A pagina 10 LA REPUBBLICA di lunedì 13-12-04 pubblica un articolo di Alberto Stabile sull'attentato al valico di Rafah. E' ambiguo il modo in cui Stabile riferisce le voci infondate sull'"avvelenamento" di Arafat. Il cronista di REPUBBLICA inoltre non fornisce un'informazione rilevante: la preparazione dell'operazione è durata 4 mesi.
(a cura della redazione di Informazione Corretta)
Ecco l'articolo:GERUSALEMME - Un attentato così sanguinoso contro l´esercito israeliano non avveniva da mesi. Almeno quattro soldati sono stati uccisi ed altri otto sono rimasti feriti quando una potente carica di tritolo, nascosta dentro una galleria sotterranea lunga centinaia di metri, è esplosa nei pressi del posto di frontiera di Rafah che separa l´Egitto dalla Striscia di Gaza. Vi sarebbe anche una tredicesima vittima data per dispersa.
A giudicare dalla rivendicazione televisiva, fatta da un giovane incappucciato, il gruppo che ha condotto l´operazione, un´unità mista, composta da uomini delle Brigate Ezzeddin al Qassam, il braccio armato di Hamas, e Falchi di Al Fatah, new entry nella mappa del terrore, ha voluto in questo modo vendicare «l´assassinio» di Yasser Arafat. Pur non essendo stata trovata traccia di alcun veleno conosciuto, come hanno dichiarato i medici francesi, per la piazza palestinese non c´è mistero: Abu Ammar è stato ucciso.
Anche se interrompe una tregua di fatto durata circa un mese, l´attentato di ieri non è tuttavia un episodio isolato. Da quando il premier Sharon ha annunciato l´intenzione di ritirare l´esercito da Gaza, i gruppi intransigenti palestinesi hanno alzato il tiro nel tentativo di far apparire il ritiro come una ritirata sotto il fuoco nemico. Tentativo che l´esercito israeliano ha contrastato con durezza, anche portando la rappresaglia nei centri abitati.
Quella di ieri, al posto di confine di Rafah, l´unico varco attraverso cui i palestinesi possono sperare di uscire dalla Striscia, in direzione Egitto, è stata un´azione di guerriglia complessa, innanzi tutto, perché non è impresa facile scavare un tunnel che corre per centinaia di metri (gli attentatori dicono: 600) lungo una linea di confine presidiata in forze dall´esercito. Una volta scavato, il tunnel è stato, quindi, minato con una carica, dicono sempre gli attentatori, pari a una tonnellata e mezza di esplosivo. Ieri, intorno alle 4 e mezzo è scattata l´operazione mirata contro uno dei posti di blocco fissi dove vengono perquisiti i viaggiatori, prima di raggiungere il terminal.
Improvvisamente un boato scuote il silenzio profondo che avvolge la porta del Sinai. Due terroristi in missione suicida si sono infilati nel tunnel, e dopo aver strisciato nel buio per decine e decine di metri si sono fatti saltare, innescando l´esplosione della carica principale. L´onda d´urto investe i soldati che si trovano sulla strada. Ma non è finita. Sui rinforzi subito inviati per fronteggiare l´emergenza si apre il fuoco di alcuni cecchini: colpi di mortaio e mitragliatrice. La battaglia va vanti sotto i bagliori intermittenti dei bengala. Un palestinese viene ucciso, un altro è ferito.
Al di là degli slogan facili, presenti nella rivendicazione, l´attacco sembra avere un obbiettivo politico chiaro: insidiare gli sforzi che Abu Mazen, l´uomo destinato a succedere a Yasser Arafat, sta facendo nel tentativo di raggiungere una pace interna senza la quale la sua credibilità agli occhi degli interlocutori israeliani sparirebbe. E comunque ieri Marwan Barghuti ha annunciato di ritirarsi dalla corsa per la successione a Yasser Arafat.
I tunnel, come quello adoperato ieri e come quello scoperto il 6 dicembre al check-point di Carni, dove sono morti un sergente delle unità cinofile e il suo cane, sono una variante tattica che preoccupa molto i militari israeliani.
La stessa omissione si trova nell'articolo di Umberto de Giovannangeli sull'UNITA'. Articolo che però si segnala in positivo per l'utilizzo del termine "terroristi".
Eccone il testo:
Hanno scavato un tunnel lungo 600 metri fin sotto l'avamposto di Tsahal. Poi hanno fatto detonare una tonnellata e mezzo di esplosivi. La deflagrazione è devastante. Il bilancio dell'attacco pesantissimo: quattro soldati uccisi, un disperso, otto feriti. Hanno agito per vendicare la morte di Yasser Arafat e per ricordare a Israele e alla nuova leadership palestinese che la Striscia di Gaza è un campo di battaglia che gli irriducibili dell'Intifada non intendono abbandonare.
I terroristi sono tornati a colpire a Rafah, nel sud della Striscia, ai confini con l'Egitto. A rivendicare la «missione suicida» sono le Brigate Ezzedin al- Qaasam, braccio armato di Hamas e i Falchi di Fatah: «Questa operazione è dedicata alla memoria del martire Yasser Arafat. È stata un'azione unica nel suo genere e assesta un duro colpo a una delle zone più fortificate», dichiara alla Tv qatariota Al Jazira un miliziano a volto coperto, poi indicato dal giornalista come Abu Magd, uno dei capi del Falchi di Fatah. Mentre il capo dei «falchi» parla, Al Jazira manda in onda un video di propaganda dei duri dell'Intifada in cui viene mostrato il tunnel utilizzato per l'attentato. «Abbiamo voluto vendicare l'assassinio di Abu Ammar (il nome di battaglia di Arafat, ndr.) - ripete - e questo è solo l'inizio dell'offensiva per cacciare il nemico sionista dalle terre palestinesi». Nella notte la risposta israeliana: alcuni missili hanno colpito i quartieri Est di Gaza.
L'attacco terroristico in nome di Arafat, «modello Hezbollah» libanesi, è stato pianificato nei minimi dettagli e si è sviluppato in due fasi. Un'esplosione potentissima in un tunnel sotterraneo semidistrugge il fortino di confine. La deflagrazione è subito seguita da un attacco di due miliziani armati contro i soldati che erano andati a prestare soccorso, investiti anche da una pioggia di proiettili e razzi anticarro. Un miliziano palestinese viene ucciso nella sparatoria con i militari nel corso di una battaglia violentissima protrattasi per oltre due ore, ma l'altro riesce a fuggire portandosi via un'arma israeliana. Il buio della notte viene illuminato dai bengala israeliani e dai traccianti delle mitragliatrici. Il fuoco incrociato impedisce per lungo tempo di portar via i feriti dalla zona dei combattimenti. «È stato un piano ben coordinato, ben organizzato contro un valico internazionale dal quale passano molti civili palestinesi per recarsi in Egitto», afferma il portavoce di Tsahal capitano Jacob Dallal. Al momento dell'esplosione il valico era aperto. L'attacco al fortino conclude una giornata di sangue apertasi in mattinata quando cinque scolari palestinesi sono rimasti feriti da colpi di cannone di un carro armato caduti sul retro della scuola di Khan Yunis, mentre proiettili di mortaio e un razzo Qassam hanno colpito un altro insediamento. Un ciclo di violenza che sembra destinato a proseguire. L'attacco all'avamposto di Tsahal, il più violento dalla morte di Arafat, «non impedirà ad Israele di mettere in opera il suo piano di disimpegno, ma non potrà essere coordinato con l'Autorità palestinese se questa non agisce contro i gruppi terroristi», avverte il portavoce del premier Sharon, Ranaan Gissin.
Mentre nella Striscia si combatte e si muore (l'ultima vittima è un civile palestinese colpito da una pallottola vagante nella sua abitazione a Rafah), a Ramallah va in scena l'ultimo atto del «giallo della candidatura». Protagonista Marwan Barghuti. Dal carcere israeliano dove sta scontando una condanna plurima all'ergastolo per atti di terrorismo, l'uomo simbolo della seconda Intifada affida alla moglie Fadwa un messaggio nel quale annuncia il ritiro dalla corsa per le presidenziali del 9 gennaio e si schiera a favore del candidato ufficiale di Al-Fatah, Mahmud Abbas (Abu Mazen). «Gli auguro ogni successo possibile nella sua missione per ottenere la liberazione, per il ritorno dei profughi, per l'indipendenza, la pace e la democrazia nazionale», dice Barghuti, in un messaggio letto in una affollata conferenza stampa dal responsabile della sua campagna elettorale, Ahmed Ghneim. Ma nel negoziato, aggiunge Barghuti, «deve essere mantenuta l'opzione dell'Intifada e della resistenza». Più che un auspicio, questa sottolineatura appare come una condizione posta alla vecchia guardia di Fatah dal quarantacinquenne leader della rivolta palestinese per ritirare la propria candidatura e lasciar così via libera ad Abu Mazen. «Marwan si è comportato da vero leader, evitando una spaccatura irrimediabile all'interno di Fatah e ponendo con forza questioni cruciali, come il rilancio della lotta di resistenza e la democratizzazione reale del nostro movimento, alle quali la nuova leadership dovrà dare risposte convincenti», dice a l'Unità Ahmd Ghreim.
La notizia dell'abbandono del suo più temibile rivale raggiunge Abu Mazen mentre, assieme al premier Abu Ala, è impegnato in una storica visita ufficiale in Kuwait, la prima dopo 14 anni di gelo totale. La visita della riconciliazione. «Noi presentiamo le nostre scuse al Kuwait e ai kuwaitiani per ciò che abbiamo fatto», dichiara il futuro presidente palestinese al suo arrivo a Kuwait City. Abu Mazen chiede ufficialmente scusa ai cittadini dell'emirato per il sostegno dato nel 1990 dall'Olp di Yasser Arafat all'Iraq di Saddam Hussein che aveva appena invaso il Kuwait. Il dopo Arafat passa anche per il Golfo Persico.
In un riquadro all'interno dell'articolo di u.d.g. Alon Altaras fornisce la sua personale e selettiva rassegna della stampa israeliana.
Questa volta la rubrica si concentra su due articoli secondo i quali Israele non sta facendo abbastanza per favorire la ripresa del dialogo. Per Uzi Benziman di Haaretz si dovrebbero sospendere le operazioni militari anche in risposta ad aggressioni terroristiche, per lo scrittore Eial Meged, che scrive un articolo pubblicatao da Yediot Ahronoth, Israele dovrebbe trattare una pace separata con la Siria (la Siria però sta concordando con Abu Mazen di trattare con Israele solo insieme ai palestinesi).
La notizia che l'attentato a Rafah era in preparazione da quattro mesi poteva instillare nei lettori dell'UNITA' qualche dubbio sulla possibilità che l'ala più oltranzista del terrorismo palestinese sia davvero spinta ad attaccare dalle azioni di Israele.Su «Haaretz» Uzi Benziman analizza il comportamento dell'esercito israeliano a un mese dalla morte di Arafat. L'editorialista ricorda ai lettori la dichiarazione del governo Sharon, all'indomani della scomparsa del leader palestinese, di aiutare la nuova dirigenza palestinese, di dare ordine a esecuzioni mirate solo in caso di estrema necessità e di non compiere incursioni quotidiane come avvenuto negli ultimi mesi. I fatti smentiscono quella dichiarazione.
Trentadue palestinesi sono stati trucidati dall'esercito israeliano, sei palestinesi fra cui una bambina di sette anni negli ultimi quattro giorni, e si è registrato un tentativo di esecuzione mirata contro un terrorista ricercato da tempo. I missili Kassan lanciati sul Negev occidentale e sulle colonie israeliane nella Striscia di Gaza non possono essere presi, secondo il giornalista, come giustificazione di questa eccessiva attività militare.
L'esercito spiega che tutti gli attacchi sono indirizzati contro chi non ha rinunciato alla lotta armata contro Israele, ma in realtà, ricorda Benziman, questo era lo stesso atteggiamento anche nel primo governo Abu Mazen, stavolta senza la scusa della presenza di Arafat. Se il governo Sharon, il primo ministro e il ministro della Difesa non imporranno all'esercito un comportamento concorde alla nuova politica israeliana, allora si rischierà di arrivare a scontri continui, e non a un inizio di trattativa, anche con questa leadership palestinese.
Su «Yedioth Ahronoth» lo scrittore Eial Meged scrive un articolo controcorrente. Pur essendo un sostenitore di Netaniahu, ammette di aver nostalgia di Ehud Barak come primo ministro, e accusa il governo israeliano e la sinistra di mancare di responsabilità se non rispondono in modo concreto e senza porre condizioni all'apertura del giovane Assad. La volontà di Assad di trattare con Israele non è stata presa sul serio, e solo una persona come Barak ha il senso storico per non perdere un'opportunità di questo rilievo.
Il beneficio strategico di una pace con la Siria è notevole, lascerà i palestinesi senza appoggio a Damasco e senza la possibilità di avere nei paesi arabi un altro complice, conclude Meged.
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