Israele ai vertici della ricerca scientifica mondiale
nonostante la mancanza di fondi e l'intifada
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Data: 10/05/2004
Pagina: 9
Autore: Eliasbetta Rosaspina
Titolo: Israele, molta ricerca poco sviluppo
Nel supplemento economico del lunedì del Corriere della Sera viene pubblicato un interessante articolo sulla ricerca scientifica israeliana, che, pur essendo ai primi posti a livello mondiale, non trova sufficienti fondi. Ecco il pezzo.
Un po’ come la storia della penicillina, spiega Menachem Rubinstein, al dipartimento di Genetica molecolare dell’Istituto Weizmann di Rehovot: «Scoperta in Inghilterra da Fleming, è stata sfruttata in Italia. Così funziona anche la biotecnologia in Israele. Puoi essere molto creativo, ma i soldi arrivano dalla produzione. All’estero». Il nocciolo della questione è qui,k per il rammarico degli archimedi israeliani: le loro trovate, spesso tra le più geniali apparse nelle riviste internazionali, come Nature, finiscono per arricchire i giganti della farmaceutica straniera. Almeno finché non nascerà una Big Pharma anche nella giovane e ingegnosa «terra di latte e miele», in grado di sobbarcarsi spese per milioni di dollari e una dozzina di anni per trasformare un’istituzione in un prodotto di consumo. Missione impossibile per le oltre 160 imprese israeliane attive nel biotech.
Fra vent’anni, probabilmente, resterà tutt’al più la gloria all’èquipe di ricercatori di Ehud Shapiro, che nei laboratori del Weizmann lavora ai futuribili, invisibili «computer biologici molecolari»: micro-oncologici che, iniettati nel corpo, vanno a caccia di cellule cancerogene, le identificano e le distruggono. Ogni computer molecolare, composto di enzimi e Dna sintetico, è in grado di diagnosticare un solo tipo di tumore, ma in una goccia d’acqua ce ne sono milioni. Il tutto per ora funziona solo in provetta: ci vorrà ancora molto tempo, e soprattutto denaro, perché le molecole intelligenti possano operare in un corpo vivente.
Non intende invece accontentarsi della fama e dei premi internazionali la professoressa Michal Schwartz, che nel dipartimento di Neurobiologia ha già ottenuto significativi risultati sui topolini con il suo vaccino per stimolare la partecipazione del sistema immunitario al recupero delle lesioni del midollo spinale e contro le malattie neurodegenerative, dall’Alzheimer al Parkinson: «Ho ribaltato il principio della mens sana in corpore sano –semplifica la scienziata-. Noi abbiamo scoperto che il sistema immunitario controlla il cervello e ha un ruolo importante nella cura di malattie ritenute finora irreversibili. Quando ho capito che ero sulla buona strada, mi sono messa personalmente alla ricerca di un’azienda che potesse sviluppare i prodotti derivati dalla nostra ricerca». Ne è nata così una bio-società. Proneuron, che ha cuore (le ricerche della Schwartz), e cervello strategico (il direttore esecutivo, Nir Nimrodi), in Israele. E portafogli nello Stato del Delaware. Non è questa la regola nei rapporti fra ricerca e industria, in Israele. Solo il prestigio e il peso del Weizmann riescono talvolta a correggere il destino di un Paese che ha più idee che risorse per metterle in pratica: «Abbiamo dimostrato che si può prolungare l’efficacia di un farmaco anche di 10 volte riducendone la somministrazione –informa Rubinstein-. Ma non riusciamo a trovare un’azienda in grado di sviluppare l’idea. D’altra parte sono decisioni da centinaia di milioni di dollari». La prudenza imprenditoriale non mina la buona salute della ricerca israeliana, che importa cervelli da tutto il mondo, Italia inclusa. Tra le 2.000 menti che lavorano al Weizmann, 15 dottorandi e ricercatori sono italiani. Elisabetta Boaretto, padovana di Montegrotto, associate staff scientist al dipartimento di Scienze ambientali, è arrivata in Israele dopo la laurea in Fisica nucleare. Ora è responsabile di alcuni programmi di studi per il Centro di scienze archeologiche. «Fare ricerca in Israele –dice- è molto più facile che in Italia, dove se non sei finanziariamente sponsorizzato puoi solo sperare nei concorsi o che non ci sia già qualcun altro destinato al posto cui aspiri. In Italia non c’è più competitività. I finanziamenti a pioggia, qualcosa per tutti, non favoriscono l’avanzamento dei progetti più meritevoli».
Israele ha individuato da poco i suoi filoni di eccellenza nell’elettronica e nell’informazione: telecomunicazioni, software, sistemi di difesa. «L’hi-tech rappresenta il 57% della produzione industriale e oltre il 50% dell’export industriale –illustra Yair Amitay, direttore del Centro per la Ricerca e Sviluppo dell’industria israeliana, che cura programmi a sostegno do progetti tecnologici presentati dalle imprese-. Israele ha il più alto indice mondiale di laureati e di forza lavoro scientifici: 140 per diecimila». Ma il punto critico resta sempre il passaggio dall’innovazione alla produzione commerciale, che rende Israele dipendente da patti di collaborazione con Paesi europei, Usa ed Estremo Oriente. I fondi pubblici coprono fino al 23% della spesa israeliana in ricerca. Per il resto bisogna fare affidamento sull’industria privata e sui governi stranieri.
«La nostra forza è il capitale umano –reputa l’economista Manuel Trajtenberg, una delle massime autorità in maniera-. Abbiamo ottimi scienziati, tecnici e ingegneri, molti preparati alla scuola dell’intelligence militare. Siamo in grado di trasferire la tecnologia più sofisticata della difesa a usi civili e medici, come le pillole che fotografano l’intestino, derivate dall’ingegneria missilistica. Ma non riusciamo a trattenere i guadagni della ricerca biotecnologia in Israele, e questo è un problema ancora senza risposta. Ma anche un vantaggio, nell’era della globalizazione: un’economia aperta. Un modo per non isolarci».
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