeli che le frequentano
più per ascoltare il discorso politico dei capi spirituali che per
raccogliersi in preghiera.


È comunque vero, come afferma monsignor Bedini, che il popolo iraniano è
ospitale e che l’esigua comunità cattolica è rispettata. «La gente ha
fede», ribadisce il vescovo, che ricorda come «questa terra è anche
biblica». L’antica Persia è citata in diversi libri dell’Antico Testamento
(Genesi, Isaia, Esdra, Abacuc, Daniele, Ester, Tobia, Giuditta, Maccabei) e
persino nel Nuovo Testamento, dove Matteo descrive i Magi venuti
dall’Oriente. In quel Paese si svolgono fatti e vivono re – Ciro, Dario,
Serse, Artaserse – che coinvolgono il popolo ebraico. Ciro, nel libro di
Isaia (45,1), è chiamato addirittura "messia" per il compito affidatogli da
Dio di liberare gli ebrei dalla deportazione di Babilonia. «La Parola si è
rivelata anche qui dove nel VI secolo prima di Cristo gli ebrei furono
deportati dall’Iraq», ricorda monsignor Bedini.


Il trattamento riservato ai cattolici è garantito anche agli armeni,
accolti dopo la persecuzione patita dai turchi che, nel 1915, nel corso del
primo grande genocidio del XX secolo, ne sterminarono un milione e mezzo.
Altra comunità religiosa presente in Iran è quella dei mazdei, detti anche
zoroastriani, il cui numero s’aggira attorno ai 15 mila fedeli. Il
mazdeismo era la religione dell’Iran prima della conquista araba e della
conversione progressiva all’islam. Nel Paese rimangono solo due isole
mazdee, a Kerman e nelle vicinanze di Yazd, oltre ai mazdei insediati da
poco a Teheran. Lo scià Reza Pahlevi, negli anni Cinquanta, vietò l’uso
delle cosiddette torri del silenzio, luoghi con mura circolari posti sulle
sommità di piccole colline con al centro un braciere permanentemente
acceso, dove i seguaci del mazdeismo abbandonavano i cadaveri dei propri
defunti perché fossero dati in pasto agli avvoltoi. Oggi questa pratica
(basata sul principio che «l’uomo, venendo dalla natura, alla natura deve
tornare») è permessa solo in India dove la comunità mazdea conta 5 milioni
di fedeli.


La Repubblica islamica dell’Iran riconosce quindi libertà di culto, ma non
ammette quella religiosa. In Parlamento sono però garantiti cinque seggi
alle minoranze religiose: 3 ai cristiani, e uno rispettivamente agli
zoroastriani e agli ebrei. Così come tutti gli edifici di culto – che non
siano le moschee, ovviamente – non possono affacciarsi su strade, piazze,
giardini, ma devono essere racchiusi in spazi non visibili al pubblico;
anche i credenti in religioni che non siano quella islamica non possono
mostrare pubblicamente la propria fede, che deve essere esternata
unicamente all’interno dei propri luoghi di culto. Il musulmano che volesse
convertirsi a un’altra religione incorrerebbe in gravi sanzioni, fino alla
condanna a morte.


Da questo punto di vista le leggi iraniane in materia di libertà religiosa
sono molto precise. Il nunzio apostolico, il vescovo e i sei preti
cattolici, uno per le altrettante parrocchie riconosciute in tutto il Paese
(4 a Teheran, una a Isfahan e una a Tabriz), sono autorizzati a muoversi,
senza avvisare le autorità, esclusivamente solo entro un raggio di 70
chilometri dalla capitale. Il motivo, come spiega il nunzio, monsignor
Angelo Mottola, è quello di garantire, da parte delle forze dell’ordine
iraniane, la sicurezza ai ministri del culto stranieri. Poco prima della
rivoluzione khomeinista del 1979 hanno lasciato il Paese 300 mila
cristiani, che oggi sono ridotti a circa 90 mila contando tutte le
confessioni. La comunità più numerosa è quella degli armeni ortodossi
(circa 60 mila), seguita da quella dei caldei (6 mila) e da quella
cattolica latina (poco più di 3 mila persone, tutte straniere, residenti
nel Paese il tempo previsto dai contratti di lavoro). I sacramenti più
amministrati sono i battesimi di bimbi coreani, italiani e filippini, le
nazionalità cui appartengono le tre maggiori comunità di lavoratori
stranieri presenti in Iran


Il nunzio ammette che occorre grande equilibrio per non urtare la
sensibilità dei leader che oggi reggono l’Iran. «Il compito della comunità
cattolica», spiega, «è quello della testimonianza silenziosa. È un periodo
non facile, l’attuale, soprattutto dopo che lo Stato s’è incamerato le
quattordici scuole con relative cappelle, impedendo così ai pochi cattolici
presenti qualsiasi attività anche di tipo culturale, sociale o
assistenziale».


Una non insignificante apertura "politica" verso la Chiesa di Roma è stata
fatta di recente dal presidente iraniano Mohammad Khatami che –
accompagnato dal ministro degli Esteri, Kamal Kharrazi – ha partecipato a
Roma ai funerali di Giovanni Paolo II. Questo atto s’inscrive nell’onda
lunga di un processo di riavvicinamento alla Santa Sede iniziato dal
governo iraniano nel 1999, quando proprio Khatami fu il primo presidente
della Repubblica islamica a incontrare il Papa in Vaticano. In sintonia con
questa linea si muovono autorevoli esponenti del ministero del Turismo, il
dicastero più idoneo a togliere l’Iran dall’isolamento con l’Occidente. Per
bocca di Ahad Qasaei, il governo di Teheran ha invitato le maggiori
organizzazioni di pellegrinaggi italiani a organizzare viaggi nel Paese.
Già ambasciatore in Afghanistan, Qasaei dirige oggi l’Ufficio ricerche e
marketing dell’organizzazione che sovrintende al patrimonio culturale e
turistico dello Stato (una specie di superdicastero che ha il compito di
dare all’estero l’immagine di un Iran turisticamente appetibile). La sua
opinione è che i 700 mila stranieri che, nel 2004, hanno visitato il Paese
per ragioni turistiche sono un numero che può essere facilmente
incrementato. Il turismo su cui punta l’Iran è quello che gli operatori del
settore definiscono "culturale" e "religioso". Ancor più che in altri Paesi
islamici, infatti, Teheran gradisce avere in casa turisti rispettosi dei
costumi locali perché attratti soprattutto dalla storia, dalla cultura e
dalla spiritualità dei luoghi.


I tour operator specializzati in pellegrinaggi – da Brevivet a Opera romana
pellegrinaggi – confermano che i gruppi che si appoggiano alle loro
organizzazioni sono costituiti da persone interessate a visitare l’antica
Persia per i suoi luoghi ricchi di storia e non certo per appagare desideri
d’esotismo o d’evasione. L’ostacolo è la rigidità delle autorità locali
iraniane su alcune questioni di fondo non secondarie come, per esempio, la
possibilità di accedere con facilità a luoghi cari alla tradizione
giudaico-cristiana. «Un pellegrinaggio, infatti, ha senso», come spiega
monsignor Ruggero Zucchelli, presidente di Brevivet, «se è possibile
visitare, per esempio, luoghi come la tomba di Ester e di Mardocheo nella
città di Ecbatana (attuale Hamadan), la tomba del profeta Abacuc a
Tuyserkan, la tomba di Daniele a Susa o anche se si riesce a confortare la
tradizione allusiva ai Magi, citati da san Matteo, accostati alla nascita
di Gesù».


«Proprio per approfondire la conoscenza dell’islam», gli fa eco
l’amministratore delegato di Brevivet, Giovanni Sesana, «sarebbe anche
particolarmente interessante visitare e sostare a Qom, la città santa
musulmana, ma non ci sono strutture d’accoglienza adeguate e soprattutto le
autorità non gradiscono la presenza di non musulmani». Qualcosa però, in
questi ultimi mesi, si sta muovendo. Nel Paese degli ayatollah solo le
persone in malafede si ostinano a identificare il cristianesimo con gli
interessi economici dell’Occidente. Il riavvicinamento dell’Iran all’Ovest
passa anche attraverso la Chiesa di Roma e i suoi fedeli.
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