L'ennesimo terrorista diventato "militante"
ad opera di u.d.g.
Testata:
Data: 10/12/2004
Pagina: 10
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: Sharon ottiene il si del Likud al governo di unità nazionale
A pagina 10 L'UNITA' di venerdì 10-12-04 pubblica un' articolo di Umberto De Giovannangeli, "Sharon ottiene il si del Likud sul governo di unità nazionale", che di seguito riportiamo.
Ha utilizzato tutte le «armi» a sua disposizione per vincere la «battaglia delle urne». Ha mobilitato tutti i suoi fedelissimi e pungolato ministri e deputati a portare al seggio tutti i loro sostenitori perché votino nel senso da lui voluto. E non ha nemmeno esitato a ricorrere a trasparenti minacce, avvertendo che farà i conti con chi non avrà dato prova di sufficiente solerzia. Ariel Sharon le ha davvero tentate tutte per convincere i tremila membri del Comitato centrale del Likud a dare il via libera all’apertura di negoziati per un’alleanza di governo col partito laburista e con due formazioni religiose ultraortodosse, Yahaduth HaTorah e Shas. E a quanto pare, l’ha spuntata. Secondo le primissime informazioni, giunte in tarda serata, Sharon avrebbe ottenuto il 60% di sì dei membri del comitato centrale del Likud per il suo piano. La ricostituzione di una maggioranza parlamentare è essenziale per la sopravvivenza del governo che, dopo l’uscita dello Shinui (laico di centro), è divenuto monocolore essendo formato solo dal Likud ed è fortemente minoritario alla Knesset (40 deputati su 120). Ma non meno importante è la composizione della coalizione che il premier vuole costituire: l’inclusione del partito laburista è infatti indispensabile per portare avanti il piano di disimpegno dai palestinesi della Striscia di Gaza e nel nord della Cisgiordania. Per capire che si sarebbe trattato di una votazione combattuta e sofferta bastava scrutare il volto, teso, di Ariel Sharon mentre faceva il suo ingresso nel padiglione del Giardino delle Esposizioni di Tel Aviv dove si svolgeva la consultazione del parlamentino del Likud- «Chiedo a tutti di venire a votare in massa per la mia proposta di negoziare l’ingresso dei laburisti nel governo», è l’appello rilanciato dal premier ai membri del Cc. Ciò nonostante nel tardo pomeriggio la percentuale dei votanti era molto bassa, causando forte preoccupazione al primo ministro. In serata, la percentuale dei votanti si è alzata attestandosi alla chiusura dei seggi al 70% degli aventi diritto. Almeno il 60% di questi, come detto, ha dato il via libera a Sharon. Il «fronte del rifiuto» aveva cercato di contrapporre a quella del premier una risoluzione che autorizzava invece negoziati di governo con i partiti religiosi e di destra, contrari al ritiro da Gaza. Dopo essersi appellati senza successo al tribunale interno del Likud si sono anche rivolti al tribunale distrettuale di Tel aviv che ieri mattina ha respinto il loro ricorso, permettendo così l’inizio delle votazioni. Stando a un recente sondaggio di opinione, circa il 70% degli israeliani sono per un governo formato dal Likud e dai laburisti ed è forte anche la maggioranza in seno agli elettori del Likud. Ma è diversa e più complessa è al situazione in seno al Comitato centrale - lacerato da fazioni e personalismi, i cui membri spesso agiscono secondo i propri calcoli - che già lo scorso agosto aveva inflitto al premier una bruciante sconfitta, ponendo il veto a un accordo con i laburisti. Lo sfaldamento della precedente coalizione, dopo l’uscita dello Shinui, ha poi dato a Sharon l’occasione per chiedere al Comitato di revocare il veto minacciando in alternativa le elezioni anticipate.
Il via libera del Cc del Likud farà sì che stasera il leader laburista Shimon Peres riunisca l’ufficio politico del partito per l’assenso formale ai negoziati col Likud. «Siamo pronti ad assumerci le nostre responsabilità», ribadisce a l’Unità Haim Ramon, uno dei dirigenti del Labour più vicini a Shimon Peres.
Mentre a Tel Aviv si votava, a Gaza un militante palestinese sfuggiva ad un missile israeliano, nel primo tentativo di «esecuzione mirata» dalla morte di Yasser Arafat un mese fa. Jamal Abu Samhadana, 40 anni, capo del Comitato popolare di resistenza, un’organizzazione composta da diverse fazioni, è rimasto ferito, saltando al volo fuori dalla sua Subaru bianca pochi secondi prima dell’esplosione del missile, forse allertato dal rombo del drone (aereo senza pilota), fra Khan Yunis e Rafah, nel sud della Striscia di Gaza. Anche due suoi collaboratori e un passante sono stati feriti nell’attacco, che il gruppo ha minacciato di vendicare con una risposta «dolorosa e della forza di un terremoto». L’uomo, afferma un comunicato delle forze armate israeliane che conferma il raid, «è un dirigente responsabile di numerosi attacchi terroristici». «Inshallah (se Dio vuole), continueremo a stare nella trincea della resistenza», dice Samhadana, ripreso dalla televisione locale con il capo fasciato nel suo letto d’ospedale. È la seconda volta in quattro mesi che Samhadana sfugge ai tentativi di Israele di ucciderlo. «Questi tentativi di omicidio minano gli sforzi per far ripartire i negoziati di pace», avverte Saeb Erekat, ministro palestinese per gli affari negoziali.
Samhadana è definito "militante", non si precisa che è stato responsabile di un attentato costato la vita a sei soldati israeliani a Rafah e di un altro che ha ucciso tre cittadini statunitensi, e che il suo gruppo appartiene alla fazione palestinese che non vuole la cessazione della violenza.

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