La guerra dell'acqua e quella della retorica
che usa il problema delle risorse idriche per condannare Israele
Testata:
Data: 28/06/2005
Pagina: 9
Autore: Gigi Marcucci
Titolo: Territori la silenziosa guerra dell'oro blu
L'UNITA' di martedì 28 giugno 2005 pubblica a pagina 9 un articolo di Gigi Marcucci intitolato sul conflitto tra israeliani e palestinesi per la gestione delle risorse idriche.
Le ragioni israeliane sono presentate in un brevissimo passaggio, mentre tutto l'articolo è dedicato a indicare i palestinesi come vittime di un azione di rapina.
Ricordiamo alcuni fatti utili a correggere questa visione parziale e unilaterale: nemmeno gli israeliani possono scavare pozzi in Cisgiordania, il prelievo dell'acqua avviene al di là della linea verde, a una quota inferiore. Sulla base di questo prelievo Israele fornisce acqua anche alle città palestinesi, anche quando non pagano le imposte.
Dopo il fallimento del vertice di Camp David, nel quale si era delineato un possibile accordo sulle risorse idriche, i palestinesi estraggono quantità d'acqua molto superiori a quelle ipotizzate, dando luogo tra l'altro a gravi problemi di salinizzazione delle faglie.
La quantità di acqua non dipende, evidentemente, solo dalla disponibilità, ma anche dai consumi individuali, da quelli delle aziende agricole e delle industrie: un economia più forte e tecnicamante più avanzata consuma necessariamente di più.
Le statistiche palestinesi, a differenza di quelle israeliane, non sono pubbliche, sono fornite a discrezione dell'Anp. Che ci vi sia stato un effettiva riduzione delle risorse idriche a disposizione dei palestinesi è dunque ancora da dimostrare.

Ecco l'articolo:

«Guarda questi limoni, li lasciamo cadere dagli alberi perché ormai raccoglierli non ci conviene più. Ci hanno detto che non possiamo andare a venderli a Jenin, Qalqiliya o a Nablus, e allora li lasciamo lì, per non rimetterci». Jamil Hassan Salem ha 65 anni e lavora la terra da 35. Quello che rimane del suo appezzamento si trova a Jayyous, nel distretto di Qalqiliya, in Cisgiordania, a poche centinaia di metri dal tracciato del muro di separazione. A dicembre, racconta Jamil, sono arrivati i soldati con due bulldozer e si sono portati via 200 ulivi. Sull’altura, dove c’erano gli alberi, ora ci sono cartelli rossi scritti in ebraico -«Pericolo, stiamo lavorando»- e i buchi delle mine utilizzati per far saltare una vena di roccia che deve lasciare il posto all’espansione di una colonia israeliana. Jamil continua a lavorare la terra, ma da solo, perché a tre dei suoi figli che vivono a Jayyous, oltre il tracciato del muro, è vietato raggiungere la proprietà. È una guerra silenziosa, che avviene lontano dai riflettori, concentrati sul ritiro dei coloni dalla Striscia di Gaza e da quattro piccoli insediamenti in Cisgiordania. L’iniziativa unilaterale del governo Sharon ha creato una parvenza di distensione, ma in Cisgiordania c’è una guerra a bassa intensità che trasforma in chilometri le poche centinaia di metri che un agricoltore deve percorrere quotidianamente per raggiungere la sua terra. E che taglia l’accesso ai pozzi d’acqua. Nella zona di Jayyous ce n’erano sei, ora, accusano i palestinesi, si trovano tutti oltre la striscia di terra con rete provvisoria, elettrificata e dotata di sensori.
Abdellatif Khaled, ingegnere dell’«Hidrology palestinian group», una Ong palestinese, non ha dubbi: «L’obiettivo del muro non è tutelare la sicurezza degli israeliani, ma togliere la terra ai palestinesi. A Jayyous, su 100 euro guadagnati, 90 provengono da terra e acqua che ora si trovano oltre il tracciato del muro. Ci sono 300 famiglie nella stessa condizione di Jamil Hassan, cioè dipendenti dalla terra che si trova dall’altra parte. Rischiamo una catastrofe ambientale, perché circa 15.000 alberi resteranno senza acqua». Se le intenzioni di Israele fossero solamente difensive, continua Khaled, il muro si troverebbe sulla Green Line, il confine tracciato dopo la guerra del 1948. Invece il serpentone di acciaio e cemento armato penetra in Cisgiordania, inghiotte le porzioni di territorio su cui si trovano gli insediamenti e i pozzi. «Vogliono semplicemente che smettiamo di coltivare la nostra terra», accusa Shareef Mohammad Omar Khalid, primo agricoltore di Jayyous e responsabile del «Land defence committee».
Il problema dell’acqua è tanto grave da non lasciare indifferente il Dipartimento aiuti umanitari della Comunità europea (Echo), l’ufficio che in Palestina ha stanziato, solo nella prima parte del 2005, 25 milioni di euro per interventi sull’acqua, in particolare per costruire cisterne che rendano le famiglie palestinesi meno dipendenti dalla rete idrica gestita da Mekorot, l'azienda di stato israeliana. Il responsabile di Echo, Bart Witteveen parla di una situazione di «grave ineguaglianza». Dato confermato dagli operatori del Gvc (Gruppo di volontariato civile) una Ong italiana che, con i finanziamenti di Echo, sta realizzando cisterne per le famiglie in diverse zone della Cisgiordania: da Hebron, a Sud, fino a a Qalqilia e Nablus, a Nord. «Qui non siamo in Africa o in Arabia Saudita, dove l'acqua non c’è», dice Fadel Ka'wash, responsabile della «Palestinian Water Authority» (Pwa), «qui l’acqua è un problema politico. Del resto la guerra del 1967 fu la guerra dell’acqua. Dal 1967 i palestinesi non possono scavare nuovi pozzi, se non dietro autorizzazione israeliana». E dopo aver ottenuto le autorizzazioni, bisogna chiederne delle altre, spiega Ka'wash. Dal ‘95 a oggi per contare i permessi ottenuti sono più che sufficienti tre dita di una mano: una volta arrivati i nullaosta, altri sei mesi sono già passati per ottenere l’autorizzazione a fare entrare dalla Giordania la manodopera specializzata in grado di scavare un pozzo, introvabile in Palestina. Dopo aver distrutto, nel ‘67, pozzi e pompe di prelevamento, Israele controlla l’85% delle fonti disponibili dal Giordano al Mediterraneo. Si calcola che, in media, un palestinese della Cisgiordania consumi 75 litri di acqua al giorno, contro i 100 previsti dall’Organizzazione mondiale della sanità come livello minimo. Il livello medio dei consumi individuali israeliani è invece di 350 litri al giorno. «Questo significa che in zone rurali, soprattutto nel distretto di Hebron, la gente non beve abbastanza acqua, non può lavarsi come faceva prima né può fare il bucato con la stessa frequenza. Sono compromessi i livelli standard di vita e di salute», spiegano Debora De Cosmi e Andrea Parisi, due operatori del Gvc.
«Noi pensiamo che i palestinesi abbiano diritto all’acqua. Noi riconosciamo questo loro diritto. Il problema è che noi israeliani non abbiamo acqua in più, quindi i palestinesi devono prenderla da qualcun altro», replica Yossi Drissen, capo della delegazione israeliana nel Comitato tecnico unificato per l’acqua, una branca del Joint Water Committee, organismo misto israelo-palestinese nato dopo gli accordi di Oslo e insediatosi nel 2001, quando da poco era scoppiata la seconda Intifada. Drissen è stato intervistato nell’ambito del documentario «Oro Blu», girato dalla regista palestine Najwa Najjar e finanziato con fondi di Echo (Humanitarian Aid Department of the European Commission), il braccio umanitario della Comunità europea.
Nella guerra dell’acqua, c’è stata anche una battaglia delle toilette. Teatro dello scontro è stato il deserto di Giudea, a sud di Hebron, poche decine di chilometri dalla tomba di Abramo, venerata da ebrei e musulmani. Abramo è il padre di molti popoli, ma la lite in famiglia scatenatasi sulla terra dove è sepolto non conosce soste né umana pietà. Come fa capire Shaieb, capo di una tribù beduina accampata a pochi metri dalla rete di un insediamento di coloni israeliani. «Mi hanno offerto molto denaro perché lasciassi questa terra, ma non lo farei neanche se mi portassero un baule pieno di dollari», spiega. A pochi chilometri dal suo accampamento, nel villaggio di Atwani, i coloni hanno aggredito due mesi fa i bambini che andavano a scuola. Due operatori dell’Ong Operazione Colomba, che si occupa di interposizione, hanno pacificamente cercato di proteggerli. A uno di loro hanno spezzato un braccio, un altro, raggiunto da un calcio in faccia, ha rischiato di perdere un occhio. Nella stessa zona sono stati avvelenati alcuni pozzi palestinesi. È questo il contesto in cui è avvenuta la battaglia delle toilette. Nella zona di Massafar-Yatta, una Ong Usa aveva cominciato a costruire docce e latrine per i beduini. «Lo abbiamo fatto in particolare per le donne, le più penalizzate dalla mancanza di privacy e di acqua», spiega Rose Willi, un’americana che vive in Palestina da 23 anni. «Nel giugno del 2004», racconta Rose, che ha sposato un beduino e vive con la sua tribù, nel deserto del Negev, «sono arrivati i bulldozer e i soldati, i manufatti sono stati cancellati. Col nobile scopo di difendere lo Stato di Israele, sono state abbattute delle latrine. Un esercito potentissimo ha dichiarato guerra ai beduini che, per pochi mesi, hanno avuto la fortuna di potersi fare la doccia».
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