Arafat uomo di pace
una favola in cui non si può più credere
Testata: L'Unione Sarda
Data: 24/06/2004
Pagina: 1
Autore: Paolo Matta
Titolo: Arafat: «I sardi, pochi ma amici»
Il racconto dell'incontro tra una delegazione di sacerdoti sardi e Yasser Arafat. Il quale "lancia l'ennesimo appello per la pace in Medio Oriente", e anche le sue fantastiche accuse a Israele (l'uso di proiettili all'uranio, un muro alto 9 metri che si estende al ritmo di 1 Km al giorno) prese per buone dai suoi ospiti, tra cui il giornalista autore del pezzo.
Se qualcosa ha allontanato e reso impossibile la pace in medio Oriente sono stati proprio l'incitamento all'odio e il terrorismo promossi dal leader palestinese. Sarebbe ormai tempo di rendersene conto.

Ecco il pezzo:

Il racconto, scritto da Paolo Matta, giornalista di Videolina, è la storia di un incontro tra la delegazione di religiosi da tutte le diocesi sarde e Yasser Arafat. Un documentario del viaggio andrà in onda su Videolina sabato alle 21, per Le feste della pace. Proprio ieri, il primo ministro israeliano Ariel Sharon ha detto che Arafat dovrà stare confinato a Ramallah ancora 45 anni.

Non è di tutti i giorni riprendere una delegazione in Palestina composta da preti della chiesa cattolica, per di più dalla Sardegna. L’appuntamento con Arafat è per mezzogiorno, ma è in forse fino all’ultimo. Non è facile entrare a Ramallah. Con l’operatore Alessandro Nateri, dottor Nabil, rappresentante in Sardegna dell’Autorità Palestinese, Sandro Pecorario (organizzatore della spedizione) e don Franco Murana, parroco di Milis, lasciamo Gerusalemme prestissimo, su una limousine nera della Mercedes. Al primo check-point dobbiamo proseguire a piedi in mezzo a una babele indescrivibile. Tassisti a decine gridano «Ramallah» e offrono i loro gialli pullmini per pochi shekel (moneta israeliana). Una concitata trattativa ed eccoci in un pullmino arabo diretti a Ramallah. In un gigantesco polverone, dove tutti vogliono passare per primi. Non esiste diritto di precedenza: basta vedere le condizioni delle carrozzerie delle auto. Secondo un costume locale, poi, tutti suonano il clackson. La periferia di Ramallah è desolante, ma nelle colline che si aprono dietro i vetri luridi si intravedono belle abitazioni, qualche villa, persino del verde. Testimonianze di un benessere che la seconda intifada si è mangiato in pochi anni.
Siamo attesi al palazzo presidenziale. Entriamo nel bunker. Superata la soglia, prima di due strette rampe di scale, la raggelante visione di una piccola sala operatoria, pronta all’occorrenza, come l’ambulanza vicino all’ingresso. Anche per le scale, sacchetti di sabbia sparsi dovunque. Arafat è sulla soglia della stanza ad accoglierci, uno ad uno. Gli confermiamo la nostra visita come ambasciatori di pace, nonostante rappresentanti di una terra che conta un milione e 600mila abitanti. «Non importa il numero - interrompe subito -. L’importante è che siate venuti in questo momento del bisogno: è in questi frangenti che si vede chi è amico sul serio». L’incontro non deve superare i dieci minuti, siamo avvertiti. L’anziano leader è reduce da altri quattro incontri, tra gli altri, con il mediatore americano Zinni. Ma è comunque un fiume in piena. Tira fuori dal suo archivio documenti e foto: la statua della Madonna a Betlemme colpita da 13 bombe israeliane, la chiesa di Santa Barbara - «La più antica nel mondo» - fatta saltare in aria.
«Perché la comunità internazionale si è giustamente indignata per la distuzione delle gigantesche statue dei Buddha ad opera dei talebani - chiede - e nessuna voce si alza in difesa di Betlemme, per la prima volta nella sua millenaria storia separata da Gerusalemme, annicchilita da un osceno muro, alto nove metri, che cammina alla velocità di un chilometro e mezzo al giorno e si è mangiato quasi il 60% del territorio dei palestinesi, prigionieri di Israele, rinchiusi in città-penitenziari?». La denuncia più forte è sulle armi di distruzione di massa, mai trovate in Iraq, causa del conflitto. «Ci sono due rapporti, uno americano, che dimostrano come Israele da almeno 3 anni usi contro i palestinesi armi all’uranio. Perché nessuno parla? Registriamo lo stesso tasso di tumori di Hiroshima e Nagasaki, la sterilità è aumentata, ma nessuna reazione da parte del mondo occidentale. Dov’è la comunità internazionale?». I dieci minuti sono passati da un pezzo. Arafat parla di vicinanza con il mondo cattolico, suggellata dalla sua udienza con il Papa. Forse perché anche quella doveva durare pochi minuti. «Ma quando entrò un addetto della segreteria - ricorda il leader palestinese - il Papa gli fece cenno di non disturbare». La delegazione della Sardegna consegna ad Arafat un cofanetto in legno intarsiato con dentro poche parole: «Con la guerra tutto si distrugge, con la pace tutto è possibile».
Arafat chiede che venga fatto entrare l’operatore e ai microfoni di Videolina, che si riceve nel Muqatà, lancia l’ennesimo appello per la pace in Medio Oriente. «Muovetevi al più presto perché venga messa fine alle sofferenze del popolo palestinese e venga salvaguardato il diritto alla pace. La vostra presenza - dice - è fondamentale perchè ci dice che i cristiani non ci abbandoneranno ma continueranno a visitare i Luoghi Santi, perché la loro fede è più forte delle guerre degli uomini. E il popolo palestinese non smetterà di lottare per la difesa della pace». Ci alziamo. Arafat ha per tutti una stretta di mano, un flash e un sorriso.
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