Israele, difendendosi dal terrorismo suicida, produce terroristi suicidi
i loro reclutatori invece, "militano nella resistenza"
Testata: Il Manifesto
Data: 21/01/2005
Pagina: 20
Autore: Michelangelo Cocco
Titolo: Amer, l'ultimo kamikaze
Un lungo articolo di Michelangelo Cocco a pagina 20 del MANIFESTO di venerdì 21 gennaio 2005 sull'attentatore suicida palestinese che il primo novembre 2004 fece strage al mercato di Carmel a Tel Aviv, erroneamnte definito "l'ultimo kamikaze", (dimenticando gli attentati a Karni e Gush Katif, o forse considerandoli a parte, e giustificandoli, perchè avvenuti nei territori) .
La tesi dell'articolo è che il terrorismo suicida è il prodetto della violenza israeliana.
L'esercito israeliano tenta di catturare o uccidere i "militanti" della "resistenza", conseguentemante i giovani palestinesi divantano shaihid.
Peccato che sia proprio la "resistenza" palestinese a reclutare i terroristi suicidi, a indottrinarli, armarli, farne dei simboli e degli esempi dopo la morte.
E' a costoro, evidentemante, che va addebitata la responsabilità del terrorismo suicida, non alla decisione di Israele di difendersi.

Degno di nota il fatto che il quotidiano comunista non dia la notizia della prossima apertura del valico di Rafah: mercoledì 19 gennaio aveva dedicato un articolo ai disagi causati ai palestinesi dalla sua chiusura.

Ecco il pezzo di Cocco, "Amer, l'ultimo kamikaze":

Lo ricordano come il più educato tra loro ma anche come quello che, a ogni invasione dell'esercito, era sempre in prima linea a lanciare pietre sui blindati israeliani. Amer dalle buone maniere, Amer il piccolo combattente o, più semplicemente, shahid Amer, il martire Amer, come lo hanno ribattezzato i ragazzi di Askar, il campo di rifugiati palestinesi alla periferia orientale di Nablus. «È lì la casa di shahid Amer, in quella strada. Sì, la prima a destra», grida un gruppo di bambini indicando la porta d'ingresso. In realtà, l'abitazione dove ha vissuto Amer dal 2 novembre scorso è un cumulo di macerie: da quando i militari hanno demolito la palazzina di famiglia, i suoi parenti sono alloggiati provvisoriamente in due stanze. E ciò che resta del suo corpo non è ancora tornato ad Askar, 300 ettari e 14.000 abitanti che per 16 anni hanno rappresentato l'intero universo di Amer al Far, il più giovane e l'ultimo kamikaze a essersi fatto saltare in aria in Israele. Il primo novembre 2004, Amer ha attivato il suo corpetto esplosivo seminando panico e morte tra i banchi di frutta e verdura del Carmel market, a Tel Aviv. La carica che portava addosso non era molto potente - cinque chili di dinamite - ma gli esperti delle Brigate Abu Ali Mustafa (braccio armato del Fronte popolare per la liberazione della Palestina) l'avevano riempita di chiodi e biglie di ferro. Per tre cittadini israeliani, Shmuel Levy, 65 anni di Jaffa; Tatiana Ackerman, 32 di Tel Aviv e Leah Levine, 67 di Givatayim, non c'è stato nulla da fare.

Nelle ultime settimane, le principali organizzazioni della guerriglia palestinese hanno fatto marcia indietro sull'utilizzo di uomini bomba: gli islamici di Hamas e Jihad sono concentrati sul lancio di razzi Qassam da Gaza, nel tentativo di far apparire come una fuga il ritiro unilaterale dalla Striscia voluto dal premier israeliano Ariel Sharon, mentre il presidente dell'Anp, Abu Mazen, sembra essere riuscito ad addomesticare le Brigate dei martiri di Al Aqsa. Il giorno dell'attentato al mercato ortofrutticolo di Tel Aviv, Yasser Arafat era già in ospedale, a Parigi. Per bocca del suo portavoce, il raìs moribondo condannò senza mezzi termini il gesto di Amer. Ma quel 1 novembre, molti interpretarono il «sacrificio» del sedicenne di Askar come un messaggio mandato proprio al suo successore Abu Mazen: non si tratta col nemico senza l'avallo delle milizie.

Il racconto di Samira

Un grande tappeto sul pavimento, quattro divani, sgabelli di plastica usati come tavolini da tè, una stufa, il frigorifero e il televisore. Pochi metri quadrati di povertà palestinese: in famiglia nessuno lavora. Tutt'attorno, alle pareti, poster, foto e ritratti di Amer. Amer era il più piccolo dei sei figli di Samira, 48 anni, la mamma che subito dopo l'attentato di Tel Aviv si scagliò contro chi aveva mandato a morire il suo ragazzo definendo «immorale» la scelta di utilizzare un attentatore suicida così giovane. Samira vive con il marito Abdelrahim, i figli Mahmoud, Omar e Ahmed, di 23, 24 e 25 anni. Mohammed, 19 anni, è in una prigione nel deserto del Negev: gli israeliani ritengono che sia coinvolto nella preparazione dell'attentato del fratello. La famiglia di Samira è originaria di Alled, uno dei tanti villaggi palestinesi colpiti dall'avanzata dell'Haganà durante la guerra del 1948. Per lei un'infanzia da profuga, nel campo giordano di El Hussein. La donna ricorda la tendopoli con nostalgia: «Non c'era energia elettrica, l'acqua andavano a prenderla le donne da un'unica cisterna e la trasportavano a casa portando pesanti contenitori sulla testa. Vivevamo in dieci in una stanza e d'inverno si camminava nel fango ma almeno non c'era l'occupazione».

Si commuove solo per un attimo, mentre racconta il giorno prima dell'attentato. «Era Ramadan e stavo preparando l'iftar», il pasto che ogni sera interrompe il digiuno del mese sacro ai musulmani. «Amer insistette per aiutarmi a cucinare - racconta singhiozzando - poi se ne andò in moschea per le preghiere. Quando rientrò, cominciò a baciarmi le mani e le guance. Sentivo che c'era qualcosa di strano in lui ma non capivo cosa avesse. "Perché ti comporti come un bambino?", gli chiesi, senza ottenere risposta». Il giorno precedente, invece, Amer era stato esplicito: «Voglio diventare un martire» aveva detto ad uno zio al quale però quella confessione era sembrata uno scherzo.

L'intifada a Nablus

Amer aveva finito la scuola preparatoria e lavorava saltuariamente in un ristorante. Gli piaceva giocare nelle strade sterrate e piene di rifiuti di Askar assieme a Fayez, un ragazzo di 18 anni che, come molti del campo, sembra molto più piccolo della sua età anagrafica. La denutrizione è un problema serio in questo agglomerato povero e sovraffollato, dove l'alimentazione di duemila famiglie è affidata alle razioni d'emergenza dell'Unrwa, l'agenzia dell'Onu per i rifugiati palestinesi. Fayez, che un anno fa si è preso un proiettile in una spalla nel corso di scontri tra miliziani e soldati israeliani, ora ricorda Amer come un eroe e dice senza emozione: «Sono orgoglioso di lui. Tutti dovremmo fare come lui, altrimenti come ci liberiamo da Israele?». In Palestina il suicidio è considerato haram, un gesto contrario ai comandamenti di Dio ma l'uomo-bomba ad Askar è un martire, uno shahid. Grazie ai suoi uliveti e saponifici, quello di Nablus un tempo era il distretto più ricco della Cisgiordania. Dopo quattro anni e mezzo d'intifada è diventato uno dei più poveri. La città è un bastione della resistenza fin dagli anni (1919-1947) del mandato britannico sulla Palestina: edificata sulle rovine di un centro romano, dà rifugio a decine di ricercati provenienti da tutti i Territori occupati che si nascondono nel sottosuolo ricco di cunicoli o nelle case del suq, il mercato. I suoi 130.000 abitanti sono quelli della Cisgiordania che hanno sofferto di più per le incursioni militari. I mistaravim - forze speciali travestite da arabi - si avventurano spesso fin dentro la casbah a caccia di combattenti. Sono entrati in azione anche il pomeriggio del 1 novembre, poche ore dopo l'attentato di Amer: due donne velate in un caffè, portando vassoi pieni di dolci, si avvicinano a degli uomini seduti a un tavolo, estraggono le pistole e freddano due combattenti delle Brigate al Aqsa prima di darsi alla fuga, aiutate da militari in divisa intervenuti in appoggio. Quando l'esercito chiude il checkpoint di Awara, all'ingresso della città, la popolazione rimane isolata dal resto del mondo. I due campi profughi di Nablus, Askar e Balata rappresentano delle roccaforti nella roccaforte. Nell'intera area di Nablus sono 457 i morti nel corso di scontri con l'esercito dal 29 settembre 2000, tra loro 30 bambini (da 0 a 14 anni) e 38 ragazzini tra i 15 e i 17.

Abdelrahim non sa dire esattamente cosa possa aver spinto suo figlio a compiere l'«operazione», come chiama, in gergo militare, l'attentato, né chi lo abbia spedito a Tel Aviv col compito di uccidere quanti più israeliani possibile. Secondo Christoph Reuter, autore di «La mia vita è un'arma. Storia e psicologia del terrorismo suicida», nelle famiglie nessuno conosce il proposito dell'attentatore. Dentro Hamas - il movimento islamico che più degli altri ha fatto uso di bombe umane - i gruppi che preparano gli attacchi sono divisi in cellule minime, le unqud (grappoli d'uva), in cui il capo conosce solo i componenti del proprio gruppetto. Tuttavia, il padre di Amer abbozza una spiegazione. «Ci sono degli episodi che lo hanno segnato - dice Abdelrhaim tenendo tra le mani una foto in cui Amer -. Potrebbero aver contribuito al suo gesto».

I dubbi di Omar

Il 17 gennaio 2002, durante un'incursione nel campo i soldati israeliani uccisero Khamis, zio di Amer e popolare combattente delle Brigate dei martiri di al Aqsa. Tre anni dopo, sui muri di Askar ci sono ancora tanti manifesti che celebrano il «martirio» di Khamis. La gente lo ricorda come il Rambo locale, uno che girava per strada col mitra sempre in mano e due cartucciere incrociate sul petto. Poi Amer perse un amico, Ahmad, 15 anni, ammazzato anche lui nel corso di un attacco dell'esercito. Infine si trovò a soccorrere il padre, ferito da tre pallottole che lo hanno reso zoppo.Omar, il secondogenito, non è d'accordo con il gesto di Amer. Sprofondato nel divano, segue il racconto dei genitori con evidente disappunto: «Non è stata un'operazione giusta, avrebbe dovuto colpire soldati o coloni. Io voglio vivere in pace». Fino a qualche mese fa, Omar faceva il muratore proprio nella città dove si sarebbe immolato il fratello minore. «Io e Mahmoud entravamo illegalmente a Tel Aviv - racconta - e lavoravamo dalle 7 del mattino alle 6 di sera per 25 euro. Ora non è più possibile». Amer al Far è stato il centodiciassettesimo attentatore suicida palestinese dall'inizio della seconda Intifada, il 29 settembre 2000: gli israeliani ammazzati in questi attacchi sono 494. Assieme alle operazioni militari dell'esercito nei Territori occupati, nelle quali rimangono spesso vittime civili innocenti, questi attacchi hanno contribuito ad allungare la spirale d'odio tra i due popoli.

Dal dolore al martirio

Subito dopo l'attentato, Abdelrahim aveva dichiarato ai cronisti del quotidiano Ha'aretz: «Dio maledica chi ha reclutato Amer. Avevo sentito storie di ragazzini reclutati a Nablus, ma non ci credevo... È vero, qui è difficile per tutti, a causa dell'occupazione la vita è intollerabile ma i bambini non dovrebbero essere sfruttati in questo modo». Samira aveva parlato di atto «immorale». Oggi, invece, entrambi i genitori si dichiarano «orgogliosi» del gesto del loro figlio. «Meglio morto con onore che ucciso dai soldati nel campo», dice Samira, mentre per Abderhaim Amer sarà «un esempio per altri martiri».

Che cosa ha fatto cambiare così radicalmente la loro prospettiva? In assenza del cadavere di Amer, i parenti non hanno potuto elaborare il lutto attraverso il funerale e la sepoltura. Ma a colmare in parte questo vuoto è intervenuta la mitizzazione del gesto del ragazzo, un processo a cui ha partecipato gran parte della comunità. Nel campo sono stati affissi i manifesti che esaltano l'attentato e chi ha voluto ha potuto vedere una videocassetta con il filmato della rivendicazione. Poi è arrivata la protezione e l'assistenza offerta a Samira e Abdelrahim da chi ha utilizzato Amer come bomba umana. Secondo Reuter, le organizzazioni armate versano alle famiglie, a operazione compiuta, una cifra tra 3 e 5.000 dollari. Samira e Abdelrahim ammettono che il Fronte popolare ha dato loro un anticipo di 400 dollari e che il partito ora si prende cura di loro.

Anche Amer aveva chiesto in passato qualche spicciolo in prestito. Ma la notte prima dell'attentato ha restituito tutti i piccoli debiti che aveva contratto con i suoi amici. All'alba del 1 novembre, suo padre è rientrato dalla moschea dove, come ogni giorno, si era recato per le preghiere del mattino. Ha trovato Amer sveglio. Il ragazzo ha indossato i vestiti migliori e s'è impomatato i capelli col gel. Ha chiesto ad Abdelrahim due shequel. Lo ha baciato sulla fronte, gli ha accarezzato una spalla ed è uscito di casa per «andare a lavorare». Poco prima di mezzogiorno era già a Tel Aviv. Ben agghindato, pettinato, tra la folla del mercato Carmel non ha destato alcun sospetto. L'aveva detto allo zio: «Diventerò un martire». Ha tirato la cordicella che attiva la cintura esplosiva e si è fatto saltare in aria. Ad Askar tutti aspettano che i suoi resti vengano riportati nel campo, per tributargli gli onori che spettano a uno shahid.
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