In prima pagina IL RIFORMISTA di martedì 14-12-04 pubblica l'articolo: "Oil for food alla procura di Milano Quattro italiani nel dossier dell'Onu", che riportiamo, sui nomi italiani dello scandalo oil for food.
Un investigatore delle Nazioni Unite è volato nei giorni scorsi in Italia. Aveva con sé una valigia abbastanza pesante, zeppa di carte in arabo e in inglese. Ha consegnato il voluminoso dossier alla magistratura italiana. Dentro ci sono i documenti compromettenti sui personaggi italiani coinvolti nello scandalo Oil for Food ai tempi del regime di Saddam Hussein.
La parte più consistente del rapporto è finita alla procura della Repubblica di Milano, che ora si appresta a far tradurre e a esaminare i verbali, i conti bancari, gli interrogatori, le mail. Com'è obbligo di legge, i protagonisti di questa avvilente storia di mazzette petrolifere - veri o presunti tali - saranno presto iscritti nel registro degli indagati.
L'inchiesta dell'Onu, nella quale è stato messo sotto accusa anche il figlio di Kofi Annan, è ancora in corso ed è condotta da Paul Volcker. L'ex governatore della Federal Reserve ha raccolto prove su quasi 5 mila società di una cinquantina di paesi: russe principalmente, ma anche francesi, americane, tedesche, giordane, siriane e turche. Tutte sono implicate nell'assegnazione di greggio iracheno a prezzi da saldi per ingraziarsi alcuni uomini politici, trader e pacifisti, che dovevano battersi a favore di Saddam contro l'embargo imposto dalle Nazioni Unite.
Parte del materiale proviene dagli archivi del ministero del petrolio iracheno e da quelli della Somo, la compagnia petrolifera di stato. Altri documenti sono stati raccolti dall'Iraq Survey Group, l'organismo messo in piedi dall'amministrazione americana per andare alla ricerca delle fantomatiche armi di distruzione di massa. Il rapporto finale dell'Iraq Survey Group, firmato lo scorso 30 settembre da Charles Duelfer, contiene 13 elenchi segreti di beneficiari delle assegnazioni di petrolio. Uno di questi riguarda i presunti amici italiani del dittatore iracheno e le società di trading utilizzate per vendere sul mercato il prezioso greggio.
Il capitolo italiano del dossier dell'Onu, secondo le fonti del Palazzo di Vetro, è esplosivo e potrebbe portare all'incriminazione di alcuni dei protagonisti coinvolti. «Alcune carriere politiche saranno rovinate», si azzarda a pronosticare un investigatore delle Nazioni Unite al Riformista. Il nome più illustre che compare nel dossier consegnato ai procuratori milanesi è quello di Roberto Formigoni, il governatore della Lombardia. «Trash», spazzatura, è sempre stata la replica dei suoi collaboratori, fin da quando l'uomo politico di Forza Italia è stato tirato in ballo nello scorso gennaio dal quotidiano di Baghdad Al Mada. Nell'elenco compilato dall'ispettore Duelfer, che per primo è stato reso noto da un'inchiesta congiunta del Sole 24 ore-Financial Times, si legge che Formigoni avrebbe avuto intestate quote per 17 milioni di barili, successivamente girate sempre alla stessa compagnia, la Cogep srl di Milano, un acronimo che sta per Costieri Genovesi Petroliferi, di proprietà di Natalino Catanese. L'ammontare dell'affare non è noto, ma dovrebbe aggirarsi su diversi milioni di dollari.
Un altro degli italiani chiamati in causa, padre Jean-Marie Benjamin, il sacerdote di Assisi che più di tutti si è battuto, anche in televisione, per la fine dell'embargo Onu, risultato assegnatario di una quota di 4,5 milioni di barili, ha sempre negato qualsiasi addebito pur non nascondendo la sua lunga amicizia con Tareq Aziz, il deus ex machina di tutta l'operazione truffaldina legata al programma Oil for Food.
Non così si sono comportati gli altri personaggi citati nel dossier delle Nazioni Unite. Primo fra tutti, Gian Guido Folloni, un ex senatore democristiano, già ministro per i rapporti con il Parlamento durante il governo di Massimo D'Alema e fondatore dell'associazione d'amicizia Italia-Iraq. Pur dichiarandosi personalmente con le mani pulite dal petrolio di Saddam, Folloni ha sempre riconosciuto di aver segnalato alle autorità irachene alcune società energetiche vicine all'associazione. Sei milioni e mezzo di barili, secondo il rapporto Duelfer, sarebbe stata la quota-omaggio di Folloni, successivamente girata alla società Ips di Salvatore Nicotra, un piccolo imprenditore siciliano che ha sempre manifestato una vera venerazione per Saddam Hussein. Ancora più netta la conferma del pacifista abruzzese Tusio De Iuliis, fondatore del movimento «Aiutiamoli a vivere», che ha ricevuto la parte più piccola e anche quella più recente: 1,5 milioni nella tredicesima e ultima fase del programma di beneficenza. «Mi riempie d'onore e d'orgoglio il fatto di avere avuto delle assegnazioni», ha dichiarato recentemente De Iuliis al settimanale Diario. «Le ho avute, certo: non dal governo iracheno, ma dall'associazione Friendship, Peace and Solidarity for Iraq». Ora la parola passa alla magistratura italiana.
In prima pagina sull'inserto "Diplomatique" "Padre Oil-Benjamin non si tira indietro", sul coinvolgimento nell scandalo oil-for food di padre Jean Marie Benjamin:Tarek Aziz non è tra gli ex gerarchi del regime baathista detenuti che starebbero attuando lo sciopero della fame, per protestare contro il regime carcerario troppo duro cui sarebbero costretti dalle autorità americane, ma in realtà per cercare di ottenere di non essere consegnati senza condizioni alle autorità irachene e al processo che li attende. Per molti di loro infatti la condanna potrebbe essere la morte, se la comunità internazionale non porrà in essere tutte le pressioni del caso. Comunque Aziz ha un altro canale da sempre aperto e sul quale confida, anche se per mesi è rimasto sottotraccia. Un canale che deriva dal fatto di essere cristiano caldeo, il più alto in rango di tale confessione sotto il vecchio regime e con ottimi rapporti personali con Emmanuell Delly, il patriarca di Baghdad leader spirituale dei 450 mila appartenenti alla comunità cristiana irachena. In favore di Aziz si prodiga da sempre padre Jean-Marie Banjamin, storico ponte tra il pacifismo italiano e l’Iraq, nemico intransigente delle sanzioni verso quel paese e organizzatore dietro le quinte anche dell’ultimo incontro romano tra il Papa e l’allora vicepresidente iracheno, poco prima che la situazione precipitasse verso l’intervento militare americano.
Aziz ha chiesto dalla sua detenzione ai familiari di attivare padre Benjamin, in vista di un’azione di patronage presso la Curia romana e per cercare di ottenere il sostegno di un collegio internazionale di avvocati cristiani, in preparazione del processo. Padre Benjamin attraverso la fondazione Beato Angelico di Assisi, abituale strumento delle sue iniziative proirachene, si è subito messo in moto, forte del sostegno anche di alcuni vescovi italiani meno favorevoli alla posizione di cauta apertura alla missione militare italiana sostenuta dalla Cei guidata da sua eminenza Camillo Ruini. Ha così proceduto alla formazione di un collegio di alcuni difensori italiani che si arricchirà anche di un paio di presenze estere, e ha illustrato personalmente il progetto e i suoi futuri sviluppi alla figlia di Tarek Aziz, Ziad, che vive attualmente ad Amman e che ha incontrato tre volte nel corso degli ultimi due mesi.
Quanto l’azione di padre Benjamin goda o meno del favore e del sostegno della Curia romana, da ieri è problema sul quale nelle sale vaticane non si raccolgono che imbarazzati silenzi. In effetti, padre Benjamin ha avuto dal cardinale segretario di Stato Angelo Sodano una calorosa lettera di sostegno tale sua azione umanitaria, ma il testo si riferisce diplomaticamente in senso lato a ogni sforzo volto al miglioramento delle condizioni del paese e dei suoi abitanti, senza citare affatto Tarek Aziz o altra figura del precedente regime. Una cosa però è sicura. Che padre Benjamin risulti ufficialmente compreso negli elenchi dei destinatari di quote di denaro derivanti dall’illecito trading di petrolio iracheno sottratto all’amministrazione controllata del programma dell’Onu oil for food non imbarazza affatto le gerarchie ecclesiastiche. In particolare, risulterebbe intestatario, secondo le carte raccolte a Baghdad dalla commissione Volcker che stanno per essere smistate alle diverse magistrature dei rispettivi Stati nazionali, dell’equivalente della vendita di ben sei milioni e mezzo di barili di petrolio iracheno.
Al contrario, a premere molto al Vaticano è la condizione dei cristiani caldei. Gli attacchi recenti alle chiese nell’area di Baghdad e anche nel nord curdo e intorno a Mosul hanno rappresentato una svolta nella tattica dell’insorgenza dell’estremismo sunnita, al fine di terrorizzare il più possibile la popolazione e tenerla lontana dalle urne il prossimo 30 di gennaio. Il Patriarcato lamenta con toni sempre più duri e preoccupati che la condizione dei cristiani sia molto peggiorata nel corso degli ultimi mesi, con l’avvio di un vera e propria diaspora verso altri Stati arabi e la Turchia. Lamenta inoltre di non ottenere alcun ascolto da parte del nuovo governo iracheno, né da parte americana. Sotto questo punto di vista, una mediazione cristiana al fine di un miglior trattamento processuale di qualcuna tre le figure meno compromesse del vecchio regime come Aziz - sia pure una mediazione affidata prudentemente a padre Benjamin e non direttamente avocata a sé dalla Segreteria di Stato, per non irritare gli Usa - otterrebbe un duplice effetto, militare e politico insieme. Mandare un messaggio conciliante verso l’insorgenza ex baathista, al fine di meglio tutelare i caldei oggi minacciati e sotto attacco. E potrebbe anche, un domani, mettere le premesse per un qualche loro maggior ruolo nel delicato equilibrio interconfessionale che bisognerà pur costruire, nel nuovo Iraq che uscirà un po’ dalle urne, e un po’ dalle canne dei fucili.
Su IL FOGLIO, a pagina 3 l'editoriale "I conti col multilateralismo" fa il punto sulla crisi politica dell'Onu, determinata dal tentativo di farne un'arena dell'antiamericanismo.Le pressioni che l’amministrazione Bush esercita sul direttore dell’Agenzia
atomica internazionale (Aiea), Mohammed ElBaradei, comprese le intercettazioni
dei suoi colloqui con esponenti iraniani, fanno parte di una strategia americana volta a mettere in luce e a cercare di far saltare le ambiguità dell’Onu. La stessa origine, peraltro, hanno le iniziative del Congresso degli
Stati Uniti nei confronti di Kofi Annan. Per molti anni all’Onu è stato concesso
un largo margine di tolleranza, assai diverso dallo stringente controllo cui sono state sottoposte altre agenzie internazionali, come la Banca mondiale, il
Fondo monetario, l’Organizzazione per il commercio internazionale. Il Palazzo
di vetro, infatti, era considerato più una sede adatta ai contatti diplomatici, alla verifica delle relazioni, che una sede decisionale. Queste funzioni sono cresciute durante il lungo periodo in cui l’Onu era paralizzato dal contrasto tra Stati Uniti e Urss, che rendeva possibile l’adozione di iniziative soltanto se accettate dalle due parti. Nel decennio successivo allo scioglimento dell’Unione sovietica sembrava che l’Onu potesse tornare a esercitare le funzioni per cui era nata. Fu sotto le sue bandiere che s’intervenne contro l’aggressione di Saddam Hussein al Kuwait e in Afghanistan, dopo l’11 settembre. Restavano però le contraddizioni, lo spirito terzomondista, il relativismo sui diritti umani, al punto da permettere di presiedere all’organismo che dovrebbe garantirli un rappresentante della Libia. Il fattore
che ha cambiato il quadro è stata la scelta della Francia, seguita più o meno
convintamente dalla Germania, di fare del Palazzo di vetro il centro dell’opposizione "multilateralista" alla politica americana. Se l’Onu assume questa funzione, è evidente che l’America è indotta a passare dall’espressione generica di fastidio per certe iniziative, come quelle dell’Unesco, a un’azione decisa per combattere l’ambiguità dei dirigenti dell’Onu. Chi ha cercato di fare dell’Onu il contraltare mondiale dell’America ne ha sconvolto, forse definitivamente, l’equilibrio.
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