In prima pagina su L'Unità di oggi, 09-09-04, il direttore Furio Colombo firma il commento "Che cos'è il terrorismo". Vi adombra l'ipotesi che il terorismo, in Iraq possa non essere praticato soltanto da una delle parti in conflitto e che in particolare gli ultimi sequestri, che hanno coinvolto pacifisti italiani e giornalisti francesi, possano rientrare nella strategia dell'"altra parte". leggasi dell'America e del governo Allawi.
Manca ovviamente qualsiasi elemento a sostegno di questa tesi.
Ecco il pezzo:
Il terrorismo è facile da riconoscere: è vile, persino quando chi commette l’atto terroristico perde la vita, perché è sempre compiuto contro innocenti.
È commesso in modo da provocare tutto il terrore che un essere umano può concepire. Dunque deve avvenire nella vita quotidiana, nei luoghi immaginati come sicuri, e con messe in scena spaventose. Madrid, gli autobus di Gerusalemme, la scuola di Beslan sono il terrificante modello.
È una vendetta trasversale fatta per colpire qualcuno che ti è caro, dunque soprattutto bambini. I sistematici sgozzamenti di migliaia di famiglie che hanno insanguinato per anni l’Algeria ne sono un’altra prova terribile. Gli aerei che si schiantano conto le Torri Gemelle di New York hanno queste stesse caratteristiche (migliaia di morti innocenti sorpresi nella pacifica routine della vita quotidiana) e in più aggiungono la grandiosità del simbolo. Per un Paese non militare e non militarizzato come era l’America dell’11 settembre è stato molto più grave e impressionante l’uso di aerei civili come armi, il gettarli contro i grattacieli, uccidendo tutti, che l’attacco al Pentagono.
Il terrorismo, proprio perché avviene in condizioni psicologiche spaventose (se non di chi lo pianifica, certo di chi lo porta a compimento) non si presta a test di rigore logico. Non si chiarisce con il domandarsi a chi giova.
L’atto terroristico scava buche enormi, intorno a chi lo compie, non solo fisicamente, sul luogo che colpisce, non solo nello spettacolo delle vittime (come si è visto nella scuola numero 1 di Beslan e nel suo tremendo video).
Porta, per chi lo pratica, isolamento, terra bruciata. Se non ci fosse una immensa copertura di violenza come risposta al terrorismo (la guerra, con la sua sistematicità, la sua cecità, la sua tendenza a cercare e colpire il nemico in grandi numeri, dichiarando tutti nemici) probabilmente l’isolamento sarebbe più visibile e più grande: chiazze di un male spaventoso che si finirebbe con l’identificare. In questo unico senso ci sarebbe analogia fra la lotta unitaria di un’intera comunità contro il terrorismo (come in Italia, negli anni di piombo) e il modo in cui si sarebbe potuto combattere il terrorismo nel mondo di oggi: senza la guerra.
Immaginate se l’Italia avesse dichiarato nemici tutti gli operai o tutti gli studenti o tutti coloro che adottavano comportamenti ribelli negli anni Settanta, accusandoli di essere tutti "Brigate rosse", o se avesse preteso comportamenti allineati e obbedienti da parte del vasto schieramento di sinistra che ha puntellato le istituzioni e contribuito in modo cruciale a sradicare il terrorismo. L’unità nazionale che ha vinto il terrorismo non ci sarebbe mai stata.
Per tutte queste ragioni si vede bene perché il terrorismo trovi un terreno così fertile in Iraq: la guerra lo nutre e - con i suoi orrori continui che coinvolgono così tanti innocenti, così tanti bambini, (ormai ci sono centinaia di morti ogni giorno) - agli occhi di molti lo giustificano. O almeno lo fanno apparire meno assurdo ed estraneo di quanto non sia in realtà.
Estraneo lo è per forza perché non esiste un popolo più feroce di un altro e non occorre essere contro la guerra in Iraq, basta un diploma di scuola media per sapere che l’Islam è ed è stato nei secoli tanto feroce quanto il mondo cristiano. Per conferma basti ricordare le nostre stragi di mafia, lo scioglimento dei bambini negli acidi, il terrorismo "cristiano" di Oklahoma City: 168 morti, decine di bambini del locale asilo di cui sono stati trovati soltanto i pezzi, una strage di americani contro americani.
Ma anche: per tutte queste ragioni può apparire futile chiedersi come mai, in un terrorismo che finora ha diretto i suoi colpi disumani contro l’apparato militare della coalizione e i suoi presunti sostenitori (cuochi, autisti) usando spesso anche la richiesta di manifestazioni di pace, improvvisamente abbia gettato tutto il suo peso contro i pacifisti.
Il mondo intero sapeva che Baldoni era un uomo di pace. Il mondo intero - ma anche i vicoli più poveri di Baghdad - testimonia adesso per le due Simone. Volete che gli uomini di un commando molto efficiente e bene organizzato che le ha bloccate, selezionate, identificate e fatte sparire con una operazione perfetta, in pochi minuti, in pieno giorno, non lo sapessero?
Lo sapevano. E hanno fatto quel che volevano fare. La domanda è perché.
La tesi della ferocia bestiale e indiscriminata che agita le viscere del musulmano quando vede un cristiano e non fa più distinzioni su nulla (sembra una versione grottesca e fuori posto, dati gli eventi, ma sto citando giornali ed editoriali italiani di queste ore) è troppo primitiva.
Perché non pensare che in un Paese fuori controllo si formino bande con proprie bandiere, proprie ossessioni, magari legami o committenti diversi, che percorrono una loro strada, per pazzesca che sia? Forse non lo sapremo mai, ma il terrorismo è anche questo, e può darsi che all’improvviso risulti stretta la gabbia mediatica che gli è stata costruita addosso per descriverlo, tutto da una parte. Walter Rodgers, inviato della Cnn, ha parlato per la prima volta di guerra civile, in Iraq.
Una guerra civile non ha mai un lato solo di orrore.
Più esplicito, e più estremo di Colombo (forse gli americani vogliono cacciare i pacifisti per potersi abbandonare a crimini di guerra senza testimoni scomodi) è Gino Strada, che su Il Manifesto firma l'articolo "Noi pacifisti nell'inferno di Baghdad", che di seguito pubblichiamo:L'ultima puntata dell'orrore iracheno - il rapimento di operatori umanitari - pone domande non più eludibili. Servono analisi e proposte: dobbiamo capire e agire, e in fretta. L'ultimo rapimento di Baghdad non è stato un fatto «occasionale», favorito da circostanze, da occasioni che lo hanno reso possibile. E' stato preparato, organizzato, premeditato, voluto. Perché? E' possibile che Simona Torretta e Simona Pari siano state rapite in quanto italiane. Nel settembre del 2002 venne lanciata in Italia la campagna «Fuori l'Italia dalla guerra». Si disse, allora, che il ripudio della guerra sarebbe stato un atto di etica e di civiltà, oltre che di rispetto per la Costituzione. Ma si disse anche che l'Italia non avrebbe potuto imboccare a senso unico la via della guerra. Perché quella é sempre una via a doppio senso, e a carreggiate multiple: mentre si esporta guerra, la si sta anche importando, anche se si cerca di nasconderlo. Contro la Costituzione, contro il diritto internazionale e contro la volontà della maggioranza degli italiani il parlamento e il governo italiani hanno deciso invece di portare il nostro paese in guerra, in questa guerra. Le nostre truppe sono parte della forza di aggressione al popolo iracheno, e possono continuare a restare in Iraq solo se sparano contro gli iracheni. Ci siamo dentro fino al collo, oggi il nostro paese e i suoi cittadini sono considerati nemici e quindi esposti alla ritorsione. Così finisce che un essere umano possa diventare un bersaglio solo perché italiano. Adesso siamo in guerra, e iniziano le vittime anche dalla nostra parte. Non solo tra i «nostri ragazzi» militari comandati ad essere occupanti. Perfino tra gli operatori di pace. Italiani: basta la parola.
Oppure il senso dell'ultimo odioso atto è un altro? In Cecenia, nel paese che «l'amico Vladimir» ha ridotto a un cumulo di macerie il governo russo decise alcuni anni fa di non volere testimoni scomodi, possibili fonti di informazioni sgradite. L'assassinio di sei operatori umanitari della croce rossa internazionale - freddati nel sonno a Grozny con pistole col silenziatore - ebbe l'effetto di far evacuare dalla Cecenia tutte le organizzazioni umanitarie. Obiettivo raggiunto. E se così fosse anche ora? Se questa fosse la strategia prodotta dagli ultimi eventi, dal rapimento dei due giornalisti francesi, dall'assassinio di Enzo Baldoni? Non ci sarebbe da stupirsi. Chi fa il tiro a segno sui civili, chi spiana villaggi con le bombe, chi ha creato Abu Ghraib (e Guantanamo) non vede certo di buon occhio la presenza in Iraq di operatori di pace, né di giornalisti che non siano embedded. Rendere la loro scomoda presenza sempre più a rischio, perfino eliminarla: può essere benissimo l'obiettivo dell' «amico George», come lo è stato per l'amico Vladimir. «Non disturbate il manovratore». E via tutti. E' successo in Cecenia, è successo in Afghanistan, e lo stesso tentativo potrebbe essere in atto in Iraq. Ciò implicherebbe, naturalmente, dirette e pesanti responsabilità dei servizi Usa e probabilmente anche dei paesi che sostengono l'aggressione statunitense, inglesi e italiani in prima fila. Nel mondo dei servizi segreti, chi fa che cosa e chi sta con chi non è mai chiaro. Ne sia dimostrazione il fatto che tutti i servizi si vantano di avere confidenti informatori e spie nel campo avverso, il che vuol dire che sono tutti permeabili, manovrabili.
Ma c'è anche un'altra ipotesi. Che il tiro a segno e il rapimento di persone di pace siano, semplicemente, un altro sintomo - gravissimo e con prognosi infausta - del cancro della guerra. Altro che civiltà e democrazia: quello cui stiamo assistendo in Iraq è un tragico e deprimente esempio di barbarie. E' una guerra dove opera, con significativa frequenza, anche il terrorismo kamikaze. Se ne parla comunque troppo poco, e non a caso. Non si tratta di un elemento «tecnico» - chi non ha a disposizione aerei senza pilota, finisce col fare da pilota a una cintura imbottita. C'è molto di più. C'è la decisione in molti di considerare la propria vita «a perdere», di uccidersi mentre uccide. Quando si arriva a quel punto, quando non si ha più alcun rispetto per la propria vita, perché dovrebbe interessare il destino di chiunque altro? Quella che si innesca è allora una catena di disumanità, ferocia, odio. Ogni chiave di lettura ha un senso, e forse non c'è una ragione soltanto. Per certo, lo scenario che abbiamo davanti é agghiacciante. Siamo entrati in un tunnel: ci ritroviamo in mezzo a una guerra pericolosissima che la maggior parte dei cittadini non vuole per molte ragioni, per esempio perché è un film già visto e non a lieto fine. Invece noi, oggi, ci siamo dentro, ci ha portato il «club degli amici».
Non sono stati i soli, purtroppo. A favore della aggressione all'Afghanistan votò oltre il 90% dei parlamentari, e ancora oggi alcuni leader di coloro che si preparano - o aspirano - a governare (il termine «opposizione» mi sembra davvero fuori luogo) rivendicano la giustezza di quella decisione. Prima di questo governo di centrodestra, ci aveva portato in guerra il governo di centrosinistra. E in un modo ancora più devastante, se non altro per le coscienze. Siamo stati trascinati in una guerra «umanitaria». Non si è trattato solo di una menzogna volgare; la teoria della guerra umanitaria di dalemiana memoria è la più vigliacca espressione di razzismo. Perché autorizza in nome dei diritti umani a uccidere altri esseri umani considerati evidentemente inferiori, visto che non si pensa a proteggere i loro diritti umani, primo tra tutti quello di essere vivi e di restarci il più a lungo possibile. Una volta formulata e praticata, la «guerra umanitaria» è una rottura con il pensiero sociale e civile degli ultimi due secoli, e trova compimento e sviluppo nella «guerra preventiva». Se è lecito uccidere per i diritti umani, perché non farlo per gli interessi nazionali o per garantire il tenore di vita dei cittadini Usa? Anche interessi nazionali e tenore di vita sono, in fondo, «diritti umani». E se è lecito ammazzare, perché aspettare? Lo si faccia il prima possibile, nel modo (per loro) più indolore ed efficiente.
Uniti nel portarci in guerra. E oggi uniti «contro il terrorismo». Uniti nel raccontarci la bugia più grande, che la guerra sia qualcosa di diverso dal terrorismo, e il terrorismo dalla guerra. La chiamano «unità nazionale». La definirei piuttosto una sintonia di casta, come successe ai tempi della guerra contro l'Afghanistan. Il paese invece, i cittadini, sono perlopiù da un'altra parte, non credo proprio siano d'accordo sull'essere in guerra. Ma è la casta a decidere. Nel nostro paese c'è ormai così poca democrazia che nessuno pensa di consultare i cittadini sulla decisione più importante che pone a rischio la loro stessa vita: la guerra o la pace. Come la pensano gli italiani? Perché non ce lo chiedono? Sarebbe semplice ma non credo succederà, la casta non ama rischiare brutte sorprese.
Il movimento per la pace è chiamato oggi a un compito decisivo: elaborare nuove forme di organizzazione dei cittadini e nuove strategie, perché in Italia possa tornare a crescere la democrazia, si rispetti la Costituzione, si inizi a percorrere il cammino del dialogo e della non-violenza, abbandonando quello del razzismo e della bestialità. Nessuno farà regali, non facciamoci illusioni. Il ripudio della guerra, che impone il ritiro delle nostre truppe dall'Iraq, non verrà dall'«unità nazionale». Da lì, finora, sono venute solo la teoria e la pratica della guerra. Il movimento per la pace sono milioni di persone che vogliono tornare - o forse incominciare - a essere cittadini, non semplici consumatori o strumenti del consenso. E che credono nella democrazia come strumento per realizzare i diritti umani, perché solo nel pieno rispetto dello sviluppo della persona, e quindi di tutti gli esseri umani, sta la condizione indispensabile per la pace. Dall'altra parte sta chi pensa che la democrazia sia un puro gioco elettorale, che i diritti umani siano un optional, e che si possa ammazzare e torturare a piacimento. Sta al movimento per la pace fare in modo che nessuno, in futuro, possa considerare i nostri concittadini, e noi stessi, come «nemici». Lo deve anche a tutti coloro che hanno perso o che stanno rischiando la vita per la guerra. Lo deve anche a Simona Torretta e Simona Pari, che speriamo di vedere libere al più presto, con i loro colleghi iracheni.
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