A pagina 12 IL MANIFESTO di venerdì 10-12-04 pubblica un'articolo di Michelangelo Cocco intitolato "Abu Mazen: basta intifada". Se nel titolo il terrorismo è chiamato, appunto "intifada", nell'articolo diventa "lotta" o "rivolta" armata.
Abu Mazen resta, con evidente dispregio, "il leader palestinese più apprezzato da Israele e dagli Stati Uniti", che in realtà si limitano a riconoscerlo come possibile interlocutore in ragione della sua volontà di por fine al terrorismo.
La novità è che per Hamas "non è più in discussione l'esistenza di Israele". Questo perché il vice-capo dell'organizzazione terroristica (pardon, del "movimento di resistenza islamica") ha dichiarato che "È diritto dei palestinesi avere uno stato nella Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e a Gerusalemme". Logicamente questa dichiarazione non esclude affatto che si pensi anche a un diritto a Jaffa e a Tel Aviv, e che questa più radicale rivendicazione venga soltanto accantonata per motivi tattici. Di fatto Hamas ha sempre soltanto ipotizzato la possibilità di tregue, non di paci. Appunto perché non ha mai abbandonato, almeno ufficialmente, l'idea di distruggere, infine, Israele.
Ecco l'articolo:Per il popolo palestinese «la lotta armata è finita» ed è arrivato il momento «del cammino democratico verso la liberazione». Dal Libano - il paese invaso nel 1982 da Israele per cacciarne i fedayn di Arafat, il vicino che ospita 360.000 profughi palestinesi - Abu Mazen ha dichiarato ieri che l'Intifada di al Aqsa è arrivata al capolinea perché «il 99% dei palestinesi è favorevole a raffreddare la situazione» e ha bollato la rivolta scoppiata il 29 settembre 2000 come qualcosa che «non è un'intifada o una lotta armata, ma solo un uso delle armi». Visitando assieme a una delegazione dell'Anp i campi di Sabra e Chatila il leader dell'Olp e candidato favorito per le presidenziali del 9 gennaio ha riaffermato il diritto al ritorno dei profughi palestinesi, come stabilito dalla risoluzione 194 delle Nazioni unite ed ha denunciato il disegno del governo israeliano di smantellare le colonie della Striscia di Gaza per mantenere il controllo della Cisgiordania. Ma per il leader palestinese più apprezzato da Israele e dagli Stati Uniti (che gli preferiscono solo il ministro delle finanze Salam Fayad, ndr) è giunto il «momento di garantire sicurezza ai palestinesi, prima dell'indipendenza» e dunque la rivolta armata va fermata.
In una dichiarazione apparentemente contrastante con quelle del leader dell'Olp - la cui candidatura pure sostiene apertamente - Faruk Qaddumi, nuovo capo di Al Fatah, ha ribattuto sul quotidiano libanese An Nahar che «finché Israele non riconoscerà ai palestinesi i loro diritti, arrestare la resistenza è fuori discussione». Anche secondo Hamas «per ora» non è il momento di considerare nemmeno una tregua con Israele. «Ma un cessate il fuoco potrà essere considerato in futuro», ha dichiarato alla Reuters Abu Marzuok, vice-capo del movimento di resistenza islamica. «È diritto dei palestinesi avere uno stato nella Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e a Gerusalemme - ha ribadito Marzouk confermando che per il suo partito ormai non è più in discussione l'esistenza d'Israele -. Ma non accetteremo mai uno Stato in cambio della rinuncia a uno dei diritti inalienabili dei palestinesi». La fine dell'Intifada «decretata» da Abu Mazen è arrivata poche ore dopo l'ennesimo massacro di palestinesi da parte dell'esercito israeliano. Mercoledì notte cinque uomini sono stati uccisi a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza. Secondo quanto riferito dall'esercito israeliano, i militari hanno aperto il fuoco su un gruppo di persone che «sembravano essere terroristi che si accingevano a compiere un attacco, oppure trafficanti di armi». Ieri un drone, uno degli aerei senza pilota vanto dell'esercito di Tel Aviv, ha colpito un'automobile in transito sulla strada tra Khan Yunis e Rafah, sempre nel sud della Striscia, uccidendo un palestinese e ferendone tre.
L'attacco, diretto contro il capo dei Comitati di resistenza popolare, Jamal Abu Samhadana, come tante altre «esecuzioni mirate», ha non ha centrato il bersaglio. Samhadana, secondo il governo Sharon, ha organizzato gli attacchi che distrussero due carrarmati Merkava a Gaza nell'inverno 2002 (sei soldati uccisi) e l'attentato contro un convoglio statunitense ad Erez nell'ottobre 2003 (tre americani uccisi). Il ministro Saeb Erekat ha condannato l'attacco perché costituisce «la continuazione della politica di assassinii» che minaccia i tentativi di pace. Ieri l'esercito ha fornito le cifre sui palestinesi uccisi in Cisgiordania dall'inizio dell'anno: 148, 29 dei quali civili innocenti. Ma per Betselem quelli dei militari sono numeri truccati: l'organizzazione umanitaria israeliana parla di 187 palestinesi ammazzati, 111 dei quali non coinvolti in alcun tipo di combattimenti; tra cui 33 minori.
Intanto il comitato centrale del Likud, il partito di Ariel Sharon, ha votato sulla proposta del premier di iniziare colloqui con i laburisti per formare un governo di unità nazionale, essenziale per sostenere il «ritiro da Gaza» dopo che a Sharon è rimasto, in seguito all'uscita dei «centristi» di Shinui dalla coalizione, un governo di minoranza di 40 parlamentari su 120 seggi della Knesset. In tarda serata i primi conteggi parlavano di un 63% di sì a Sharon contro un 37% di contrari. Se confermato, il dato segnerebbe un trionfo della linea Sharon, dopo mesi di tira e molla con i cosiddetti irriducibili, contrari a intese con il partito di Peres.
Michelangelo Cocco è anche l'autore di "Il candidato bastonato", che di seguito riportiamo:Possono vantare un nuovo primato le tsahal, le forze di difesa israeliane che ieri hanno iniziato a processare il Comandante R., un graduato della brigata Givati accusato di aver svuotato, il 5 ottobre scorso, un caricatore del suo mitra su Himan al Hams, una 13enne palestinese di Rafah colpita a morte dai suoi commilitoni. Come a voler dimostrare le tesi di politologi ed esperti militari secondo cui 35 anni d'occupazione dei Territori hanno minato profondamente quella moralità di cui l'esercito israeliano va fiero, i militari hanno picchiato addirittura un candidato alle elezioni palestinesi che le truppe dovrebbero far di tutto per rendere più facili. Mercoledì sera Mustafà Barghuti stava tornando nella sua Ramallah da Jenin, dove si era recato per fare campagna elettorale. Bloccato dai militari al checkpoint di Sanuor - poco fuori Jenin - a Barghuti e ai suoi cinque compagni di viaggio è stato ordinato di scendere dall'automobile. Dopo aver protestato («Sono Mustafà Barghuti, candidato alla presidenza dell'Anp»), il politico che si batte per le riforme democratiche in Palestina, assieme ai suoi cinque amici, è stato picchiato con il calcio del fucile da un soldato e ai sei è stato ordinato di rimanere a terra sdraiati per un'ora e un quarto. Nel corso di una conferenza stampa Barghuti - che ha riportato lievi ferite alla schiena, ha dichiarato che ciò che ha subìto «non è niente in confronto a ciò che la maggior parte dei palestinesi soffre quotidianamente, a causa dei 703 checkpoint che dividiono il loro mondo in decine di prigioni i cui cancelli sono controllati da una forza militare straniera». Dalle colonne del quotidiano britannico Independent Barghuti ha anche accusato Sharon di favorire Abu Mazen lasciandolo circolare liberamente e bloccando al contrario il movimento dei candidati «alternativi» alla presidenza palestinese. Gli standard etici dell'Esercito israeliano prevedono che i suoi «soldati siano obbligati a proteggere la dignità umana. Ogni essere umano ha dignità, senza discriminazioni per la sua origine, religione, nazionalità, genere, status o posizione». Per Luisa Morgantini, presidente della commissione sviluppo del Parlamento europeo, «non possono esserci elezioni libere in Palestina se l'esercito israeliano picchia i candidati». L'eurodeputata di Rifondazione comunista ha chiesto al responsabile della politica estera europea, Javier Solana, di «intervenire immediatamente affinché questi fatti non si ripetano e Israele rispetti i suoi impegni, permettendo al popolo palestinese ed ai suoi candidati di partecipare ad elezioni democratiche e libere dall'occupazione militare».
Nell'articolo non c'è traccia della dichiarazione dell'esercito israeliano secondo la quale Mustafa Barghouti ha mancato di segnalare, come richiesto ai candidati, il suo passaggio al check point.
Questo perché l'episodio non deve apparire per quello che ovviamente è, un incidente, ma come l'esempio di una prassi (bastonare i candidati palestinesi) e la prova di un intenzione (il sabotaggio delle elezioni).
Pubblichiamo infine il trafiletto "I diritti per vivere". In occasione dell'anniversario della Dichiarazione dei diritti dell'uomo vengono segnalate varie iniziative contro la barriera di sicurezza in Israele. Nessuna di queste, a quanto risulta dall'articolo è intesa a protestare anche contro il terrorismo suicida palestinese.
Ecco il testo:Sarà oggi l'anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani dell'Onu, firmata il 10 dicembre 1948, a dare il via ad una campagna per il rispetto dei diritti di uomini e donne palestinesi e per il rispetto del diritto internazionale da parte di Israele. L'iniziativa, decisa al Forum sociale europeo di Londra, si realizzerà in tutta Europa. In Italia alla mobilitazione, promossa da Action for peace, hanno aderito associazioni, sindacati e partiti. Oggi e domani sono previsti sit in, azioni di strada, assemblee con esponenti palestinesi e israeliani a Milano, Roma e Napoli. La mobilitazione nasce dall'esigenza di una ripresa dell'iniziativa politica: servono atti concreti che costringano il governo israeliano al rispetto del diritto. Oltre a ribadire no all'occupazione e al muro, l'appello di Action for peace chiede la sospensione dell'accordo Ue/Israele, vincolato al rispetto dei diritti umani, l'embargo sulle armi e le tecnologie a scopo militare.
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