I pregiudizi di Sandro Viola
resistono anche alle nuove speranze di pace
Testata: La Repubblica
Data: 24/01/2005
Pagina: 1
Autore: Sandro Viola
Titolo: Israele, piccoli passi verso la pace
In prima pagina LA REPUBBLICA di lunedì 24 gennaio 2004 pubblica un articolo di Sandro Viola, "Israele, piccoli passi verso la pace".L' analisi di Viola si occupa della difficile trattativa che il nuovo
presidente palestinese Abu Mazen ha avviata con le varie fazioni palestinesi
(tra le quali le "sue" Brigate dei Martiri di Al Aqsa) per ottenere la
cessazione della violenza terroristica nei confronti di Israele.
Nulla vi sarebbe pertanto da eccepire su quanto scrive Viola, che del resto
è esattamente quanto possiamo leggere su qualsiasi altro quotidiano nazionale ed
estero; ciò malgrado, ancora una volta Viola inciampa sui suoi pregiudizi, o
meglio giudizi unilaterali, che inquinano la sua visione della realtà.
Il primo dei suoi giudizi profondamente divergenti dalla verità dei fatti
emerge quando, in un capoverso, egli tenta di tracciare anche una sua
analisi sul fallimento della road map: allora, egli scrive, Sharon "non
fornì il minimo sostegno ad Abu Mazen appena nominato primo ministro.Il
piano di pace poteva andare avanti, disse, soltanto se la dirigenza
palestinese avesse neutralizzato Hamas e gli altri gruppi terroristi.Così, i
primi e inevitabili attentati gli fornirono il pretesto per affossare il
negoziato".
I lettori ricordano certamente il clima nel quale fu avviata l' iniziativa
multilaterale nota come "road map": il sangue dei civili israeliani scorreva
a fiumi a giorni alterni,, e da parte palestinese non un dito veniva mosso
per impedirlo; anzi, l' Autorità Palestinese retta da Arafat faceva entrare
armi ed esplosivi dall' Egitto, pagava i terroristi e le loro famiglie,
fomentava l' odio antiisraeliano ed antiebraico con i libri scolastici, i
tornei di calcio e le trasmissioni televisive per bambini.
In questo clima, la road map pretese per prima cosa che il terrorismo
cessasse, e solamente in seconda battuta ipotizzò i successivi passi da
compiere in comune e contestualmente dalle parti in conflitto. Ma il
terrorismo non cessò, ed anzi Abu Mazen fu talmente paralizzato da Arafat in
ogni sua iniziativa da doversi dopo poco dimettere.
Viola dovrebbe spiegare perché giudica "inevitabili" gli attentati (non i
primi, come scrive mentendo spudoratamente, ma la loro continuazione dal
2000 in avanti).E, fossero essi evitabili od inevitabili, dovrebbe spiegare
ai suoi lettori ed a noi perché la pretesa di Sharon che essi cessassero,
come la road map prevedeva esplicitamente, sia da considerare un "pretesto
per affossare il negoziato".
Non meno manipolatrice della verità è la conclusione dell' articolo, in cui
Viola afferma che sarà " la stanchezza dei due popoli, dopo tanti lutti e
devastazioni" a riportarli alla ragione. Il popolo d' Israele non ha mai
cessato di essere razionale e malgrado tutto di nutrire una speranza che
alla fine la pace fosse raggiungibile, ma è stato quotidianamente smentito
dalla follia omicida di parte palestinese.Negli ultimi vent'anni e più, non
un solo atto di violenza ha tratto origine da Israele, che ha sempre e e
soltanto reagito alla violenza altrui.Non è dunque il popolo d' Israele che
deve essere riportato alla ragione, anzi è riportando alla ragione il popolo
palestinese che si potrà dare speranza a quello d' Israele.

Nessuno se l´aspettava, in Israele, a cominciare dal governo e dai comandi militari. Perciò sembrano tutti sorpresi dell´energia e rapidità con cui Abu Mazen sta agendo. Che il successore di Arafat intendesse fare il possibile per rompere la spirale della violenza e creare le condizioni per una ripresa delle trattative, questo sì, era nelle attese. Ma si conoscevano anche le enormi difficoltà cui andava incontro. Quanto tempo sarebbe occorso, infatti, per riorganizzare i servizi di sicurezza palestinesi, che nei quattro anni della seconda intifada s´erano frantumati in una decina d´incontrollabili bande armate?
E quante probabilità esistevano di convincere le fazioni più estremiste - Hamas, la Jihad islamica, le Brigate dei martiri di Al Aqsa - se non al disarmo, almeno ad una tregua?
Bene: è meglio dirlo tenendo le dita incrociate, ma certo è che Abu Mazen sta già dando una risposta a queste domande. Ha schierato i reparti della polizia palestinese lungo la fascia settentrionale di Gaza, lì da dove partivano razzi e colpi di mortaio sugli insediamenti ebraici e sulle cittadine del Negev, e infatti sono ormai sei giorni che gli artiglieri di Hamas non stanno più sparando. E ancora più significativi di queste operazioni sul terreno, appaiono i risultati che il nuovo presidente dell´Autorità palestinese sta ottenendo dai colloqui politici con gli irriducibili della lotta armata.
Le Brigate Al Aqsa hanno già accettato la proposta della tregua. L´hanno accettata anche, a sentire il capo di Stato maggiore israeliano Shaul Mofaz, Hamas e Jihad islamica. Come sempre in questi casi Hamas e la Jihad smentiscono a metà, precisano che prima dev´essere Israele a interrompere le attività dell´esercito a Gaza, e poi loro decideranno. Ma il fatto che a parlare d´una tregua d´almeno un mese siano i militari israeliani (i cui servizi d´informazione sono in genere molto efficienti), induce a credere che le pressioni di Abu Mazen sui gruppi oltranzisti stiano in effetti modificando le posizioni sul terreno.
Beninteso, il quadro appare ancora confuso, fragile, precario. Il fanatismo dei fondamentalisti, il caos delle istituzioni e dei comandi palestinesi a Gaza, le smagliature nella disciplina dell´esercito israeliano - che oggi spara anche quando non vi sono per i soldati pericoli imminenti-, possono riportare tra qualche ora o qualche giorno la situazione al punto di partenza. Ma resta che le carte del conflitto israelo-palestinese si stanno rimescolando. Resta, come ha dichiarato ieri Shimon Peres, che la decisione, la fermezza con cui Abu Mazen si sta muovendo, «sono stupefacenti».
Il contributo israeliano a questo che potrebbe essere l´inizio d´una svolta, è stato importante. Anche Ariel Sharon, infatti, sta sorprendendo la platea. Due anni e mezzo fa, quando venne varata la «road map», Sharon non fornì il minimo sostegno ad Abu Mazen appena nominato primo ministro. Il piano di pace poteva andare avanti, disse, soltanto se la dirigenza palestinese avesse neutralizzato Hamas e gli altri gruppi terroristi. Così, i primi e inevitabili attentati gli fornirono il pretesto per affossare il negoziato. Ma stavolta è diverso.
Una settimana fa, all´indomani dell´elezione di Abu Mazen a presidente dell´Autorità palestinese, un attentato compiuto da Hamas e dalle Brigate Al Aqsa ad uno dei valichi di Gaza, aveva ucciso sei civili israeliani. Ci fosse stata, come sempre, una vasta e violenta rappresaglia dell´esercito, sarebbe risultato impossibile convincere gli oltranzisti ad una tregua. Invece Sharon ha temporeggiato. Forse per le pressioni americane, forse perché anche lui vede ormai in Abu Mazen la sola possibilità di trovare una via d´uscita da quattro anni di carneficine, certo è che la rappresaglia non c´è stata. Il che ha fornito un segnale inequivocabile della sua volontà d´una qualche collaborazione con la nuova leadership palestinese. Quanto meno per procedere in modo ordinato, o non troppo disastroso, al ritiro israeliano da Gaza in programma per quest´estate.
Perché questo è il nodo che Sharon deve sciogliere. I rischi del ritiro da Gaza sono infatti due. Il primo è che esso avvenga sotto il fuoco delle formazioni armate palestinesi, ciò che lo farebbe somigliare più a una ritirata che a un disimpegno unilaterale deciso per ragioni politiche. Il secondo rischio è che contemporaneamente allo scontro con i palestinesi durante le fasi del ritiro, possa accendersi all´interno d´Israele lo scontro con i coloni. Uno scenario catastrofico, ma che non si può certo escludere, di cui Sharon valuta perfettamente i pericoli. Ed è anche per questo che per la prima volta dopo quasi mezzo secolo di protagonismo nella vita militare e politica d´Israele, sembra pronto ad un´intesa con la dirigenza palestinese.
Anche per questo: perché poi ci sono, e contano, le pressioni americane. Nella sua audizione al Senato, Condoleezza Rice è stata infatti molto chiara.
La soluzione del conflitto israelo-palestinese è da adesso una priorità irrimandabile del secondo governo Bush.
Un realismo, un pragmatismo nient´affatto consueti nella regione, sembrano dunque contraddistinguere i due attori principali di questa parte del lungo dramma israelo-palestinese. Abu Mazen, l´uomo schivo, di poco carisma, mediocre oratore, che sembrava dovesse presto impantanarsi nella palude delle fazioni politiche e dei gruppi armati palestinesi, si sta per ora muovendo con una risolutezza sorprendente. E Ariel Sharon, l´avversario implacabile d´ogni progetto di Stato palestinese, dà sempre più l´impressione d´aver invertito la rotta: d´essere ormai disponibile al dialogo.
Vale la pena di ripeterlo, non siamo che agli incerti inizi d´una vera svolta. Ma forse la terribile stanchezza dei due popoli, dopo tanti lutti e devastazioni, li sta riportando alla ragione.
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