Dossier Iran: dopo la vittoria degli ultrafondamentalisti alle "elezioni"
le analisi di Carlo Panella e Tatiana Boutorline, le reazioni della comunità internazionale, la soddisfazione dei palestinesi estremisti
Testata: Il Foglio
Data: 28/06/2005
Pagina: 1
Autore: Carlo Panella - Anna Barducci - Tatiana Boutorline - Paola Peduzzi
Titolo: La squadra khomeinista si è divisa - Amici del pasdaran - La matematica creativa degli ayatollah - Stupore, abitudine, rassegnazione
IL FOGLIO di lunedì 28 giugno 2005 pubblica in prima pagina l'articolo di Carlo Panella "La squadra khomeinista si è divisa", che riportiamo:
Roma. Con le presidenziali e la vittoria di Ahmadinejad, a Teheran è iniziata la reazione a catena. Non solo quella atomica, in senso stretto, che porterà il paese da qui a pochi mesi a disporre di una bomba nucleare montata su missili, ma anche quella politica. Si è infatti spaccato drammaticamente il nucleo del potere, il cuore del "partito rivoluzionario", di hezbollah, il partito di Dio. Il gruppo dirigente della rivoluzione khomeinista si è lacerato irrimediabilmente e si è imposta l’ala dura, militarista, propugnatrice della "rivoluzione permanente", con spiccate velleità savonaroliane. Una spaccatura che impone ora ai perdenti, raccolti attorno a Rafsanjani, a Kharrubi e ai riformisti in rotta, una reazione nel breve periodo, pena l’eliminazione del residuo di potere che è rimasto loro in mano. Una spaccatura maturata non in un regime come tanti, ma in un corpus complesso plasmato dalla rivoluzione e che quindi vede gli uni e gli altri contendenti forti di un blocco sociale di riferimento cospicuo, composto da milioni di iraniani. Ma il blocco rivoluzionario e oltranzista di Ahmadinejad ha dimostrato di avere alle spalle un forte riscontro nella propria base sociale, cementata da un solido welfare islamico che brucia i petrodollari, ma che può oggi permetterselo col brent a 60 dollari il barile. Invece, il blocco sociale dei riformisti, così come quello dei rivoluzionari moderati e dei burocrati del regime, il cui campione è Rafsanjani, è risultato disomogeneo, debole, incerto, penalizzato dalla più geniale delle operazioni mandata in porto da Khomeini: l’esilio in massa di intere classi sociali medio alte, 2-3 milioni di iraniani occidentalizzati. Un’immensa Vandea oggi stabilmente ancorata in Wisconsin o nel Londonistan. Quello iraniano è quindi un quadro destinato a un rapido logoramento sul piano interno, a probabili, violente, rese dei conti, già oggi temute da quell’ayatollah Khamenei che a un esame superficiale pare essere lo sponsor principale dei falchi vincitori, e che invece è solo un debole mediatore delle loro tendenze più estreme, inadeguato peraltro al ruolo di guida suprema.
La dinamica interna iraniana subirà così una drammatica accelerazione, che accompagnerà, in maniera inscindibile, un rilancio su scala regionale della esportazione della rivoluzione islamica. Da Teheran, di qui a poco, verrà probabilmente la risposta alla domanda angosciosa che dopo l’11 settembre ha preoccupato il mondo: cosa succederà quando e se i terroristi islamici disporranno di un’atomica? Lo scenario reale, però, sarà ancora peggiore di questa prospettiva teorica, perché la bomba atomica non sarà in mano a un gruppo di sbandati, ma a un quartiere generale rivoluzionario islamico, di lunga e comprovata esperienza, con rapporti intensi (politici, militari, finanziari, logistici) con tutti i gruppi terroristi islamici del mondo – al Qaida inclusa – politicamente espertissimo e tanto popolare da riuscire a ottenere i voti – con le buone e con le cattive – di ben 17 milioni di iraniani.

La lacerazione covava da anni
L’elezione a sorpresa – per i media occidentali – di Mahmud Ahmadinejad ha infatti questo drammatico risvolto: il potere in Iran è ora integralmente nelle mani della componente rivoluzionaria più accesa, che controlla l’apparato militare politicizzato (pasdaran e bassiji) e le Forze armate, che ha fatto della costruzione dell’atomica (e dei missili balistici in grado di trasportarla almeno fino a Israele) il suo obiettivo vitale. Una componente rivoluzionaria che apre ogni anno la grande parata militare di Teheran (stile piazza Rossa, anni di Stalin) il 19 febbraio (data della presa del potere nel 1979) sotto le insegne: "Distruggere Israele".
La lacerazione del gruppo dirigente storico della Rivoluzione islamica si è subito scaricata nelle istituzioni e nel rapporto col corpo elettorale (in Iran la democrazia opera solo dentro il mondo islamico "puro", scelta oculata di Khomeini, che l’Europa non ha mai voluto capire). Questa lacerazione covava da anni sotto la cenere, è stata sinora sempre ricucita, è esplosa alla luce nelle diverse strategie adottate nei confronti della crisi irachena e ora non è stata affatto chiusa. Vi saranno dei contraccolpi, nuovi bracci di ferro, epurazioni, forse drammi.
Sul piano internazionale, le più prevedibili conseguenze della vittoria dei fondamentalisti riguardano l’Iraq, in cui l’avventura insurrezionale tentata un anno fa da Moqtada Sadr aveva come sponsor il gruppo di potere oggi riunito attorno ad Ahmadinejad e in cui le infiltrazioni terroristiche dall’Iran sono denunciate dagli stessi iracheni; riguardano il Libano meridionale in cui Hezbollah – partito fratello dell’"Internazionale islamica sciita" – si è appena rafforzato elettoralmente e ha ora una ragione forte in più per non disarmare; riguardano la Siria che dei "duri" di Teheran è l’unico, storico, alleato; riguardano l’Afghanistan in cui gli ayatollah godono di una sorta di stock option sul governo Karzai e riguardano la Palestina.
Il nuovo presidente iraniano è infatti espresso dal gruppo di potere che ha sempre armato Hamas (come dimostra lo scandalo della Karine A, intercettata nel 2002 con un carico d’armi di Teheran diretto a Gaza), che ora gode di una partnership siro-iraniana ben più determinata di prima. Il tutto accompagnato da una probabile iniziativa iraniana sul petrolio che porterà al peggioramento della bilancia energetica mondiale, che già tanto pesa sulla ripresa economica.
Ahmadinejad ha impostato tutta la sua campagna elettorale su un ritorno all’economia islamica rivoluzionaria (compresa la chiusura della Borsa, perché "investire in Borsa è peccaminoso come chiedere interessi e scommettere") basata non sugli investimenti – anzi, è rivendicata l’intenzione di rimandare a casa gli investitori europei che ora operano nel paese – ma solo su una politica rialzistica del petrolio in sede Opec. Uno schema da economia beduina, in cui l’unico problema della leadership è quello di vendere al più caro prezzo il prodotto del pozzo e poi di distribuire immediatamente ai membri della tribù il ricavato. Nel 1979 questa politica s’impose nel gruppo dirigente khomeinista (il petrolio nel 1980 salì a 40 dollari, 80 al valore di oggi) ed è stata contrastata in seguito sia dai riformisti sia dai realpolitiker alla Rafsanjani. Tutto fa intendere che il nuovo gruppo dirigente, emarginati i moderati, si appresti a riproporre quella strategia.

La bomba nucleare islamica
Naturalmente su nessuno di questi scenari si verificherà una precipitazione immediata. E’ probabile anzi che le trattative sul nucleare col "terzetto europeo" di Francia, Germania e Inghilterra riprendano presto, è probabile che non falliscano subito, almeno in apparenza. Ma è ancora più probabile, forse certo, che saranno utilizzate da Teheran solo per gettare fumo negli occhi. Tesi questa già molto forte nella Amministrazione americana e che ora si rafforza, anche perché Ahmadinejad, in campagna elettorale, non ha risparmiato critiche oltranziste agli stessi mediatori iraniani sinora entrati in campo: "Hanno paura e indietreggiano davanti alla controparte". D’altronde, Hashemi Rafsanjani è stato sconfitto con la sua piattaforma di ricomposizione dei rapporti con gli Stati Uniti mentre Ahmadinejad, appena eletto, ha subito dichiarato che "non vi è nessuna necessità di riprendere i rapporti con gli Stati Uniti" e quindi normalizzare le relazioni con tutta la comunità internazionale.
Tutto il gruppo dirigente rivoluzionario, che ora è capeggiato da Ahmadinejad (di cui fanno parte Mohammad Baqer Zolqad, comandante in capo dei Pasdaran, e il generale Nour Ali Shoushtari, comandante delle forze terrestri dei Pasdaran), è quello stesso che dal 1982 al 1988 rifiutò di firmare la pace con un Saddam Hussein la cui aggressione del 1980 era stata prima contenuta e poi sconfitta, causando centinaia di migliaia di nuovi morti (che Ahmadinejad ha proposto di seppellire ora in ogni piazza dell’Iran, con una simbologia che non ha bisogno di commenti). Un rifiuto di pace e di tregua che aveva una sola ragione, abbattere per via militare il regime del Baath e riprendere con vigore la via dell’espansione internazionale della rivoluzione islamica, che è la vocazione più profonda della strategia khomeinista. Espansione internazionale che assume un particolare vigore in un ambito islamico in cui i confini della ummah e del dar al Islam, territorio dell’Islam, da 1.300 anni travalicano radicalmente i confini nazionali.
Contrapporre la bomba atomica islamica a quella israeliana è dunque una vocazione prepotente del nuovo, omogeneo, vertice politico-militare di Teheran, tanto più quanto l’Iran soffre, in campo islamico, la concorrenza di potenza regionale di un Pakistan che già possiede l’atomica e di un’Arabia Saudita (che ha finanziato l’atomica pakistana) e che sta seriamente tentando di dotarsene. Un gioco pericoloso in cui, purtroppo, la spregiudicatezza incosciente di Vladimir Putin svolge un ruolo primario. Il leader del Cremlino è stato l’unico a salutare subito, entusiasticamente, il neoeletto presidente iraniano, con un cinico augurio di consolidamento e sviluppo dei programmi atomici (naturalmente "per usi pacifici").
L’affermarsi di un hezbollah atomico nell’area del Golfo è oggi una prospettiva più che concreta e non sarà certo facile impedire questa iattura. Israele è ben cosciente dei rischi drammatici di questo scenario e Mark Regev, portavoce del ministero degli Esteri israeliano, ha lanciato ieri l’allarme: "Se qualcuno nella comunità internazionale sperava in un cambiamento nella politica nucleare dell’Iran, è chiaro ora che non ci sarà nessun cambiamento del genere". Secondo il ministro degli Esteri israeliano, Silvan Shalom, Teheran potrebbe disporre "entro sei-nove mesi delle conoscenze tecniche necessarie per produrre la sua prima bomba atomica" e l’esito delle ispezioni del prudentissimo ElBaradei e dell’Agenzia atomica internazionale (Aiea) non smentisce questa previsione. E’ certo quindi che rapidamente l’Onu si troverà investita del tema ed è da prevedere che darà la solita, pessima prova di sé.
Anche Abu Mazen non ha certo da rallegrarsi per la straordinaria svolta in atto a Teheran. In tutto il mondo islamico il "fronte del rifiuto" della strada negoziale con Israele (fautore quindi della sua distruzione) si era sinora assottigliato a tal punto che restavano soltanto i "falchi" iraniani, con le loro propaggini in Hezbollah e in Hamas. Falchi sinora controbilanciati da un’ala realista interna allo stesso gruppo dirigente rivoluzionario, che aveva visto addirittura nei mesi scorsi svilupparsi sui giornali del regime degli ayatollah l’autorevole proposta di un riconoscimento formale dello Stato di Israele. Ora però ha preso il potere a Teheran un blocco politico estremista che punta alla ripresa della espansione rivoluzionaria sui due assi perseguiti dal 1979: destabilizzazione dell’Iraq e della Palestina. Tutti gli avversari interni di Abu Mazen (a partire da Farouk Khaddoumi, leader di al Fatah, uomo di Damasco e – per questa via – assolutamente organico al raggruppamento dei falchi iraniani) hanno ora una partnership forte, determinata, ricca, spregiudicata.
Quadro non dissimile in Libano. Hezbollah libanese ha oggi molte ragioni in più per enfatizzare il suo ruolo eversivo (e la sua stretta alleanza con Damasco), forte anche dell’intesa con elementi fondamentali della cosiddetta "coalizione antisiriana", a partire dal druso Walid Jumblatt, che della coalizione è il baricentro, e che enfatizza ogni giorno di più il ruolo di "armata di liberazione nazionale" contro Israele dell’esercito di Hezbollah. Un esercito materialmente comandato da pasdaran iraniani, agli ordini di Teheran.

Come Trotzky vincitore contro Stalin?
Un quadro fosco, che si completa con previsioni delle stesse tonalità sul piano interno iraniano. Queste elezioni infatti sono segnate da una dinamica assolutamente diversa da quella descritta sulla stampa mondiale, ben più drammatica. I media descrivono una strana crisi di regime, una battaglia per la leadership tra Khamenei e Rafsanjani, uno scontro di linea politica, applicando i criteri della dinamica politica corrente in tutti i paesi. Ma questa è solo l’apparenza formale. In realtà – e questo è l’elemento più grave – in Iran si è consumata oggi una lacerazione del quadro dirigente della rivoluzione, con ritardo (25 anni dopo la rivoluzione) rispetto ad altre dinamiche totalitarie: in Russia scoppiò 10 anni dopo, nella Germania hitleriana un anno dopo la presa del potere.
Per comprendere questo percorso – fatte tutte le differenze storiche immense, solo per dare un’idea – si deve ricorrere a similitudini ardite. Oggi, il quadro politico di Teheran (la sua dinamica profonda, non certo formale) è quello di una Mosca della fine degli anni Venti in cui lo scontro dentro il Pcus sia stato vinto da Trotzky – alla testa della Armata rossa – e perso da uno Stalin che comunque non sia costretto all’esilio e quindi nelle piene condizioni di reagire. E’ quello di una Berlino in cui Hitler abbia fallito la notte dei lunghi coltelli del 30 giugno 1934, o abbia sposato la linea del sanguinario e populista rivoluzionario nazista Eric Roehm, con le sue Sa marcianti, e abbia umiliato e marginalizzato l’allora presidente del Reichstag Hermann Goering (personaggio vicino, per molti versi, a Rafsanjani) con i suoi rapporti con la grande industria e il grande capitale tedeschi.
Khamenei, il rahbar, la guida della rivoluzione, il successore di Khomeini, non ha dunque contrastato Rafsanjani dentro una logica di manovre di palazzo, di rapporti tra boiardi, come si legge. Ha semplicemente compreso che la tensione interna al "partito rivoluzionario" era ormai arrivata a tal punto che hezbollah, il "partito di Dio", aveva scelto di chiudere con ogni mediazione, pretendendo il comando assoluto, incontrastato.
Per comprendere quello che è successo in Iran e quello che – purtroppo succederà – basta guardare a quanto è successo nei seggi elettorali. Per due volte, con più forza venerdì scorso, il voto è stato determinato dagli squadristi di hezbollah. Era dal 1979 che non si vedeva in tutto il paese, a Teheran come nella più sperduta località di provincia, la presenza violenta di squadre di pasdaran e di bassiji a presidiare ogni urna, a controllare ogni voto. L’ex presidente del Parlamento, molto vicino a Khamenei, Kharrubi ha denunciato inutilmente questi soprusi, Rafsanjani allibito ha fatto ricorso. Nulla. Il candidato realpolitiker è stato umiliato, messo da parte, deriso. Con lui tutta la componente "civile" del partito rivoluzionario e il blocco sociale moderato di riferimento, incentrato sui baazari, la "borghesia" urbana commerciale e finanziaria.
Si è così scisso il gruppo dirigente della rivoluzione, dopo che per 25 anni Khamenei e Rafsanjani (dopo la morte in un attentato il 29 giugno 1981 del ben più potente e capace ayatollah Mohammed Behesti) sono stati i due "cavalli di razza" che hanno costituito il nucleo duro, il baricentro del potere rivoluzionario. Khamenei stesso è stato nominato rahbar e ha preso tutti i poteri teocratici di Khomeini soltanto per intervento personale, determinante di Rafsanjani. Khamenei era – ed è – palesemente al di sotto del ruolo di leader carismatico e – alla morte dell’Imam – nel 1988, fortissima era dentro il "partito" la tendenza ad attribuire il ruolo di rahbar, di guida della rivoluzione, a una struttura collegiale (come prevede la Costituzione di Khomeini). Ma Rafsanjani ha voluto incoronare con questo immenso potere monocratico il suo compare Khamenei. Ma ora, passati 17 anni, si è rotta la camera di compensazione. Elezioni segnate dall’arbitrio e dalla violenza, dai voti rubati, hanno aperto un conflitto duro, materiale interno non al regime, ma a tutto il quadro dirigente della rivoluzione con più seguito popolare della storia del Novecento.
Inizia ora la reazione a catena. Inevitabile. Perché hezbollah, i rivoluzionari duri, i pasdaran, i bassiji, devono portare a casa risultati concreti, rapidamente. Devono nutrire il consenso del proprio blocco sociale combattendo la corruzione dell’apparato burocratico, il cui simbolo, il cui campione è appunto un Rafsanjani che ha letteralmente arraffato un miliardo di dollari di patrimonio personale da quando la rivoluzione ha trionfato.
Si apre una stagione di politica populista – esattamente simile a quella voluta da Khomeini appena vinta la rivoluzione – accompagnata probabilmente da un ritorno dei tribunali islamici (meno efferati di quelli del Terrore di Khalkhali, ma non meno efficienti), che non potrà vedere una risposta di un qualche tipo nelle cordate perdenti.

Perfino la guida suprema ha dei timori
Si apre una stagione di "rigore rivoluzionario", addirittura inedita, per certi versi. Da sempre, sin dall’inizio, infatti, la grande saggezza di Khomeini è stata quella di usare la figura del presidente delle Repubblica e dei suoi – scarsissimi – poteri per raccordare cammino rivoluzionario e società civile. Da sempre il presidente della Repubblica o è una sorta di nazionalista un po’ liberale (come il primo, Abol Hassan Banisadr, poi deposto e condannato a morte, oggi in esilio) o è un realpolitiker (Rafsanjani, appunto) o un riformista, anche se velleitario, come Mohammed Khatami. L’esecutivo, insomma, con il suo rito elettorale apparentemente democratico (sempre solo dentro i confini della comunità islamica strettamente sorvegliata) ha sinora funzionato in maniera egregia da camera di decantazione delle tensioni sociali e politiche, permettendo al gruppo dirigente rivoluzionario di prendere le misure della società. Basti pensare alle illusioni che il movimento degli studenti ha riversato su Khatami. Oggi quella fase è finita e l’esecutivo diventa addirittura il baricentro di una ripresa rivoluzionaria che deve produrre catarsi in una società corrotta. Ahmadinejad ha usato frasi e slogan da "rivoluzione culturale islamica" e purtroppo è da prevedere che alle parole seguiranno i fatti.
La radicalizzazione, la svolta, l’emarginazione dal "partito" dei moderati è tanto netta e violenta che lo stesso apparente leader, Khamenei, ne è palesemente spaventato. Il divieto ai vincitori di festeggiare nelle piazze il trionfo, le parole di straordinario apprezzamento pronunciate dal rahbar nei confronti di Rafsanjani ci presentano oggi infatti un Khamenei più ostaggio che leader e questa sua debolezza palese aggiunge tinte ancora più fosche al quadro generale.
A pagina 3 dell'inserto l'articolo di Anna Barducci "Amici del pasdaran"
Roma. Il primo a gioire per la vittoria alle
presidenziali iraniane dell’ultraconservatore
Mahmud Ahmadinejad è stato Farouk
Kaddoumi, uomo della vecchia guardia dell’Olp
e leader di Fatah. Chiamato a diventare
vicepresidente dell’Anp, Kaddoumi potrebbe
sostituire il rais Abu Mazen in caso
di decesso o del peggioramento della sua
salute fisica. Le dichiarazioni del neopresidente
Ahmadinejad su Israele uguale Stato
terrorista, cui deve essere negato "il diritto
di dare giudizi", hanno sicuramente raccolto
la piena approvazione di Kaddoumi, da
sempre alleato dell’Iran e della Siria. Alcune
fonti palestinesi dicono al Foglio che il
leader di Fatah potrebbe anche andare a
Gaza, dopo il piano di disimpegno israeliano,
lasciando così il suo lungo e volontario
esilio a Tunisi. Ma si rifiuterà comunque di
tornare in Cisgiordania, ancora sotto il controllo
dell’IDF.
"La gente dice molte cose sull’Iran, io dico
che il nemico del mio nemico è mio amico
– aveva detto Kaddoumi alla tv siriana
qualche mese prima delle elezioni – inoltre
l’Iran ha i missili Shihab". Se il leader di
Fatah già apprezzava le posizioni del riformista
Mohammad Khatami, le ferme dichiarazioni
contro Israele, nel primo incontro
pubblico del neopresidente, hanno rafforzato
in Kaddoumi la speranza di nuovi finanziamenti
indiretti per una rinnovata ondata
di attacchi contro lo Stato ebraico.
Anche gli Hezbollah, il Partito di Dio, di
Hassan Nasrallah hanno festeggiato l’ascesa
di un loro "compagno". Nonostante il movimento
sciita libanese non abbia interessi
nella politica interna iraniana, sa che potrà
quasi sicuramente) contare su un ingente
contributo monetario per il proprio braccio
armato. Il rafforzamento di un centro sciita
in medio oriente, inoltre, è l’obiettivo condiviso
dagli Hezbollah. L’emaciato Ahmadinejad,
il volto della nuova guardia khomeinista,
dopotutto, difficilmente potrà nascondere
le proprie simpatie per i movimenti armati.
Ex pasdaran, in passato ha diretto attacchi
terroristici in Europa e medio oriente,
oltre a essere stato un membro di Ansari
Hezbollah, organizzazione paramilitare
iraniana contro i "violatori dei precetti islamici":
donne truccate, riformisti, coppie
non sposate. Ahmadinejad è percepito come
l’uomo del popolo, che prende l’autobus
e guida una Peugeot scassata, il leader onesto
dei poveri, che esprime le proprie opinioni
senza mostrare due facce. Non come,
seppur conservatore anche lui, il suo avversario
Hashemi Rafsanjani, chiamato "il corrotto",
che durante la campagna elettorale
ha voluto mostrare una faccia più malleabile.
Il Partito di Dio libanese vede di buon
occhio la cacciata dei riformisti iraniani e il
monopolio dei conservatori. Basta con le vie
di mezzo. Fanatismo e pragmatismo comunque
devono correre sullo stesso binario. In
ogni caso, nei confronti degli Hezbollah la
politica di Rafsanjani sarebbe stata la stessa.
L’Iran forse accetterebbe di disarmare il
gruppo armato soltanto in cambio dell’atomica.
Hamas, con proprie basi in Siria, riceve
ingenti finanziamenti dagli Hezbollah e
adesso pensa che l’elezione di Ahmadinejad
sia arrivata giusto in tempo: appena
prima del ritiro da Gaza per poter beneficiare
di nuovi armamenti dal gruppo sciita
libanese, manus longa dell’Iran.
Le pressioni statunitensi su Damasco
L’alawita Bashar el Assad a Damasco festeggia
silenziosamente. Gli Stati Uniti gli
stanno mettendo forti pressioni: il segretario
di Stato americano, Condoleezza Rice,
da Bruxelles gli ha inviato un chiaro monito,
come un ultimo avvertimento. La politica
interna siriana è divisa. Il risultato delle
elezioni in Libano è stato un voto contro il
suo regime. E Assad sta combattendo per la
sopravvivenza. Il rafforzamento di una politica
fondamentalista, chiaramente anti americana
e anti israeliana, del suo miglior alleato
è quindi una buona notizia, che potrebbe
però ritorcerglisi contro.
Osama bin Laden (o chi per lui), dal suo
nascondiglio, avrà accolto con soddisfazione
il risultato elettorale di Teheran. La Repubblica
islamica, per lui wahabita, rimane
comunque il paese dei "cugini miserabili"
dei sunniti, ma Ahmadinejad è un fondamentalista,
che, secondo molti, vuole portare
l’Iran a una forma di governo di tipo talebano.
Le donne di Teheran hanno già
espresso la paura che la loro condizione
possa peggiorare ulteriormente.
L’Arabia Saudita, invece, guarda impaurita.
Il principe Abdullah ha inviato le proprie
congratulazioni. Ahmadinejad ha ringraziato,
dicendo che manterrà buone relazioni
con tutti gli Stati arabi. L’Iran non ha
interesse a ostentare le proprie rimostranze
al regno wahabita. Ma i sauditi si ricordano
bene i finanziamenti ai miliziani sciiti in
Arabia. Dopo la rivoluzione islamica, negli
anni 80, il regno saudita aveva impedito ai
cittadini iraniani di compiere l’annuale pellegrinaggio
alla Mecca, per paura di attentati.
Una situazione di questo tipo potrebbe
ripetersi. L’Arabia Saudita teme di essere il
primo obiettivo di un Iran desideroso di colpire
interessi americani, soprattutto qualora
le pressioni occidentali per fermare il
programma nucleare della Repubblica islamica
diventino più forti e decise.
In prima pagina l'articolo di Tatiana Boutorline "La matematica creativa degli ayatollah, l'analisi dei dati racconta le altre sorprese di Teheran"
Roma. La Repubblica islamica vanta molti
primati, ma la matematica creativa li batte
tutti. Accantoniamo per un momento i sospetti
per accogliere i dati elargiti. Secondo
le autorità, il 60 per cento degli iraniani si è
recato alle urne con una flessione del 3 per
cento rispetto alla prima tornata elettorale.
Su 46.786.418 aventi diritto, al ballottaggio del
24 giugno hanno dunque votato 27.959.253 di
elettori. Sul neopresidente Mahmud Ahmadinejad
sono piovuti ben 17.248.782
di voti, un risultato a dir poco
ragguardevole, se si considera
che il 17 giugno il nostro si fermava
a quota 5.710.354. In una sola settimana
l’austero sindaco di Teheran
avrebbe conquistato altri 11 milioni di
voti, a riprova che nella terra dei mistici
e dei poeti anche i numeri si piegano docilmente
all’epica.
La spiegazione è facile, si dirà: Ahmadinejad
ha intercettato i consensi
per Ali Larijani, Mohammad
Baqer Qalibaf e gli altri del
blocco conservatore. L’ipotesi
non fa una grinza, però c’è
un problema: sempre ammesso
che su Ahmadinejad
siano stati dirottati
in blocco i consensi dei
falchi, sommando le quote
ai suoi voti presi al primo
turno, il primo cittadino
della capitale non avrebbe
comunque raggranellato più di 11.525.706 voti.
E gli altri 5.723.076 da quale inesausta sorgente
di braccia rivoluzionarie promana?
Arriva un momento in cui occorre deporre
le armi e fermarsi dinnanzi al mistero di
una logica matematica che sfugge alla logica
di chi non ha condiviso l’aria rarefatta dei
vertici della Repubblica islamica. Prima di
arrendersi però i "non iniziati" possono fare
un ultimo tentativo: forse la soluzione all’enigma
Ahmadinejad si evince riguardando
i numeri dello sconfitto hojatoleslam Akbar
Hashemi Rafsanjani. Rileggiamoli con
attenzione: il 24 giugno il kuseh ha catalizzato
10.046.701 voti. Una settimana prima
erano 6.159.453 e lui era debolmente in testa.
Sette giorni dopo la situazione si è capovolta,
non con un semplice sorpasso, ma con un
vero e proprio cataclisma al posto dello
scarto. "Se la matematica non è un’opinione
vinceremo", assicuravano la sera della vigilia
dal quartier generale di Rafsanjani. Ma
più che un’opinione la matematica si è rivelata
un esercizio di divinazione e nessuno
meglio dell’ayatollah Khamenei e del suo
amico Hossein Shariatmadari, direttore del
quotidiano Kayhan, l’ha saputo interpretare.
Mentre "lo spazzino degli iraniani" ha rimpinguato
il suo bottino di consensi con una
nuova investitura da parte di 11 milioni di
nuovi elettori, il principe della nomenklatura
non ne ha aggiunti più di 4 allo zoccolo
duro del 17 giugno. Niente di strano, si dirà,
non tutti i riformisti avranno scelto di turarsi
il naso e mettere una pietra sul passato.
Verissimo, perché se fosse andata così, altro
che dieci milioni di consensi. Rafsanjani
avrebbe sommato ai suoi 6 milioni i
10.409.943 ottenuti dalla cordata riformista
composta da Mustafa Moin, Mehdi Karrubi
e Mohsen Mehralizadeh. Un tonfo di queste
proporzioni dunque sarà da ascrivere agli
astensionisti. Tutto chiaro allora: rispetto al
17 giugno, 6 milioni di persone saranno rimaste
a casa. La faccenda però si ingarbuglia
ancora perché la Repubblica islamica
ci ha assicurato che la flessione non ha coinvolto
più di 1,5 milioni di persone.
L’insofferenza al regime è capillare
Arrendiamoci dunque alla missione impossibile:
la matematica creativa della Repubblica
islamica ha senz’altro fatto centro
e gli uomini comuni, iraniani o stranieri,
non possono capire con la loro logica terra-
terra. Abbandoniamo allora i numeri e
torniamo agli iraniani e al loro presidente.
Gli esegeti di antiche passioni rivoluzionarie
ci spiegheranno che la Repubblica islamica
è più solida che mai e prova ne è la
vittoria del fondamentalista Ahmadinejad.
Argomenteranno che lo Zeitgeist rivoluzionario
non ha mai smesso di soffiare e
che alla maggioranza degli iraniani va bene
così. Gli emuli di Foucault vi diranno
che gli iraniani che dal ’99 scendono in
piazza e gridano "azadi", libertà, sono una
minoranza, una minoranza "occidentalizzata"
e con la pancia piena. Gente che può
permettersi di viaggiare e guarda la tv satellitare.
Non credeteci. L’insofferenza al
regime è capillare e ha contagiato l’intero
corpo sociale. Come potrebbe del resto essere
altrimenti quando l’egualitarismo
khomeinista si è dimostrato una fandonia,
l’inflazione raggiunge il 15 per cento e la
disoccupazione è ormai schizzata al 28? Ci
vuole fegato per sfidare i manganelli, chi
rischia non lo fa perché a casa guarda
"Baywatch", né può accontentarsi di una
lipstick revolution alla Khatami. Chi in
Iran sfida e ha sfidato i bassiji, senza che
l’opinione pubblica internazionale palpitasse
come per gli arancioni di Kiev, non è
un teppista facinoroso, un ribelle a ogni costo
o un ingenuo idealista. 26 anni di khomeinismo
hanno dimostrato agli iraniani
che nella locuzione "Repubblica islamica"
a vincere sarà sempre la qualificazione
"islamica". (segue dalla prima pagina) Degli attributi di una
Repubblica non c’è in Iran che uno scheletro
sui generis, ma agli iraniani la sola
parvenza di una "forma", ha insegnato a
desiderare fortissimamente "la sostanza".
Gli iraniani non hanno mai avuto una
democrazia, ma nella loro Repubblica
formale hanno metabolizzato la sostanza
della democrazia meglio di chi vive senza
ambiguità sotto il giogo di una tirannia
tout court. Allora perché questo Iran
maggioritario stavolta è rimasto chiuso
nel suo guscio? Semplice: la terza forza è
troppo matura per essere barricadiera e
non rischia la pelle disarmata mentre il
Financial Times canta il magnificat del
"moderato" Rafsanjani e le agenzie pontificano
che l’Iran rivoluzionario con il
suo corredo di feroce revanscismo tra poveri
e ricchi è risorto insieme al lugubre
Mahmud Ahmadinejad. Nell’"altro Iran",
alcuni hanno scelto il minore dei due mali
e votato Hashemi Rafsanjani, molti altri
invece sono rimasti a casa, indifferenti
alle selezioni tra i papabili del regime,
consapevoli di quanto possa rivelarsi
creativa la matematica del regime.
Non avevano tutti i torti. Le illusioni rivoluzionarie
sono crollate come un castello
di carte, ma l’ayatollah Khamenei
va avanti come se niente fosse. Anzi ancora
meglio, dà il suo imprimatur alla
meno ortodossa delle sue campagne elettorali
per dimostrare che, poi, alla resa
dei conti, a trionfare è sempre e comunque
la rivoluzione. Per chi conserva un
briciolo di scetticismo per la matematica
del lìder maximo si impongono altre considerazioni.
Anzitutto che con il suo stile
"in maniche di camicia" una parte dell’establishment
ha capito che per dialogare
con gli iraniani occorre mettere in
soffitta gli aut aut religiosi e la retorica
antioccidentale e antiamericana. E’ certo
che questi rivoluzionari riveduti e corretti,
frettolosamente definiti "moderati"
e animati piuttosto dal robusto pragmatismo
che dettano le ragioni della sopravvivenza,
hanno perduto. Ma la loro sconfitta
non è da imputare alla maggiore appetibilità
dei falchi troppo schierati nella
loro intransigenza all’engagement economico
e politico per aspettare un responso
dagli elettori. D’altro canto è vero
che la disfatta marca l’ascesa di una seconda
generazione di rivoluzionari, una
generazione più vicina ai quaranta che ai
settanta di Rafsanjani, una generazione
che ha conosciuto la guerra e le prigioni
dello shah, ha scalato le vette dell’establishment
sposando figlie e nipoti di ayatollah
e, dopo tante battaglie, ha conosciuto
un posto al sole, ma raramente il
comando. E’ a questi uomini votati all’obbedienza
che Khamenei pensava quando
incoraggiava i laici, augurandosi una stagione
politica con "sangue giovane".
C’è ben poco di laico nella veemenza
retorica di Ahmadinejad e dei suoi bassiji,
la notizia semmai è che non si profila
all’orizzonte nessun rampante mullah
di regime. Se c’è un filo che lega una minoranza
di iraniani al sistema, non è uno
smodato fervore religioso, un’adesione
senza se e senza ma al "partito di Dio"
che giustifica il terrorismo e predica la
distruzione di Israele. L’elettore di Ahmadinejad
si affida al regime per il suo
sostentamento e teme l’economia aperta.
E’ un piccolo mercante, un reduce, il figlio
di un "martire", o un disoccupato, gli
è stato insegnato a odiare un fantasma
chiamato globalizzazione e resta sulla difensiva
aggrappato ai privilegi dispensati
dal welfare islamico. Come chi nell’"altro
Iran" ha votato Rafsanjani si preoccupa
di arrivare a fine mese, è un conservatore
nella misura in cui vuole proteggere
lo status quo, non un fondamentalista.
E’ un tradizionalista che non ha
fatto un giro nel paese dei balocchi della
mullahcrazia plutocratica che ha superato
in sfarzi la borghesia ancien régime. In
comune con il fronte degli astensionisti
ha la sfiducia verso il "riformismo dall’alto"
che a guidarlo sia il mite Khatami
o il decano Rafsanjani.
Questa fetta (minoritaria) di elettori
moltiplicata sotto la lente d’ingrandimento
delle telecamere e della matematica
di regime avrà comprensibilmente
anche voluto offrire una chance a un modesto
Carneade che promette di aprire le
casse per spartire con "gli oppressi" il
bottino petrolifero.
Dove iniziano i guai della Guida suprema
E’ a questo punto, dove si addensano le
roboanti promesse di Ahmadinejad, che
iniziano i problemi di Khamenei. Occupate
tutte le poltrone – a presiedere il
Parlamento c’è il genero, alla Giustizia il
fidato ayatollah Shahroudi, a capo del
Consiglio dei guardiani l’altrettanto fedele
ayatollah Jannati – la Guida suprema
tiene finalmente tra le mani tutte le leve
dell’ingranaggio, ma non è detto sia in
grado di manovrarle con la stessa destrezza
con cui se ne è impossessato. La
dittatura di Khamenei non disturba soltanto
gli ayatollah quietisti di Qom e i figli
della rivoluzione. Trema la Borsa, meditano
la fuga gli investitori e i borghesi
che sognano di trasferirsi a Dubai, la nuova
"Teherangeles" del medio oriente. Gli
altri insider "riformisti" e "pragmatici",
dopo i fuochi artificiali, torneranno nei
ranghi, ma le contraddizioni tra l’establishment
che per sopravvivere guarda a
Pechino e l’altro che sceglie il modello
Pyongyang sono destinate a riemergere.
La tirannia di Khomeini poggia su fragili
basi d’argilla.
C’è da augurarsi che quando il momento
arriverà, perché arriverà, gli iraniani
non saranno ancora una volta lasciati
soli da un’Europa che si attarda in
un testardo dialogo tra sordi.
Sempre in prima pagina l'articolo di Paola Peduzzi "Stupore, abitudine, rassegnazione. Così reagiscono il Grande Satana, Israele e la diplomazia europea"
Roma. Visi lunghi, facce tirate, occhi
inquieti. Affacciati alla finestra dell’Iran
ci sono tutti – Israele, Stati Uniti ed Europa
– ognuno con la propria preoccupazione
di fronte alla "sorpresa Ahmadinejad",
quel sindaco di Teheran che doveva
vivere un’unica settimana di gloria
prima del (per lui) fatale ballottaggio e
che invece ha conquistato la grande ribalta
presidenziale.
Le sue prime parole hanno fatto capire
che la sorpresa non sarà piacevole per chi
da anni aspetta una svolta democratica in
Iran. Ahmadinejad ha dichiarato l’autosufficienza
del suo paese, ha detto di non
aver bisogno dell’approvazione americana,
ha definito Israele "uno Stato terrorista",
ha manifestato i suoi timori sulla violazione
dei diritti umani da parte di superpotenze
unilaterali, ha fatto sapere che
la corsa al nucleare è un diritto nazionale
da difendere in ogni modo. Non ha tralasciato
nessuno, Ahmadinejad. Non il Grande
Satana di khomeiniana memoria, non
la vittima sacrificale israeliana che ancora
non è stata accettata nel suo diritto di
esistere, non la macchina diplomatica europea
che ha messo in campo tutto il suo
"soft power" un po’ maneggione per evitare
il riarmo nucleare di Teheran. Ne ha
avuta una per tutti, Ahmadinejad, e tutti
hanno reagito, ognuno a suo modo, a quello
che potrebbe essere un "zaminlarzeh",
un terremoto, nella geopolitica odierna.
La vittima designata – Israele – paradossalmente
è la più composta nel reagire:
"La vittoria della paura", così ha definito
il quotidiano Yedioth Ahronoth il successo
dell’ex sindaco di Teheran, un arretramento
pericoloso, soprattutto per quella
strategia annunciata da Ahmadinejad tanto
chiara quanto devastante: "Andremo
avanti con il nucleare". L’ambasciatore d’Israele
a Roma, Ehud Gol, commenta con il
Foglio il risultato delle urne: "Le elezioni
in Iran sono motivo di preoccupazione per
noi e per tutto il mondo libero. I risultati
costituiscono una vittoria degli elementi
più estremisti, e basta sentire le parole del
neoeletto presidente per capire in che direzione
va l’Iran. Anche durante il mandato
di Khatami non pensavamo certo che l’Iran
avrebbe realizzato le riforme, ma ora
più che mai è chiaro che il mondo libero
deve fare di tutto per fermare il programma
di armamento nucleare iraniano". Tutte
le voci che si sono alzate da Gerusalemme
sono un misto di preoccupazione e di
realismo: nessuno, in Israele, ha mai avuto
grandi aspettative nei confronti della
Repubblica islamica, ma ora tutti richiedono
che la comunità internazionale si assuma
le sue responsabilità.
Parola d’ordine, realismo
In Israele pochi sono sorpresi. Sono tutti
abituati ad avere a che fare con un noninterlocutore
e non hanno mai smesso di
chiedere a tutti (soprattutto all’Europa) di
non farsi abbindolare dalle belle parole di
Teheran. Regime era e regime sarà, pensano
a Gerusalemme, si è soltanto tolto la
maschera, causa di non poche illusioni.
Questo non significa che il futuro non appaia
preoccupante. Il ministro degli Esteri
israeliano, Silvan Shalom, ha sottolineato
che "non si tratta di elezioni democratiche"
e che "l’esito del voto è la riprova
che l’Iran non va verso riforme e riconciliazione,
ma verso il radicalismo". Per
questo, come ha detto anche il vicepremier
laburista Shimon Peres, non si deve
perdere tempo: già alla fine del mese scorso,
Israele aveva avvertito che entro nove
mesi l’Iran avrebbe avuto tutte le competenze
e i materiali per costruire la bomba
atomica. E’ quindi arrivato il momento di
rivolgersi al Consiglio di sicurezza per imporre
sanzioni a Teheran, che continua a
non ascoltare i moniti della comunità internazionale.
Nessuno in Israele ha accennato a una
reazione militare, ma anche dalle parti
del Grande Satana la parola d’ordine è
"realismo". Le elezioni "sono fasulle" – ha
detto il segretario alla Difesa, Donald
Rumsfeld – e Ahmadinejad "non è un
amico", ma ora è necessario aspettare di
vedere come si muoverà sulla scena internazionale.
Di certo, l’America ha vissuto
l’esito delle elezioni con maggior sorpresa
rispetto a Israele, forse aiutata dalla
maggior parte dei mass media che ha
edulcorato i toni di polemiche e giochi di
potere sottostanti alla sfida Ahmadinejad-
Rafsanjani. Ieri hanno cominciato ad alzarsi
voci indignate sia sui possibili brogli
sia sull’influenza della Guida suprema,
Ali Khamenei, sottolineata a gran voce
anche da Amir Taheri che, sull’Australian,
ha scritto: "Ogni idea di riforme in
stile occidentale sarà abbandonata".
Dopo la doccia fredda, gli Stati Uniti osservano.
Secondo alcuni analisti, non è
possibile una reazione militare perché
non ci sono né i mezzi né le persone; secondo
altri, l’implosione conservatrice in
Iran potrebbe favorire chi, alla Casa Bianca,
fa pressioni per un "regime change" a
Teheran. Secondo il Washington Post esiste
un provvedimento legislativo – che
George W. Bush potrebbe firmare prima di
recarsi al G8 all’inizio di luglio – che prevede
una serie di sanzioni finanziarie contro
chi continua a sviluppare armi di distruzione
di massa.
Charles Kupchan, politologo
ex consigliere durante l’Amministrazione
Clinton, dice al Foglio che è presto per
prevedere reazioni, l’unica cosa certa è che
"gli Stati Uniti sono diventati più scettici nei
confronti dell’Iran e delle sue intenzioni".
Con un governo meno collaborativo è necessario,
secondo Kupchan, "andare al Consiglio
di sicurezza" per prevedere un sistema
di sanzioni, ma in quella sede – avverte –
"potrebbe succedere di tutto".
Al Consiglio di sicurezza, infatti, siedono
anche Cina e Russia, che tutto hanno fatto
tranne che condannare quel che è successo
a Teheran: "E’ difficile trovare un compromesso
sulle sanzioni quando gli interessi sono
così divergenti", spiega Kupchan. Il punto
d’incontro si può trovare soltanto a metà
dell’Atlantico: "Molto dipende da quel che i
negoziati della troika europea riescono a ottenere.
Gli Stati Uniti cominceranno sostenendo
il dialogo, perché è l’unico varco finora
lasciato aperto dal nuovo presidente
iraniano, e poi prenderanno una decisione".
Chi vuole il "regime change" all’interno dell’Amministrazione
continuerà a farlo e alla
fine George W. Bush – "che in questo secondo
mandato è più concentrato sui problemi
domestici" – troverà "il compromesso".
La partita sembra quindi nelle mani dell’Europa:
durante la sua visita a Bruxelles,
nel febbraio scorso, Bush aveva detto di voler
seguire la via dell’Ue nei confronti dell’Iran
– e infatti poi il segretario di Stato
Condoleezza Rice ha cercato di oliare la
procedura per ammettere l’Iran alla Wto –
ma aveva anche sottolineato la necessità di
sostenere la via riformista all’interno della
società iraniana. Ora quella via non è più
rappresentata: i moderati sono scomparsi
dalla scena della Repubblica islamica. Resta
quindi, quasi come unica alternativa, il
dialogo europeo. Inghilterra, Germania e
Francia – che negoziano in nome dell’Unione
europea – hanno chiesto ieri a Teheran di
non cambiare le carte in tavola e di continuare
la sospensione dell’arricchimento
dell’uranio concordata a Parigi alla fine del
novembre scorso. Fin da allora, però, era apparso
chiaro che si trattava di una soluzione
temporanea e, da allora a oggi, si sono moltiplicate
le dichiarazioni iraniane sull’imminente
inizio del riarmo. A trarre tutti in
inganno c’è la questione del "nucleare civile",
l’espediente dietro al quale Ahmadinejad
si è già trincerato: "Gli iraniani sono
convinti del nostro diritto di sfruttare l’energia
atomica a scopi pacifici".
La Commissione europea ha chiesto che
le denunce di brogli nelle elezioni iraniane
"siano verificate", ma non si è scomposta
più di tanto: "L’Ue ha l’ambizione di continuare
ad approfondire le relazioni con l’Iran,
l’obiettivo resta quello", ha detto il portavoce
del commissario alle Relazioni esterne,
Benita Ferrero-Waldner. La strategia
dell’Ue non cambia, "continuerà a fare quel
che ha sempre fatto", dice al Foglio Paulo
Casaca, europarlamentare socialista portoghese
e membro della delegazione europea
per i negoziati con l’Iran, non senza una punta
di sarcasmo. "Teheran si è sentita a suo
agio con l’Europa, ha capito da tempo che
Bruxelles non è esigente", continua Casaca,
che è anche presidente di un movimento
che vuole portare la Repubblica islamica
sulla via delle riforme – "Free Iran"– e che
quindi vede con pessimismo la scelta ultraconservatrice
degli iraniani: "Con questo voto
si chiude ufficialmente l’esperienza riformista.
I moderati hanno perso del tutto il
consenso popolare e gli elettori hanno scelto
un personaggio per il quale non c’è altra
definizione se non quella di ‘criminale’". Ma
neppure il timore che lo scacchiere geopolitico
possa essere devastato da una leadership
chiusa all’occidente "farà reagire l’Europa":
non è nelle sue corde, non "sa fare la
voce grossa", "le va bene così", dice Casaca.
Anche Javier Solana, il "ministro degli
Esteri" dell’Ue, ha detto di rimanere in "uno
spirito d’attesa" per vedere "come le parole
del governo iraniano possano tradursi in fatti"
e ha sottolineato che "non accetterà alcuna
proposta che non rientri nei termini
dell’accordo di Parigi". L’Ue non ha intenzione
di cambiare la sua strategia basata
sulla "normalizzazione delle relazioni", come
ha sottolineato parlando con il Foglio
Christofer Fjellner, un altro europarlamentare
svedese che fa parte della delegazione
per i negoziati con l’Iran: "E’ la stessa strategia
che Bruxelles usa con Cuba e la Birmania",
spiega Fjellner.
Le faide interne alla troika
I lavori della troika europea andranno
avanti. L’elezione del sindaco di Teheran
Ahmadinejad non è una "wake up call", secondo
Fjellner, perché già Francia e Germania
hanno fatto sapere che – anche se il
nuovo presidente iraniano ha detto: "Gli europei
devono scendere dalla torre d’avorio e
rispettare gli impegni" – si continuerà sulla
strada aperta dei negoziati, anzi, secondo il
cancelliere tedesco Gerhard Schröder, ieri
in visita a Washington, "gli europei sanno
bene che devono mettere sul tavolo un’offerta
se vogliono fare passi avanti". Dello
stesso avviso anche il neoministro degli
Esteri francese, Philippe Douste-Blazy, e
quello tedesco, Joshcka Fischer, ieri insieme
a Varsavia per parlare del futuro dell’Europa.
A ben vedere, infatti, la prima
preoccupazione della troika è interna, visto
che i rapporti tra le due sponde della Manica
sono gelidi, ma pochi pensano che la nuova
leadership britannica in Europa possa
portare cambiamenti nelle trattative con l’Iran.
"Per ora ci sono solo belle parole", ammette
Fjellner, lasciando intendere che il
suo desiderio di vedere una presa di posizione
decisa – "magari finanziando chi vuole
cambiare il regime iraniano" – non sarà
esaudito. A Bruxelles neppure i "falchi"
pensano alla chiusura del dialogo, ma almeno
vorrebbero che l’Europa smettesse di recitare
il ruolo di "quella cui va bene tutto".
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