Benny Morris, finalmente parla chiaro
e a una certa sinistra la cosa non va giù
Testata:
Data: 06/05/2004
Pagina: 35
Autore: Davide Frattini - Susanna Nirenstein- Giuliano Ferrara
Titolo: Servizi sullo storico Benny Morris
Benny Morris, la star dell'odio anti-Israele, il revisionista letto e citato da tutti i no global-cattocomunisti-verdi, è caduto in disgrazia. La sinistra l'ha abbandonato. Sarà perchè da quando è scoppiata la guerra tre anni e mezzo fa Morris si è trovato in pieno terrorismo e ha cambiato alcune delle sue posizioni. E' appena uscito "1948" (Rizzoli), il suo ultimo libro, nel quale ha aggiornato parecchi suoi giudizi. Noi, che per caso l'abbiamo intervistato a Gerusalemme ancora prima che lui scrivesse il famoso articolo sul GUARDIAN, apprezziamo la sua nuova linea. Dalla cattedra all'Università di Beer-Sheva alla realtà delle bombe che ti esplodono sotto casa. La realtà appare molto più chiara.
Pubblichiamo la recensione di Davide Frattini dal Corriere della Sera e l'intervista di Susanna Nirenstein da Repubblica.
Due parole sulla trasmissione 8 e mezzo di ieri sera. Bravo e chiaro come sempre Giuliano Ferrara, che ha messo in luce le patetiche posizioni della Morgantini,rifondarola comunista, sulla quale non sprechiamo parole. Ottimo l'intervento di Giorgio Israel che ha contribuito a chiarire i termini della questione. Dieci e lode a Benny Morris per come ha saputo far capire agli ascoltatori le motivazioni del suo percorso storico politico.

"E la «colomba» Benny Morris non crede più alla pace" di Davide Frattini, pagina 35, CORRIERE DELLA SERA

Ricorda ancora i volti delle vecchie palestinesi e quello che gli raccontarono. Di come tra il 1947 e il 1948 le loro famiglie furono costrette a fuggire dal villaggio di Al Bassa, nel Nord della Galilea. Nel 1982 Benny Morris lavorava in Libano come giornalista ed era la prima volta che entrava in un campo rifugiati, Rashidiye, vicino a Tiro. Quelle storie e le fotocopie annerite che agli inizi degli anni Ottanta cominciarono a uscire dagli archivi militari alla periferia di Tel Aviv lo spinsero a indagare su una delle questioni sempre al centro del conflitto arabo- israeliano: i 700 mila palestinesi che negli anni di guerra dovettero abbandonare le loro case.
Le ricerche e le quattrocento pagine di The Birth of the Palestinian Refugee Problem , pubblicato nel 1988, hanno inaugurato la « nuova storiografia » israeliana. Che si proclama post- sionista e vuole riesaminare i miti fondanti dello Stato ebraico: il libro affronta le responsabilità individuali e nazionali che portarono a quell’esodo di massa, che gli arabi chiamano e ricordano come la nakbah , la « catastrofe » . Morris accusa le truppe israeliane di crimini di guerra, elenca casi di massacri contro i civili, episodi di violenza carnale. Ma non arriva a sostenere che gli israeliani avessero progettato un piano sistematico di espulsione. E imputa la fuga dai villaggi palestinesi anche ai leader degli Stati arabi: incoraggiarono l’esilio volontario per sfruttarlo come propaganda e giustificare il loro intervento armato.
Le indagini di Morris sono rimaste incomplete fino a quando i documenti israeliani sul periodo 1947- 48, riservati per cinquant’anni, sono stati declassificati e resi pubblici. Questi nuovi studi arricchiscono i tre saggi storici di 1948. Israele e Palestina tra guerra e pace , pubblicato adesso in Italia, edizione « rivisitata » del libro del 1988.
Ma quello che Morris a 54 anni ha deciso di rivisitare sembrano soprattutto le sue posizioni politiche. I quattro capitoli che più hanno fatto discutere in Israele — la destra è arrabbiata per quello che ha scritto in passato, la sinistra non gli perdona quello che dice nel presente — raccontano un processo intellettuale cominciato nel 2000: « Sono stati il rifiuto, da parte della leadership palestinese, delle proposte Barak- Clinton, l’avvio dell’intifada e la richiesta dell’accettazione israeliana del ' diritto al ritorno' dei rifugiati che mi hanno persuaso che i palestinesi, almeno in questa generazione, non vogliono la pace » .
Un’evoluzione che porta Morris il refusnik
del 1988 — nel libro è presentato il diario delle tre settimane passate in carcere per essersi rifiutato di prestare servizio come riservista nei territori occupati — a scrivere sedici anni dopo: « Mi sembra di sentirmi un po’ come quei viaggiatori occidentali che, nel 1956, furono bruscamente svegliati dal rumore dei cingoli dei carri armati sovietici che occupavano Budapest (...)
La ragione principale del mio pessimismo sull’attuale crisi mediorientale è la figura di Yasser Arafat (...) Invece di informarli accuratamente sulle offerte israeliane di pace, i media controllati dall’Autorità hanno sottoposto i palestinesi a un continuo bombardamento di menzogne e propaganda anti- israeliana.
Arafat si è perfezionato ad arte nella pratica di dire una cosa agli occidentali e raccontarne un’altra, ben diversa, ai suoi elettori » . Morris ha scontentato chi lo considerava un paladino della causa palestinese anche con un’intervista al quotidiano liberal « Haaretz » del 9 gennaio, intitolata La sopravvivenza dei più forti , dove spiegava la sua posizione sulle espulsioni del 1948. « Ci si potrebbe domandare — scrive lo storico nell’introduzione — che cosa farebbe in una situazione simile Ben Gurion, potesse tornare in vita in qualche modo, visto che probabilmente nel 1948 avrebbe voluto architettare un esodo completo piuttosto che parziale, anche se si tirò indietro all’ultimo momento. Forse oggi rimpiangerebbe la sua moderazione. Se fosse andato dritto, forse oggi il Medio Oriente sarebbe un posto più fiorente, meno violento, con uno Stato ebraico dalla Giordania al Mediterraneo e uno Stato palestinese in Transgiordania » .
"Israele senza uscita" di Susanna Nirenstein, pagina 39, LA REPUBBLICA
Lo strano caso di Benny Morris. Da obiettore del servizio militare nei territori occupati durante la Prima Intifada e sostenitore accanito degli accordi di Oslo a nemico totale di Arafat. Da principale esponente della corrente dei nuovi storici israeliani che - con Vittime e The Birth of the Palestinian Refugee Problem (1947-49) - ha di fatto accusato la leadership del neonato stato ebraico di aver pianificato l´espulsione dei palestinesi a sostenere che «non c´era altra scelta» e che, anzi, Ben Gurion ebbe il solo torto di non «finire il lavoro» separando per sempre la presenza araba da quella ebraica, fino a non escludere che questa operazione vada fatta in futuro. Ora è qui a Roma, e nei giorni prossimi a Torino alla Fiera del Libro, per presentare un nuovo volume (1948/Israele e Palestina tra guerra e pace, Rizzoli, pagg.441, euro 19) collage di scritti e ricerche che, sebbene non in ordine temporale, dà il senso del suo pensiero, ieri ed oggi.
Professor Morris, si rende conto che in Europa lei è diventato così famoso per aver sostenuto l´esistenza di un peccato originale alla base della nascita di Israele? E che quel "peccato" per i palestinesi e certa sinistra no-global giustificherebbe la negazione del diritto alla vita dello Stato ebraico?
«No, non ho indicato un peccato originale di Israele. I miei studi, al contrario, mi hanno fatto capire che Israele espulse circa 700.000 palestinesi perché non aveva altre scelte».
In che senso?
«Perché gli arabi non accettarono lo stabilirsi dello Stato ebraico come aveva decretato l´Assemblea delle Nazioni Unite. E l´attaccarono prima con la ribellione interna poi con cinque eserciti. Se non li avesse estromessi avrebbero reso impossibili le operazioni di difesa e più tardi sarebbero stati una quinta colonna dentro il paese».
Alcuni nuovi storici però, come lei ricorda nel libro, sostengono che la volontà di pace di Israele non fu così limpida in quel momento.
«I sionisti accettarono la partizione, lo fece Weizmann, lo fece Ben Gurion, su questo non ci sono dubbi. Ma dal momento che furono attaccati - e bisogna ricordare che in quella guerra morì ben l´1 per cento della popolazione ebraica (per l´America l´1 per cento equivarrebbe a 2.900.000 persone), si modificò qualcosa: di fronte a una minaccia esistenziale non rimaneva che battere i nemici e pensare all´espulsione».
Anzi, lei in un´intervista su Ha´aretz ha sostenuto che Ben Gurion ebbe il torto di non portare a termine il lavoro, che doveva espellerli tutti.
«Senz´altro l´area ora sarebbe più pacifica se gli arabi avessero ributtato in mare gli ebrei o se Israele avesse spinto tutti i palestinesi in Transgiordania».
Non è troppo cinico?
«No, sono uno storico, è un´affermazione realistica, non emotiva né sentimentale».
E oggi, anche oggi le sembrerebbe una buona soluzione il transfer dei palestinesi per riportare la pace?
«No, oggi sarebbe immorale e irrealistico. Ma se Israele fosse nuovamente sotto una minaccia esistenziale, se ci fosse una guerra totale dei paesi arabi contro Israele, se avessero armi di distruzione di massa, allora sarebbe nuovamente realistico e morale parlarne».
Professore sinceramente non crede che i suoi libri abbiano avuto un accento diverso da quello che usa adesso?
«La gente ha frainteso il tono. Toccavo dei punti delicati da cui Israele non emergeva del tutto puro. Solo questo, e invece mi hanno dato dell´antisraeliano, del filopalestinese. Non era così, facevo lo storico».
Oggi cambiarebbe qualcosa di quei libri?
«Sta per uscire anche in Italia con Einaudi la versione rivista di The Birth of the Palestinian Refugee Problem. La revisione, dovuta a nuovi materiali degli archivi militari, paradossalmente aumenta le colpe sia palestinesi che israeliane. Da parte ebraica ho trovato più uccisioni ed espulsioni, ma da parte della leadership araba risultano più appelli alla popolazione palestinese ad abbandonare i villaggi e dunque maggiori responsabilità nel fenomeno profughi di quanto mi risultasse prima».
Qual è la differenza tra il primo e il secondo Benny Morris?
«Mi considero sempre un uomo di sinistra, nel senso che sono per la soluzione due stati per due popoli. Considero valide le proposte di Clinton e Barak a Camp David, quelle che Arafat ha rifiutato. Ma ora sono convinto che i palestinesi non aderiscano a questa soluzione, che vogliano tutta la Palestina, come fecero nel ´37 di fronte alle proposte di partizione della commissione Peel, a quelle del ´47 delle Nazioni Unite. Il rifiuto è lo stesso con cui Arafat ha rigettato la pace di Barak, lanciando una guerra che non è una guerra di liberazione territoriale, ma contro l´esistenza stessa dello Stato ebraico. E´ una strategia per stadi. E´ la stessa linea di Hamas e della Jihad. L´ostacolo di Camp David fu apparentemente il diritto al ritorno dei profughi: è sintomatico, perché è evidente che se tornassero 4 milioni circa di palestinesi ora all´estero, Israele sarebbe distrutta».
E il processo di pace di Oslo allora cosa è stato?
«Una commedia, pianificata secondo le regole occidentali per poi procedere, come ho detto, per stadi alla conquista di Israele. Arafat non ha mai creduto di voler convivere con Israele. C´è qualcosa di simbolico in quel che Arafat disse a Clinton del Monte del Tempio di Gerusalemme, dove sopra ci sono le due moschee e sotto i resti del tempio ebraico, compreso il Muro del pianto. Quando Clinton gli prospettava ponderate soluzioni di accordo, lui rispondeva - "Tempio? Quale Tempio?". Di quella collina in sé a me non importa niente, ma il discorso di Arafat rivela quanto voglia negare ogni legame tra il popolo ebraico e la Palestina».
C´è ancora una possibilità di pace?
«Dipende dai palestinesi. Gli israeliani sono pronti alla soluzione dei due stati. Non c´è sondaggio che non lo affermi».
E´ d´accordo con il ritiro unilaterale di Sharon?
«Sharon non ce la farà senza l´appoggio del suo partito»
E con la "barriera", il "muro"?
«Fu concepito dalla sinistra per fermare i terroristi suicidi, e dove è stato costruito ha funzionato. Ma certo hanno ragione a dire che "politicamente" stabilisce una frontiera: d´altra parte Israele è stata costretta a farlo dalle bombe che esplodevano ogni giorno. E´ giusto sia stato fatto».
Non è "inumano"?
«I palestinesi devono dare la colpa solo a se stessi se è stato costruito. E´ un´intera società che manda centinaia di persone ad ucciderci».
Che ne dice degli omicidi mirati?
«Questa è una guerra, e quelli sono i generali dell´esercito nemico. In ogni guerra uccidere i generali nemici è legittimo».
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