Il Foglio di sabato 04-09-04 ha pubblicato la sesta e ultima parte del saggio di Norman Podhoretz sulla "Quarta guerra mondiale" uscito su Commentary di Settembre. Vi si affrontano l'ostilità della cultura liberal americana alla dottrina Bush e le possibilità che quest'ultima venga messa da parte dopo le elezioni presidenziali del 2004, con catastrofiche conseguenze per l'America e per il mondo.
Ecco il pezzo:Parlando a nome di molti suoi colleghi realisti, Fareed Zakaria, sulle pagine di Newsweek, smentì Zarqawi affermando che in Iraq non stava arrivando la democrazia e anzi che era prematuro cercare di impiantarla in quel paese o in qualsiasi altra regione del medio oriente: "Noi non vogliamo la democrazia in medio oriente, o almeno non ancora. Vogliamo innanzitutto stabilire quelli che si possono definire i presupposti della democrazia (…), il regno della legge, i diritti individuali, la proprietà privata, l’indipendenza dei tribunali, la separazione tra Stato e Chiesa (…). Non possiamo aspettarci che in medio oriente avvenga nello spazio di una sola notte ciò per cui in occidente ci sono voluti secoli". Noi sostenitori della dottrina Bush non vedevamo nulla di sbagliato nelle tesi di
Zakaria. Ma rifiutavamo l’accusa (spesso rivoltaci non soltanto da realisti come Zakaria ma anche da paleoconservatori come Pat Buchanan) secondo la quale la nostra posizione era troppo "ideologica" o ingenuamente "idealistica" o addirittura "utopica". Eravamo completamente d’accordo con quello che il presidente Bush andava già da tempo sostenendo: ossia che l’opzione realista di accettare regimi autocratici e dispotici in medio oriente non aveva garantito né la stabilità regionale né – come aveva tragicamente dimostrato l’11 settembre – ci aveva reso più sicuri in patria. Bush aveva già da tempo dato una risposta alla domanda posta da "coloro che si definiscono realisti", vale a dire se "la diffusione della democrazia dovesse essere una preoccupazione degli Stati Uniti". Lo era eccome, dichiarò Bush in termini risoluti, perché la democratizzazione ci avrebbe reso più sicuri, e accusò i realisti di avere "perso contatto con una fondamentale realtà". Da questo punto di vista, a mio giudizio, Bush ha adottato una politica simile a quella del Piano Marshall, che era servito agli interessi americani e nello stesso tempo aveva aiutato gli altri paesi. Al pari del Piano Marshall, la nuova politica di Bush era una sintesi di realismo e idealismo: un esempio di come si fa bene facendo il bene. Coloro che sostenevano questa nuova politica si opposero anche alla tesi secondo la quale democrazia e capitalismo potevano crescere soltanto in un terreno che era stato coltivato già da secoli. Abbiamo ricordato ai realisti che dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti erano riusciti, in un solo decennio, a trasformare la Germania nazista e il Giappone imperialista in democrazie capitaliste. E dopo la sconfitta del comunismo, era cominciato un processo analogo in Europa centrale e orientale, e persino nel cuore stesso dell’antico impero del male. Perché non avrebbe potuto accadere la stessa cosa nel mondo islamico? La risposta dei realisti era che qui la situazione era diversa. A questo noi rispondevamo che la situazione era ogni volta diversa, e che si potevano sempre trovare mille ragioni di possibile fallimento per scoraggiare qualsiasi tentativo ambizioso. Di fronte a questa osservazione si sosteneva frequentemente che l’Amministrazione Bush aveva notevolmente sottovalutato le particolari difficoltà che implicava la democratizzazione dell’Iraq e erroneamente calcolato il tempo necessario per una trasformazione così profonda, sempre ammesso che fosse possibile. Tuttavia i discorsi su una "facile passeggiata" e cose del genere erano fatti soprattutto fuori dall’Amministrazione e in ogni caso erano riferiti alla futura campagna militare in Iraq (che si è rivelata effettivamente tale) e non alla successiva fase di ricostruzione. Quanto a quest’ultima, l’Amministrazione aveva continuato a ripetere che sarebbe rimasta in Iraq "fino a quando sarebbe stato necessario, e non un giorno di più". Ma quanto sarebbe durato il processo di democratizzazione? Per coloro che si opponevano alla dottrina Bush, un anno (o persino un mese?) era già un periodo troppo lungo; per i suoi sostenitori, l’espressione "fino a quando sarebbe stato necessario, e non un giorno di più" continuava a sembrare, date le circostanze, la sola formula soddisfacente. Lo stesso discorso fatto per il problema della democratizzazione dell’Iraq vale anche per quello della riforma e della modernizzazione dell’islam. Riflettendo su questa ancora più complessa questione, ci chiedevamo se l’islam fosse davvero in grado di sopravvivere eternamente rifiutando quel processo di riforma e modernizzazione che si era avviato nel cristianesimo e nel
giudaismo all’inizio dell’età moderna. Non che fossimo così ingenui da immaginarci che l’islam potesse riformarsi nel giro di una notte, o per un intervento esterno. Nella sua fase di massimo splendore, l’islam si era imposto su enormi territori con la forza della spada, oggi non c’era alcuna possibilità di un’immediata trasformazione dell’islam con la forza delle armi americane. C’erano, però, buone possibilità per preparare il terreno e fare una semina da cui potevano svilupparsi nuove condizioni politiche, economiche e sociali, affiancate da nuove pressioni religiose interne. Queste pressioni avrebbero preso la forma di una imprescindibile richiesta ai teologi musulmani affinché rintracciassero nel Corano e nella sharia la garanzia che si poteva rimanere buoni musulmani anche godendo dei vantaggi di un governo onesto, e persino di quelli della libertà politica ed economica. In questo modo si sarebbe infine avviato il processo di riforma e modernizzazione della religione islamica.
I democratici del 2004
Gli ostacoli che si frappongono a una positiva trasformazione del medio oriente (militare, politica o religiosa) non sono insuperabili. Nel lungo periodo, possono essere superati e non c’è dubbio che noi possediamo la potenza, i mezzi e le risorse necessarie per farlo. Ma abbiamo anche la capacità e il coraggio altrettanto necessari? Siamo in grado, nella nostra presente condizione, di giocare un ruolo imperiale così limitato e moderato come quello che avevamo esercitato occupando la Germania e il Giappone alla fine della seconda guerra mondiale? Alcuni dei nostri critici nella destra europea ci deridono non, come fa la sinistra, perché siamo degli imperialisti ma perché lo siamo in modo assolutamente maldestro, perché manchiamo della lungimiranza e delle capacità politiche per sovrintendere alla creazione di un governo più disposto alla riforma e alla modernizzazione dell’attuale dispotismo. Confesso che ho serie preoccupazioni sulle nostre capacità, e sul nostro carattere come nazione. E pensando alla nostra lunga storia di disattenzione e passività nei confronti del terrorismo precedente all’11 settembre, temo una ricaduta nell’arrendevolezza, nelle paludi della diplomazia e dell’inutile controllo dei danni. Timori e preoccupazioni come questi sono stati notevolmente approfonditi dagli attacchi sferrati contro la dottrina Bush, diventati addirittura virulenti nel corso della campagna elettorale del partito democratico. Ho già parlato delle mie iniziali preoccupazioni per la possibile diffusione del movimento pacifista dai settori più marginali verso il centro, così come del mio successivo stupore per la rapidità con cui è riuscito a farlo. Mentre negli anni Sessanta ci sono voluti dodici anni ai radicali per raccogliere il partito democratico dietro a George McGovern, il loro erede politico e spirituale del 2001 sembra esserci riuscito in meno di due mesi. Questa volta il leader prescelto era l’iracondo pacifista Howard Dean. Benché alla fine non sia riuscito a ottenere la nomination, i suoi iniziali successi hanno costretto gli altri candidati relativamente moderati a fare una decisiva svolta a sinistra sull’Iraq e a escludere i pochi che ancora sostenevano la campagna militare. Quanto a John Kerry, per vincere la nomination ha dovuto sconfessare il voto con cui lui stesso aveva autorizzato il presidente Bush a usare la forza contro Saddam Hussein. A rendere la situazione ancora peggiore, la campagna di propaganda volta a mettere in discredito l’intervento in Iraq si spostò dalle piazze dei comizi elettorali alle sale del Congresso, dove si camuffò in una serie di udienze apparentemente neutrali. In queste udienze, la più importante delle quali fu tenuta dal Senate Intelligence Committee, alti funzionari dell’amministrazione Bush subirono le prepotenze di legislatori democratici (e persino alcuni repubblicani) in termini che spesso ricordavano quelli usati in molti libri e articoli che accusavano il presidente di averci mentito sulle ragioni che avevano reso necessaria la guerra contro Saddam Hussein. Fu una vera e propria ondata che si abbattè su tutto il panorama politico. Tra le menzogne con cui Bush aveva ingannato Kerry e tutti gli altri americani c’era quella sulle presunte connessioni tra Saddam e al Qaida. Anche coloro che credevano in queste connessioni erano disposti ad ammettere che non c’erano (ancora) prove definitive; ma questo non significava affatto negare che non ci fossero concreti sospetti. E infatti, secondo i rapporti poi pubblicati dal Senate Intelligence Committee e dalla commissione per l’11 settembre nell’estate del 2004 (e diversamente dalle conclusioni che ne hanno tratto i media), al Qaida ha effettivamente avuto dei rapporti di collaborazione, per quanto informali, con alcuni agenti iracheni al servizio di Saddam. Lo stesso vale per un’altra delle bugie che Bush avrebbe detto per giustificare l’invasione dell’Iraq. Nel suo discorso sullo stato dell’Unione nel 2003, aveva detto che "il governo britannico ha scoperto che Saddam Hussein ha recentemente cercato di ottenere significative quantità di uranio dall’Africa". Poi un oscuro diplomatico in pensione di nome Joseph C. Wilson IV, precedentemente inviato in Niger dalla Cia per verificare quest’affermazione, si guadagnò i suoi quindici minuti di gloria (per non menzionare la pubblicazione di un libro bestseller) denunciandola come una bugia. Ma si è poi stabilito che la famosa frase pronunciata da Bush corrispondeva a verità. Fu questa la conclusione del rapporto del Senate Intelligence Committee, di due separate indagini inglesi e di parecchi servizi segreti europei, compresi persino quelli francesi. Per di più, si è scoperto che il rapporto di Wilson per la Cia in realtà sembrava confermare il sospetto che Saddam stesse cercando di acquistare uranio in Africa anziché, come lui aveva dichiarato, smentirlo. Il bugiardo, quindi, non era Bush ma Wilson. Ma, naturalmente, la più grande bugia di cui Bush era accusato era stata quella di dire che Saddam possedeva armi di distruzione di massa. Su questo punto, anche chi sosteneva che le armi di distruzione di massa fossero ancora nascoste o che fossero state trasportate in Siria, o entrambe le cose, era disposto ad ammettere che probabilmente si sbagliava. Ma come avrebbe potuto mentire Bush quando ogni servizio d’intelligence in qualsiasi paese del mondo era convinto che Saddam custodisse un arsenale di queste armi? E come avrebbe potuto esagerare le notizie fornitegli dai nostri servizi segreti quando lo stesso direttore della Cia descriveva il caso come una "pesante schiacciata"? Senza dubbio, sempre secondo il rapporto del Senate Intelligence Committee, il caso, invece di essere una "pesante schiacciata", poggiava su prove scarse e inconsistenti. Tuttavia, lo stesso comitato "non ha riscontratoalcuna prova del fatto che i funzionari dell’amministrazione abbiano cercato di influenzare o mettere sotto pressione gli analisti affinché mutassero la loro opinione sulle armi di distruzione di massa irachene". La Cia, in altre parole, non ha detto al presidente ciò che pensava volesse sentire. Gli disse invece ciò che pensava di sapere; e aveva ogni motivo per credere ciò che gli disse. Dopo la questione delle armi di distruzione di massa, ne sono emerse molte altre che hanno ulteriormente scosso la fiducia di molti che erano stati entusiastici dell’intervento in Iraq. Mentre il numero dei soldati americani uccisi nel tentativo di garantire la sicurezza in Iraq continuava ad aumentare e subito dopo l’orrendo episodio dell’uccisione di quattro cittadini americani e dello scempio dei loro corpi a Fallujah, giunse la notizia che alcuni prigionieri iracheni detenuti nel carcere di Abu Ghraib avevano subito spaventosi maltrattamenti da parte dei loro carcerieri americani. Tra i sostenitori della dottrina Bush, questi rovesci scatenarono una potente ondata di pessimismo e di paura di sconfitta, che furono ulteriormente ingranditi da continui mutamenti di tattica da parte dei nostri strateghi militari (come la decisione di rinunciare a stanare
le milizie terroriste nascoste negli edifici sacri di Fallujah e Najaf). Persino il precedentemente irremovibile Fouad Ajami è rimasto scosso e turbato. In un articolo intitolato "L’Iraq potrà sopravvivere, ma il sogno è morto", ha scritto: "Dobbiamo ammetterlo: l’Iraq non sarà il caso-modello che l’America presenterà al mondo arabomusulmano". Bisognava aspettarsi che tutto questo sarebbe stato immediatamente sfruttato dal partito pacifista, continuando a ignorare completamente gli enormi progressi che avevamo compiuto nel processo di ricostruzione della società irachena. Era anche naturale che i democratici cercassero di sfruttare politicamente questi rovesci. Ma non era per forza necessario che i democratici sarebbero stati disposti ad arrivare fino al punto di confrontare i maltrattamenti e le umiliazioni dei prigionieri di Abu Ghraib (nessuno dei quali è stato mai mutilato, per non dire ucciso) con le spaventose torture e gli orrendi assassinii che erano avvenuti in quella stessa prigione sotto il regime di Saddam Hussein o addirittura nei gulag sovietici, dove erano morti milioni di persone. Eppure è proprio ciò che fece il senatore Edward M. Kennedy dai banchi del Senato, quando dichiarò che la camera di tortura di Saddam Hussein era stata riaperta "da una nuova gestione: quella degli Stati Uniti". E lo stesso fece Al Gore quando accusò Bush "di avere fondato un gulag americano". Al coro dei politici si unì la voce del principale finanziatore della campagna elettorale del partito democratico, George Soros, il quale disse che la vicenda di Abu Ghraib era una cosa ancora più spaventosa degli attentati dell’11 settembre. Quando Soros fece questa disgustosa dichiarazione, aveva al suo fianco il senatore Hillary Rodham Clinton, che non ha battuto ciglio.
I democratici e "Fahrenheit 9/11"
Altrettanto ignobile è stata la risposta dei democratici alla più brillante costruzione demagogica dei radicali pacifisti, il film "Fahrenheit 9/11" di Michael Moore. Poco dopo l’11 settembre, vale a dire molto prima dell’uscita del film (ma molte delle accuse contro Bush presenti nel film erano già state rese note da Moore durante la guerra in Afghanistan), un commentatore di tendenze liberal lo aveva definito un "ben noto stravagante, considerato con disprezzo persino dalla sinistra". Lo stesso commentatore aveva anche bollato come "insensata" l’idea che le opinioni di Moore "rappresentassero un arco significativo dello schieramento padistrucifista". A dare credito a questa tesi era il fatto che lo stesso Moore si era beccato un bel po’ di fischi quando, nel 2003, accettando un Oscar per il film "Bowling at Columbine", aveva dichiarato: "Viviamo in un’era di fittizi risultati elettorali, manipolati per eleggere presidenti fittizi. Viviamo in un’era in cui un uomo ci fa entrare in guerra per motivi fittizi (…). Noi siamo contro questa guerra, presidente Bush. Vergogna, presidente, vergogna" Nel 2004, tuttavia, quando è uscito "Fahrenheit 9/11", le cose erano cambiate. Senza dubbio, questo film (un compendio di tutte le volgarità rivolte contro George W. Bush, più alcune nuove, il tutto messo insieme secondo la migliore tradizione dello "stile paranoico della politica americana") è riuscito a mettere in imbarazzo persino numerosi commentatori liberal. Uno di loro ha descritto il film come un prodotto della "sinistra più balorda" e ha espresso il timore che il suo estremismo potesse mettere in discussione la "legittimità" delle ragioni delle critiche contro Bush e contro la guerra. Tuttavia, con un sorprendente rovesciamento degli schemi tradizionali della prudenza, questi timori di estremismo erano più pronunciati tra gli esperti liberal che tra i politici democratici. Così, un foltissimo numero di importanti democratici si presentò alla proiezione di "Fahrenheit 9/11" che (come ha ricordato spiritosamente il giornalista Mark Steyn) il Congresso non ha potuto fare a meno di organizzare. Al termine del film, nemmeno un fischio dissonante ha disturbato l’armonia degli applausi a scena aperta. Il presidente del Democratic National Committee, Terry McAuliffe, ha proclamato che il film "era molto potente, molto più di quanto avessi immaginato". Quando un giornalista della Cnn gli ha domandato se riteneva che il "film fosse sostanzialmente onesto e basato sui fatti", McAuliffe ha risposto: "Sì, (…) il film dimostra
chiaramente che Bush non è adatto a fare il presidente di questo paese". Il senatore dell’Iowa, Tom Harkin, si è accodato a McAuliffe e ha esortato tutti gli americani a vedere il film: "E’ importante che il popolo americano comprenda ciò che è accaduto prima, ciò che ci ha condotto fino a questo punto, e che lo veda in questa presentazione priva di ritocchi realizzata da Michael Moore".
E’ possibile che altri importanti democratici presenti alla proiezione (tra i quali i senatori Tom Daschle, Max Baucus, Barbara Boxer e Bill Nelson, nonché i parlamentari Charles Rangel, Henry Waxman e Jim McDermott, più vari anziani del partito come Arthur Schlesinger Jr. e Theodore Sorensen) non fossero d’accordo con Harkin e McAuliffe. Ma, anche se fosse così, sono rimasti del tutto in silenzio. Quanto a John Kerry, non ha trovato il tempo per vedere "Fahrenheit 9/11", spiegando che non ce n’era comunque bisogno perché l’aveva "vissuto" lui stesso.
Il 2004 e il 1952
Per tornare al lugubre pessimismo che pervase i sostenitori della dottrina Bush nella primavera del 2004: una delle ragioni fornite da Fouad Ajami era che "i nostri nemici ci hanno preso le misure, si sono resi conto della nostra discordia nazionale sull’opportunità della guerra". Incoraggiati dalle nostre esitazioni a Fallujah e in altri luoghi dell’Iraq, così come dalla nostra disponibilità a fare rientrare nel quadro politico le Nazioni Unite, i nostri nemici avevano ricominciato a respirare, e non soltanto in Iraq: "All’inizio l’Amministrazione aveva parlato di un ‘medio oriente allargato’ dove si sarebbe posto rimedio al ‘deficit’ di libertà, istruzione e diritti delle donne, dove la nostra potenza sarebbe stata impiegata per scardinare il dispotismo dominante nel mondo musulmano". Ma ora, si lamentava Ajami, era diventato evidente che non avremmo affatto "dato la caccia al dittatore siriano" e non avremmo "rovesciato la teocrazia iraniana". C’erano addirittura segnali che, abbandonando completamente il sogno della democratizzazione, ci potessimo accontentare del dominio di un "uomo forte" in Iraq. Quanto erano accurate le misure che il nemico ci aveva preso? Era possibile che la loro precisione fosse alterata dalla surriscaldata atmosfera di una campagna inconsuetamente accesa e combattuta, e dalla prudenza che Bush aveva ritenuto necessario adottare per ottenere la rielezione? Questa mi sembrava allora, e ancora adesso, la questione più importante. Voglio perciò concludere il mio saggio analizzandola, e intendo farlo tornando all’analogia che ho precedentemente individuato tra l’inizio della terza guerra mondiale nel 1947 e l’inizio della quarta guerra mondiale nel 2001. Quando fu enunciata nel 1947, la dottrina Truman fu criticata da molti ambienti. A destra c’erano gli isolazionisti i quali, dopo essere stati messi in disparte dalla seconda guerra mondiale, erano riusciti in qualche modo a tornare alla ribalta all’interno del partito repubblicano sotto la guida del senatore Robert Taft. La loro principale protesta era che Truman aveva impegnato gli Stati Uniti in una politica di infiniti interventi che non avevano un diretto rapporto con il nostro interesse nazionale. Ma all’interno della destra c’era anche una corrente che denunciava la dottrina del contenimento non perché sconsideratamente ambiziosa ma perché troppo timida. (segue da pagina V) Questo gruppo era ancora piuttosto piccolo, ma nel giro di pochi anni avrebbe trovato, nel mondo della politica repubblicana, portavoci come Richard Nixon e John Foster Dulles e, in quello degli intellettuali conservatori, sostenitori come William F. Buckley e James Burnham. All’altra estremità dell’arco politico, c’erano comunisti e alcuni loro compagni di viaggio "liberal" che – rafforzati dalla nostra alleanza con l’Unione Sovietica durante la seconda guerra mondiale – erano emersi quale gruppo relativamente numeroso e avrebbero presto formato un nuovo partito politico sotto la guida di Henry Wallace. A loro giudizio i sovietici avevano maggiori motivi per difendersi da noi di quante ne avevamo noi di difenderci da loro; ed era stato Truman, e non Stalin, a rappresentare il maggior pericolo per "i popoli liberi di tutto il mondo". Ma le critiche piovvero anche dal centro, rappresentato da Walter Lippman, il più influente e autorevole commentatore del periodo. Lippman sostenne che Truman aveva suonato "la carica di una crociata ideologica" con uno scopo addirittura messianico. Nelle elezioni del 1948, Truman riuscì nell’apparentemente impossibile compito di affrontare tutte queste tre sfide (e anche delle altre). Quando, malgrado le previsioni di tutti i sondaggi, riuscì a vincerle tutte, potè finalmente sentirsi investito di un mandato per la realizzazione della sua politica estera. E così avvenne che, sotto l’egida della dottrina Truman, le truppe americane furono inviate nel 1950 per combattere in Corea. "Ciò che una nazione può o deve fare – avrebbe poi scritto Truman – comincia con la disponibilità e la capacità del suo popolo di sopportarne la responsabilità": e Truman riponeva una giusta fiducia nel fatto che il popolo americano fosse pronto a sobbarcarsi il peso della Corea. Anche così, rimase un’opposizione sufficientemente forte all’interno del partito repubblicano tanto da lasciare incerto se il contenimento fosse davvero una politica americana o soltanto quella seguita dai democratici. Questa incertezza fu esacerbata dalle elezioni presidenziali del 1952, quando i repubblicani guidati da Dwight D. Eisenhower si scontrarono contro il successore scelto dallo stesso Truman, Adlai Stevenson, in una campagna caratterizzata da violenti attacchi contro la dottrina Truman da parte del candidato vicepresidenziale di Eisenhower e del suo futuro segretario di Stato John Foster Dulles. Nixon, per esempio, prese in giro Stevenson definendolo un diplomato della "università dei codardi per il contenimento sovietico" diretta dal segretario di Stato di Truman Dean Acheson; mentre Dulles esortò ripetutamente a scartare la dottrina del contenimento in favore di una politica di "intervento" e "liberazione". E tanto Nixon quanto Dulles sottolinearono con forza la loro approvazione della tesi sostenuta dal generale Douglas MacArthur, secondo il quale in Corea Truman si sbagliava a mantenere semplicemente le posizioni invece di continuare l’avanzata, perché, come disse lo stesso MacArthur
con una frase rimasta famosa: "Non c’è nessun sostituto della vittoria". Eppure, quando Eisenhower salì alla Casa Bianca, non toccò neanche un capello della dottrina Truman. Ben lungi dall’adottare una strategia più coraggiosa e più aggressiva, il nuovo presidente pose termine alla guerra in Corea accordandosi sullo status quo ante: in altre parole, proprio in conformità con la dottrina del contenimento. Ancora più rivelatore fu, tre anni più tardi, il rifiuto di Eisenhower di intervenire quando gli ungheresi, apparentemente incoraggiati dalla retorica della liberazione ancora impiegata nelle trasmissioni di Radio Free Europe, si rivoltarono contro i loro padroni sovietici. Nel bene o nel male,
questo episodio tolse ogni rimanente dubbio sul fatto che il contenimento fosse ancora soltanto la dottrina del partito democratico. Con il pieno appoggio di tutti, la dottrina Truman era diventata la politica ufficiale degli Stati Uniti d’America. L’analogia non è ovviamente perfetta, ma le somiglianze tra le battaglie politiche del 1952 e quelle del 2004 sono abbastanza significative per aiutarci a considerare quella che qualche riga fa ho definito la questione in questo momento più importante per gli Stati Uniti. Per formulare la questione in termini leggermente diversi di quelli precedenti: Che cosa accadrà se a novembre i democratici, sotto la guida di John Kerry, batteranno George W. Bush? Prenderanno provvedimenti conformi alle loro violenti critiche contro la politica di Bush oppure, come i repubblicani del 1952 a proposito della Corea, si dimenticheranno tranquillamente delle loro promesse elettorali di appoggiarsi alle Nazioni Unite e agli europei, e proseguiranno sulla strada seguita da George Bush in Iraq? E gettando lo sguardo oltre lo stesso Iraq, adotteranno la dottrina Bush come i repubblicani del 1952 avevano adottato la dottrina Bush? Considereranno l’Iraq soltanto come una battaglia di una guerra più ampia, la quarta guerra mondiale, scatenata dagli attentati dell’11 settembre? Decideranno di continuare a combattere questa guerra con la stessa strategia indicata dalla dottrina Bush per tutto il tempo necessario a vincerla? A giudicare dal modo in cui hanno agito e parlato i democratici, temo che la risposta sia no. E non sono stato minimamente rassicurato dalla sfarzosa esibizione di falchiamo messa in scena durante la loro convention di luglio. Tuttavia, in quanto appassionato sostenitore della dottrina Bush, spero di sbagliarmi. Se John Kerry dovesse diventare il nostro prossimo presidente, cosa del tutto possibile, sarebbe davvero un disastro se decidesse di abbandonare la dottrina Bush e sostituirla con l’approccio legalista già impiegato senza alcun successo per affrontare il terrorismo prima dell’11 settembre, lasciando nello stesso tempo che di tutto il resto si occupino proprio queste due debolissime entità, ossia l’Onu e gli europei. Qualsiasi giustificazione Kerry riuscisse a trovare, questo mutamento di rotta sarebbe a ragione interpretato dai nostri nemici come una vile ritirata e ne deriverebbero dolorose conseguenze. I despoti del medio oriente si sentirebbero ancora una volta liberi di offrire protezione ai terroristi islamici e di rifornirli di cinture esplosive; e questi terroristi riprenderebbero il coraggio per attaccarci, questa volta con una violenza ben maggiore di qualsiasi altra. Se, comunque, i vittoriosi democratici riconoscessero
che la nostra salvezza non giungerà né dagli europei né dalle Nazioni Unite, se accettassero che la dottrina Bush costituisce la sola risposta adeguata alla grande minaccia scatenata dall’11 settembre, allora il nostro nemico non sarà più incoraggiato (certamente non come negli ultimi tempi) dalla "nostra discordia nazionale sull’opportunità della guerra". Nella terza guerra mondiale, nonostante il consenso bipolare che divenne evidente dopo il 1952 (e contrariamente agli annacquati ricordi che se ne hanno oggi), rimase una forte "discordia", e si fecero parecchi passi falsi (in particolare quello del Vietnam) lungo la strada per la vittoria. Ci furono anche momenti in cui sembrava che stessimo perdendo, e quando i nostri nemici sembravano così forti che il massimo che potevamo ottenere sarebbe stato chiedere una pace negoziata. Ora, con la quarta guerra mondiale appena cominciata, assistiamo ad un fenomeno analogo. Nella terza guerra mondiale, l’America in quanto nazione ha saputo persistere nonostante gli inevitabili rovesci ed errori e malgrado il pessimismo da questi provocato fino a che, alla fine, ha ottenuto la vittoria. Per l’America la ricompensa della vittoria è stata l’eliminazione di una minaccia militare, politica e ideologica. Per le popolazioni che vivono all’interno dell’Unione Sovietica e del suo impero nell’Europa orientale, la vittoria ha significato la liberazione da un tiranno totalitario. Senza dubbio, questa liberazione non ha portato immediatamente tutto alla perfezione, ma sarebbe assurdo sostenere che nulla è cambiato in meglio quando il comunismo è stato finito proprio in quel mucchio di ceneri della storia che, secondo Marx, sarebbe dovuto essere il luogo di sepoltura del capitalismo. Supponiamo di riuscire a concludere la quarta guerra mondiale con una buona vittoria. Che cosa significherà questa volta la vittoria? Ebbene, per noi significherà l’eliminazione di un’altra (e per certi aspetti ancora più grave) minaccia alla nostra sicurezza. Ma poiché questa minaccia non può essere eliminata senza una "bonifica delle paludi" in cui si nutre, la vittoria significherà anche la liberazione di un altro gruppo di paesi da una nuova specie di tirannia totalitaria. Come possiamo già capire dall’Afghanistan e dall’Iraq, la liberazione non determinerà la creazione nel giro di una sola notte delle condizioni ideali in medio oriente, esattamente come non lo ha fatto nell’Europa orientale. Ma, come possiamo capire sempre dall’Afghanistan e dall’Iraq, avverranno immediatamente cose positive, e si aprirà un’autentica opportunità per cose ancora migliori. Il ricordo della situazione storica alla fine della terza guerra mondiale suggerisce un altro interessante parallelo con la situazione attuale, all’inizio della quarta guerra mondiale. Siamo venuti a sapere dalle testimonianze di ex funzionari dell’Unione Sovietica che, a differenza delle élite nostrane (che deridevano e disprezzavano l’idea di Reagan, secondo il quale si poteva costruire un utile sistema di difesa missilistica), i russi (compresi i loro migliori scienziati) non avevano dubbi sul fatto che gli Stati Uniti fossero in grado di creare un sistema di questo tipo e che ciò li avrebbe sconfitti. Oggi lo stesso genere di disprezzo è rivolto dallo stesso genere di persone contro l’idea di George W. Bush che il medio oriente possa essere democratizzato, mentre i nostri nemici in quella regione (proprio come i russi a proposito delle "guerre stellari") sono convinti che ci stiamo effettivamente riuscendo. Una prova a questo proposito è offerta dagli avvertimenti lanciati da al Zarqawi ad al Qaida, che ho già citato in precedenza. Ma la sua lettera non è l’unico indizio del fatto che i despoti laici e gli islamofascisti del medio oriente sono profondamente preoccupati per le conseguenze della dottrina Bush. C’è innanzitutto la Libia di Gheddafi, il quale ha ammesso che è stato il suo timore di "essere il prossimo" a convincerlo di rinunciare al suo programma nucleare. E ci sono poi i siriani e gli iraniani. Naturalmente, continuano a lanciare segnali di sfida e a cercare di crearci il maggior numero di problemi possibile; però, con tutto il rispetto per le disilluse speranze di Fouad Ajami, non posso fare a meno di porre questa domanda: perché dovrebbero continuare a mandare in Iraq guerriglieri e armi se non per un ultimo disperato tentativo di far deragliare un processo evolutivo le cui prospettive sono, ai
loro occhi, inaccettabili, e che, come essi temono, con ogni probabilità li spodesterebbe? Questo timore, come dice Ajami, è stato placato dal modo in cui abbiamo finora reagito ai problemi che ci hanno causato. Ma non è certo stato cancellato del tutto, perché è solidamente fondato sulle nuove realtà geostrategiche della regione, createsi sotto l’egida della dottrina Bush. Il professore Haim Harari, già direttore del Weizmann Institute, descrive queste nuove realtà con grande precisione: "Ora che l’Afghanistan, l’Iraq e la Libia sono fuori dal gioco, rimangono ancora due Stati terroristi e mezzo: l’Iran, la Siria e il Libano (che è soltanto una colonia siriana). A causa della vittoria dell’Afghanistan e dell’Iraq, sia l’Iran sia la Siria sono ora completamente circondati da territori nemici. L’Iran è circondato dall’Afghanistan dagli Stati del Golfo e dalle repubbliche islamiche dell’ex Unione Sovietica. La Siria è circondata dalla Turchia, dall’Iraq, dalla Giordania e da Israele. Si tratta di un significativo mutamento strategico, che esercita una forte pressione su questi Stati terroristi. Non sorprende che l’Iran stia cercando con ogni mezzo di provocare un’insurrezione sciita in Iraq. Non so se il piano americano prevedesse davvero l’accerchiamento dell’Iran e della Siria, ma questo è il risultato ottenuto". Infine, c’è l’effetto che la dottrina Bush ha avuto sulle forze che spingono per la liberalizzazione in tutto il medio oriente. Quando Ronald Reagan impiegò la parola "male" in riferimento all’Unione Sovietica, e ne annunciò con fiducia la prossima sconfitta, infuse nuove speranze ai dissidenti democratici che si trovavano dentro e fuori dai gulag. In quei giorni, proprio come avviene oggi per Ajami nei confronti di Bush, alcuni di noi furono quasi colti dalla disperazione quando Reagan sembrò non agire in piena conformità con le sue convinzioni. Quando, per esempio, rispose molto debolmente alla grande crisi polacca del 1982, culminata con l’imposizione della legge marziale, l’editorialista George F. Will, uno dei suoi più tenaci sostenitori, dichiarò infuriato che l’amministrazioe Reagan "adorava più il commercio di quanto detestava il comunismo"; io stesso scrissi un articolo in cui esprimevo la mia "ansia" per la sua politica estera. Eppure, anche se (ancora una volta come nel caso di Ajami oggi) le nostre critiche erano per lo più giuste nel dettaglio, ci eravamo completamente sbagliati circa il risultato finale. Per i dissidenti che vivevano dentro la cortina di ferro le cose furono diverse: avevano ben di meglio da fare che rimanere impantanati nelle questioni di dettaglio e non persero mai il loro coraggio. Lo stesso è avvenuto con la dottrina Bush. Il presidente americano ha creato le condizioni necessarie per far diventare i concetti di riforma e democratizzazione il principale argomento di dibattito in tutto il medio oriente. Dove prima regnava soltanto il silenzio, ora ci sono innumerevoli articoli, discorsi, conferenze, e persino sermoni, dedicati alla causa della liberalizzazione politica e religiosa e ai modi per realizzarla. Come i dissidenti al di là della cortina
di ferro negli anni Ottanta, anche oggi i democratici del medio oriente non perdono il loro coraggio. Nonostante Fallujah e tutto il resto, c’è stato un costante progresso nel peso e nella portata del dibattito riformista, che è stato e continua ad essere ispirato dalla dottrina Bush. Non intendo cadere in esagerazioni. Tranne che in Iran, e forse in un paio di altri Stati musulmani non arabi, i democratici sono ancora un piccolo gruppo, e non sembra ancora essere emerso nessuno con la statura intellettuale morale, e l’influenza politica, di Sakharov, Solzenitsyn o Sharansky. Ma Barry Rubin, direttore del Middle East Review of International Affairs, generalmente molto scettico sulle possibilità di democratizzazione per la regione, ha espresso una valutazione prudente che mi sembra più che ragionevole: "La democrazia e le riforme sono scritte sull’agenda politica del mondo arabo. Ci vorrà una lunga e difficile battaglia per trasformare questi paesi, ma il processo è stato almeno avviato. I liberali sono ancora pochi e molto deboli; le dittature sono solide e la minaccia islamista ostacolerà l’apertura e l’innovazione. Ciononostante, ci sono sempre più persone che cercando di far evolvere la situazione nella giusta direzione". E questo, io vorrei aggiungere (anche se Rubin non lo fa), grazie a George W. Bush. C’è poi Gaza, dove almeno alcuni elementi della ormai mitica strada palestinese hanno per la prima volta espresso apertamente la loro denuncia non di Israele o degli Stati Uniti ma del regime tirannico e corrotto di Yasser Arafat. E, sempre per la prima volta, si leggono sulla stampa araba articoli che chiedono la rimozione di Arafat e la sua sostituzione non con l’alternativa islamista rappresentata da Hamas ma con una nuova forma di leadership. Ecco, per esempio, un articolo uscito su Jordan Times: "Il rapido deterioramento dell’ordine politico interno a Gaza è il riflesso di analoghe piaghe che infestano gran parte del mondo arabo, consistenti nelle tendenze di piccole élite di potere o di singoli individui a monopolizzare il potere politico ed economico per mezzo di un controllo diretto e personale dei sistemi di sicurezza interna e delle forze di polizia. Gaza è soltanto un altro avvertimento sul fallimento del moderno Stato di sicurezza arabo e sul bisogno di una forma di Stato migliore, fondata su diritti individuali sanzionati dalla legge e non sulla protezione armata di regime e su una conservazione perpetua del potere". Ed ecco un articolo del quotidiano kuwaitiano Arab Times: "Arafat dovrebbe lasciare il suo incarico perché è il capo di un’autorità corrotta. Arafat ha distrutto la Palestina. L’ha trascinata nel terrorismo, nella morte e in una situazione disperata". Infine un articolo di Gulf News, un giornale pubblicato a Dubai: "I palestinesi dicono che il loro presidente a vita – Arafat – è il vero problema, insieme ai suoi amici più fedeli, che stanno opprimendo, depredando e impoverendo il proprio popolo. Anche gli arabi hanno qui le loro responsabilità. Possono continuare a sbraitare "Israele" fino a diventare paonazzi, ma questo non toglie il fatto che buona parte della colpa va attribuita ai palestinesi e agli arabi". Secondo un legislatore palestinese citato dal Washington Post, "ciò che sta accadendo nelle strate di Gaza non ha niente a che fare con le riforme. E’ semplicemente una battaglia per il potere". Al contrario, il giornalista di origine iraniana Amir Taheri lo considera un nuovo genere di "intifada, che vuole rovesciare una dispotica tirannia araba". E’ possibile che questi due giudizi, per quanto opposti, contengano entrambi una parte di verità; e in ogni caso è ancora troppo presto per sostenere che non ci sarebbe stata alcuna rivolta contro Arafat, e molti meno discorsi sulle riforme, se non fosse stato per le politiche di George W. Bush, affiancate dalla sua coraggiosa volontà di sostenere quelle adottate da Ariel Sharon.
La chiamata
Nel suo primo discorso sullo Stato dell’Unione, il presidente Bush aveva dichiarato che la storia aveva chiamato all’azione l’America, e che era "una nostra responsabilità e un nostro privilegio combattere la battaglia della libertà"; una battaglia definita anche come "un’opportunità straordinaria da non lasciarsi sfuggire". Ancora lo scorso maggio, Bush ci ha ricordato che "noi non avevamo voluto questa guerra contro il terrorismo" ma che, essendovi stati trascinati, avevamo risposto, e ora stavamo cercando di realizzare la "grande impresa" che "la storia aveva affidato al nostro paese". In queste parole, e soprattutto nei frequenti riferimenti alla storia, possiamo ascoltare un’eco dei paragrafi conclusivi del saggio "X" di George F. Kennan, scritto al momento dello scoppio della terza guerra mondiale: "La questione dei rapporti tra America e Unione Sovietica è in sostanza un banco di prova per verificare se gli Stati Uniti si meritano davvero il posto di nazione tra le nazioni. Per evitare la distruzione, gli Stati Uniti devono soltanto rispettare le loro migliori tradizioni e dimostrarsi degni di essere una grande nazione". Kennan continuava così il suo appello: "Alla luce di questi fatti, un osservatore attento delle relazioni russo.americane proverà un certo senso di gratitudine per una Provvidenza che, esponendo il popolo americano a questa difficilissima sfida, ha fatto in modo che la sua sicurezza come nazione dipenda dalla sua capacità di stare unito e di accettare le responsabilità della leadership morale e politica che la storia ha senza dubbio inteso assegnargli". E’ sufficiente sostituire l’espressione "relazioni russo-americane" con "terrorismo islamico" perché questa magnifica dichiarazione valga perfettamente anche per l’America di oggi. Nel 1947 abbiamo saputo accettare le responsabilità politiche e morali della leadership che la storia aveva "inteso assegnarci", e per i successivi 42 anni abbiamo agito di conseguenza. Forse non abbiamo sempre agito in modo saggio o efficiente, e spesso lo abbiamo fatto soltanto dopo lunghi litigi e discussioni animate. Ma abbiamo sempre agito nel nome di quelle responsabilità. In questo modo abbiamo garantito la nostra sopravvivenza "come
grande nazione", portando nello stesso tempo migliori condizioni di vita a milioni di persone in una fondamentale regione del mondo. Ora la nostra "sicurezza come nazione" (compresa, in modo molto più grave che nel 1947, la nostra sicurezza fisica) dipende ancora una volta dalla nostra volontà e capacità di accettare le responsabilità della leadership politica e morale che la storia ha ancora una volta posto sulle nostre spalle. Siamo pronti? Ne abbiamo la volontà? Io penso di sì, ma la giuria è ancora in sessione, e fornirà il proprio verdetto definitivo soltanto dopo le elezioni del 2004.
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