Il nuovo libro di Fiamma Nirenstein. Gli antisemiti progressisti
coraggioso, lucido, appassionante. Da leggere subito
Testata: La Stampa
Data: 25/06/2004
Pagina: 27
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: Gerusalemme, la banalità del terrorismo
Naturalmente il libro mantiene quel che lascia intendere il titolo. Il nuovo libro di Fiamma Nirenstein - come lo fu il precedente "L'Abbandono"- è una spietata e coraggiosa analisi della situazione mediorentale e delle conseguenze derivate dal terrorismo. Sotto accusa il pacifismo, l'arrendevolezza,la connivenza, la responsabilità della sinistra in merito al risorgere dell'antisemitismo. E un forte richiamo all'Occidente, ivi compresi gli ebrei della diaspora, a non non avere paura di chiamare le cose con il loro nome. Perchè non si tratta più di lecite critiche a questa o a quella poltica dei governi israeliani. Ormai è chiaro, ma non a tutti purtroppo, che in gioco è la sopravvivenza dello stato stesso di Israele. E la parola che è rientrata in gioco è una sola: ANTISEMITISMO. Pronunciata finora quasi chiedendo scusa per l'ardire, bene è ora di finirla con le paure. Chi combatte Israele e ne vuole la distruzione combatte gli ebrei stessi. Ovunque siano, di qualunque stato siano cittadini. La salvezza d'Israele è la salvezza stessa della civiltà occidentale, della democrazia. Chi è contro non è altro che un antisemita.
Sia reso merito al coraggio di Fiamma Nirenstein per aver riportato in superficie, ed avergli dato grande dignità letteraria, un tema che non ce la faceva più ad emergere soffocato com'era dall'ipocrisia del perbenismo progressista. Degli antisemiti progressisti, appunto.

Quello che pubblichiamo è l'estratto scelto dalla Stampa di Torino per annunciare l'uscita del libro. Il meno poltico, il meno storico, quello che meno dà la cifra vera del libro. Non importa, noi ci auguriamo che leggendolo, i lettori della Stampa corrano in libreria per leggersi tutto il libro. Non avranno a pentirsene. Raramente abbiamo letto pagine più lucide, avvincenti, coraggiose.
E' l'invito che rivolgiamo ai lettori di informazione corretta.

GERUSALEMME. Dove ci incontriamo? Dove vogliamo farci queste due chiacchiere sul terrorismo? Dove ci sediamo, ora che hai finalmente deciso di sapere che cosa ho attraversato in questi due anni? No, non solo quello che ho scritto sul giornale, ma anche quello che è accaduto dentro di me, nella mia vita? Bene, troviamoci al caffè Cafit, nella bohème del Quartiere Tedesco, pietre, fiori, ragazze che guardano le vetrine, signore cinquantenni vestite con un poncho rosso, soldati di diciotto anni che ridono con i loro amici mentre aspettano l’autobus. Al Cafit, dove Shlomi, il cameriere, ha portato via dalle spalle del terrorista suicida la borsa piena di dinamite ed è andato a depositarla lontano. Oppure troviamoci al Café Moment, una punta di cristallo in pieno centro, dove il 9 marzo 2002 un terrorista suicida ha fatto saltare per aria i ragazzi e le ragazze seduti ai tavolini: quattordici morti. Possiamo anche sederci in un ristorante semplice, tipico, che ci faccia buoni spiedini e serva hummus e pita a Mahanei Yehuda, il mercato centrale, luogo di almeno quattro attentati con decine di morti, l’ultimo il 12 aprile 2002; altrimenti si può prendere una pizza da Sbarro, poco lontano, dove il 9 agosto 2001 ci sono stati venti morti fra cui una famiglia di cinque persone, tre bambini e i genitori. Se scendiamo poco più in basso, nelle strade pedonali dove si vendono ricordini, non c’è posto dove vorrai sederti: al caffè Bianchini la padrona ha portato fuori con le sue mani la borsa piena di tritolo; in Rehov ha-Nevi’im è saltato per aria un ragazzo di nome Tomer, una guardia di diciannove anni che aveva fermato una vettura sospetta; Tomer quando Rabin è stato assassinato aveva scritto una lettera di disperazione a Leah Rabin, la vedova; a Me’ah She’arim, non pensiamoci neppure, una famiglia intera è stata sterminata insieme agli amici alla fine di una funzione religiosa; all’angolo di ognuno dei vicoli pedonali del centro è saltata per aria una bomba umana, quasi ognuno dei selciati su cui camminiamo è stato cosparso di membra umane senza fine, ragazzi sono morti nelle mani dei soccorritori terrorizzati. Non c’è luogo che non sia stato macchiato dalla strage qui a Gerusalemme, da Gilo alla Collina Francese, da Nord a Sud, da Kiriat Yovel a Talpiot, da Est a Ovest; i numeri delle linee che hai letto sul giornale quando gli autobus sono saltati per aria formavano una cabala mortale senza fine. Perché, in molti, ben finanziati, ben organizzati e sicuri di sé, equipaggiati con cura, hanno voluto (intendo volere, pianificare, immaginarsi soddisfatto il risultato del suo lavoro, puntare al numero più alto possibile) ammazzare bambini che vanno a scuola, vecchi che vanno a far la spesa, nonni e mamme che accompagnano i figli, lavoratori.

I giovani e i bambini sono le vittime privilegiate del terrorismo, le loro fototessere coprono quasi tutti i giorni le prime pagine. Il terrorismo adora triturare i bambini, perché non c’è nulla di più spaventoso per una società che scavare la tomba ai figli, niente di più inverosimile di un padre che, come quello che ha perduto due bambini in Kenya nell’attentato all’Hotel Paradise, ripete singhiozzando alla folla che lo accompagna a seppellirli, mentre un’altra bambina versa in condizioni gravi all’ospedale e anche la madre è in fin di vita: «Non piangete, non facciamogli vedere che soffriamo, siamo più forti di loro, non l’avranno vinta».
Ad Ashkelon, una città povera del Sud, sono andata a trovare la famiglia di Ofir Rahum, uno dei primi ragazzini uccisi dal terrorismo: la sua storia è fra le più strazianti, perché contiene un misto di amore e tecnologia che finisce nelle fauci della più tribale ferocia. Ofir guarda sul computer nella sua stanza ancora decorata dal Gatto Silvestro, e trova un messaggio di una ragazza palestinese più grande, che vive, lei scrive, a Ramallah. Frasi civettuole sempre più spinte; Ofir, che è abituato al massimo a passeggiare con i compagni di scuola per le strade di Ashkelon, decide di rispondere alla ragazza che, sì, è pronto a incontrarla. Così, senza dirlo a nessuno, si mette i vestiti migliori e prende un autobus. Cambia alla stazione centrale di Tel Aviv per Gerusalemme, e la ragazza lo viene a prendere. Il sole è già a metà della sua strada. Ofir non sa dov’è, non è mai stato a Gerusalemme, non capisce neppure che la macchina della ragazza è entrata a Ramallah.
La sua mamma, magra e bianca, ora che di lui non è rimasto altro che la borsa scolastica, restituitale dalla polizia, dice: «Io penso con consolazione che quando la ragazza ha portato Ofir nelle mani dei Tanzim, la macchina si è fermata e gli è stato detto di scendere, mio figlio non aveva ancora capito niente: non dove era, non che la ragazza volesse ammazzarlo, non che quei ragazzi erano là per fargli del male. Deve essere sceso fiducioso, con una sola grande preoccupazione che io spero occupasse la sua mente, distraendolo dalla sua morte imminente: la mamma sarà preoccupata perché è tardi, cosa racconterò quando torno a casa?». Dunque quel magro ragazzo povero non è mai tornato da suo padre e da sua madre e dai suoi due fratelli, il suo computer l’ho visto ancora acceso. Purtroppo qualcuno mi ha anche mostrato le foto del corpo di Ofir. La crudeltà che gli è stata riservata, la violazione del suo corpo bianco di ragazzino non la racconterò in queste righe. Allora, solo allora, cominciai a capire cosa stava accadendo: era il terrorismo, diverso da tutto quanto mi ero mai figurata, la strage programmata di creature innocenti, e quanto più innocenti tanto meglio. Perché terrorizza di più la loro morte, perché noi ne siamo travolti. Io, ad Ashkelon, lo fui.
È una piccola comunità di coraggiosi quella che, guardando i propri figli che escono di casa per andare a prendere l’autobus, vuol sapere che potrebbero non tornare; o che è disposta a superare un autobus perché quando si vive non si può far tardi pensando che potrebbe scoppiare; che al mattino quando ti dà un bacio di saluto e ti dice «Ti voglio bene» sa che potrebbe non avere mai più occasione di dirtelo. Vivere nel terrorismo non significa soltanto aspettare il bum, il suono delle sirene come un inevitabile appuntamento. È una parte minima della vita nel terrore stare all’erta, guardarsi intorno, cambiare le proprie abitudini, vagliare i costi della vita sociale, dei posti affollati: quando vivi nel terrore dopo gli attentati per un po’ non vai più al supermarket, al cinema, al concerto, a guardare le vetrine, non ti fermi a parlare sulla porta della scuola, della palestra, del lavoro, non ti scocci perché ti frugano ovunque, perché stai in coda dappertutto per i controlli di sicurezza, alla posta, in banca, al caffè... Poi ci torni, torni alla tua vita perché è tua, non dei terroristi. Non ti spezzi anche se piangi tutti i giorni, non smetti di parlare di cibo, di vestiti, di invitare gli amici a cena, non cessi neppure di cercare un contatto con quei pochi amici palestinesi che ti sono rimasti. Ma impari la crudeltà umana, e questo ti terrorizza più del pericolo fisico.

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