Numero speciale dedicato allo sceicco del terrore
articoli, analisi, commenti sul dopo Yassin
Testata: Il Foglio
Data: 23/03/2004
Pagina: 1
Autore: giornalisti vari
Titolo: L'uccisione di Yassin
Un numero speciale quello del Foglio di oggi, quasi interamente dedicato al caso Yassin, con analisi su Israele, Medio Oriente in generale e sulle possibili conseguenze e scenari dopo l'eliminazione dello sceicco del terrore.
Li riportiamo integralmente con i titoli con i quali sono stati pubblicati. Un plauso meritato al Foglio diretto da Giuliano Ferrara.

Dalla prima pagina:

"L'uccisione di Yassin è il primo passo del ritiro unilaterale di Sharon" - Con una mossa rischiosa, Gerusalemme accelera il piano per lasciare i Territori. Le strategie, gli strumenti e gli obiettivi.

La strategia del governo Sharon per favorire la soluzione del conflitto con i palestinesi e il mondo arabo si basa su tre pilastri – l’antiterrorismo, il ritiro da Gaza e Cisgiordania, la diplomazia – e su una forte dose di unilateralismo convinto e almeno in parte obbligato. L’uccisione del leader di Hamas, Ahmed Yassin, è un evento che contiene tutti gli aspetti della linea Sharon. E’ un’operazione di antiterrorismo perché Hamas è il gruppo che ha organizzato e rivendicato quasi tutti gli attentati della lunga seconda Intifada fino a quello di Ashdod che se fosse riuscito del tutto, colpendo l’obiettivo: depositi di sostanze chimiche, avrebbe avvelenato una città e provocato una strage senza precedenti. Perché Hamas ha di recente valicato un’altra linea rossa, passando dall’indottrinamento dei giovani (fino alla scelta del martirio assassino) all’utilizzo di un bambino di 12 anni per il trasporto di esplosivo. Perché Hamas collabora sempre più con le Brigate dei Martiri di Al Aqsa, gruppo legato ad al Fatah, il partito di Yasser Arafat. Perché Hamas ha una sola prospettiva dichiarata: la distruzione d’Israele, e risulta dunque impossibile per qualunque premier di Gerusalemme immaginare un’alternativa alla forza. Il governo israeliano ha più volte ribadito che per fermare il terrorismo bisogna colpire uno a uno i suoi capi, i suoi organizzatori, i suoi ideologi, i suoi finanziatori. Oltre alle uccisioni mirate e alle azioni d’intelligence per scongiurare attentati, le altre due iniziative che Sharon considera fondamentali in questo campo sono la barriera di difesa e il contestuale ritiro unilaterale dai Territori. L’uccisione di Yassin è legata al piano di ritiro da Gaza e Cisgiordania. Per due ragioni. La prima: Israele ricorda il precedente del governo laburista di Ehud Barak che ordinò il ritiro dal Libano del Sud, ma la decisione fu interpretata ed esaltata da Hezbollah e dai palestinesi radicali come un segno di debolezza di Gerusalemme che non ottenne nulla dal punto di vista diplomatico, ma diede ai gruppi armati una carta per la propaganda tesa a raccogliere nuove forze e illusioni di successo per la causa del terrorismo. Sharon non vuole creare una situazione analoga e man mano che procede con il piano di ritiro dai Territori vuole dimostrare che la scelta di lasciare Gaza e Cisgiordania dipende da un desiderio di favorire una soluzione del conflitto e non da una carenza di successi militari. La seconda ragione può apparire paradossale, a prima vista. L’uccisione di Yassin provoca scontri e violenze subito e nel breve periodo, ma può servire a scongiurare una guerra civile o il caos nei Territori. Un’analisi più azzardata può arrivare perfino a dire che sia un aiuto dato alla debole classe dirigente dell’Autorità palestinese. Hamas, infatti, da tempo si rafforza in termini di consenso interno e di risorse esterne, ai danni della screditata, anche in patria, leadership di Arafat e del suo premier del momento, prima Abu Mazen, poi Abu Ala. I messaggi Che succede se Israele si ritira? Anarchia o trionfo di Hamas, sono le due previsioni più pessimiste e probabili. L’Anp si riforma e governa con l’aiuto dei vicini arabi, Egitto soprattutto, sono le due previsioni meno probabili e più ottimiste. Israele, eliminando Yassin, spera di favorire la seconda e più ottimista prospettiva. Hamas di fatto già controlla, dal punto di vista militare e sociale, Gaza e parti della Cisgiordania. Al Fatah, ammesso che l’intreccio-alleanza con Hamas non sia già consolidato, dovrebbe auspicare, almeno segretamente, un indebolimento del gruppo di Yassin. La cui uccisione peraltro, dal punto di vista d’Israele, ha anche obiettivi "diplomatici". Gerusalemme segnala agli Stati Uniti che il piano di ritiro unilaterale va avanti e non può essere troppo legato alle scadenze elettorali americane. Agli europei Sharon manda a dire che con i terroristi non c’è tregua possibile. Ai vicini arabi, invece, arriva il richiamo a prendere sul serio la prospettiva di un’Anp libera e dunque a rischio caos. Con l’Egitto, del resto, a parte lo stop ai colloqui di ieri, Israele ha sempre tenuto e tiene aperti i canali di comunicazione ufficiali e non. Che poi una buona dose di unilateralismo sia indispensabile per Israele lo si può dedurre da dieci anni di processo di pace fallito, da tre anni e mezzo d’Intifada, da due premier bruciati sulla via della road map, dal fatto che sono gli israeliani a vivere ogni mese l’11 marzo di Madrid e sono gli israeliani ad avere il diritto di difendersi.
"I sermoni di Jihad" - Così in tv gli imam di Hamas chiedono ai palestinesi di trasformarsi in bombe umane.
Milano. Il 22 marzo del 2002, dagli schermi della tv dell’Autorità palestinese, sheikh Ahmed Abdul Razeq predicava: "Il musulamano fu creato per morire per Allah! Il credente fu creato per conoscere il suo Signore e per sostenere l’Islam, per essere un martire o voler essere un martire. Se il musulmano non desidera il martirio, morirà come nella jiayllhyya (politeismo pagano pre-islamico, nda). Noi dobbiamo desiderare il martirio, chiederlo ad Allah. Se noi lo chiediamo sinceramente ad Allah, Egli ci garantirà la sua ricompensa persino se moriremo nel letto! Allah ha impresso nella nostra gioventù l’amore per il jihad, l’amore del martirio! I nostri giovani si sono trasformati in bombe, essi si fanno saltare in mezzo agli ebrei giorno e notte!". Poco più di un mese prima dell’attacco alle Torri gemelle, il 3 agosto 2001, sempre sulla tv palestinese, l’emiro Muhammad Ibrahim Madi recitava il suo sermone: "Il mio spirito si elevò quando un giovane mi disse: ‘Oh sheikh, ho quattordici anni, ancora quattro anni e poi mi farò saltare tra i nemici di Allah, mi farò saltare tra gli ebrei’. Gli dissi: ‘Oh ragazzo, che Allah ti faccia meritare il martirio e mi faccia meritare il martirio!". Tutte le armi devono essere puntate sugli ebrei, i nemici di Allah, nazione maledetta nel Corano, che Allah descrive come scimmie e maiali, adoratori del vitello e degli idoli! Nulla li scoraggerà tranne il colore del sangue nella loro sporca nazione, a meno che non ci facciamo saltare in aria, con la nostra volontà e come nostro dovere, in mezzo a loro!". Queste prediche, raccolte da Carlo Panella nel libro "I piccoli martiri assassini di Allah", raccontano la "nuova teologia di morte che si è imposta in Palestina" dal 1994 in poi, ma era stata elaborata dall’ayatollah Khomeini, leader della rivoluzione islamica in Iran nel 1978. Nessuno spazio per una logica di "pace contro territori", dunque. Dagli imam dei sermoni di Hamas, come dallo statuto dell’organizzazione, si capisce bene che nessuna mediazione è possibile. La comunità musulmana – secondo Hamas – non può accettare che gli ebrei costituiscano uno Stato là dove regnava il califfato. E’ un atto di fede. La politica e la diplomazia non possono interferire con un atto di fede, possono soltanto essere usate per creare le condizioni migliori, perché la guerra santa, il jihad, che è imperativo condurre, si svolga nelle condizioni migliori possibili.
"Il mega attentato" - Perchè l'attacco di Ashdod ha segnato un punto di svolta nelle operazioni di antiterrorismo.
Gerusalemme. Il gabinetto di sicurezza israeliano ha deciso di eliminare i capi delle organizzazioni terroristiche in seguito all’attentato di Ashdod, di domenica 14 marzo, rivendicato da Hamas e Brigate dei Martiri di al Aqsa. Come ha scritto il Foglio mercoledì 17 marzo: "I servizi di sicurezza hanno proposto reazioni forti, dure, come non si vedevano da tempo nei Territori palestinesi. I servizi sostengono infatti che più si parla dell’intenzione del premier Sharon di lasciare Gaza più crescono i tentativi dei terroristi palestinesi di colpire Israele. L’esercito di Gerusalemme ha deciso di riprendere le operazioni tese a colpire i membri di Hamas". Dopo l’attentato di Ashdod, Ariel Sharon ha chiamato il capo di Stato maggiore, Moshe Ya’alon, e gli ha ordinato di seguire tutti i movimenti dei leader dei gruppi terroristici. I servizi segreti hanno considerato l’attentato un successo degli aggressori. La reazione dell’opinione pubblica israeliana è stata analoga. Nell’attacco sono morte 11 persone. Gli attentatori suicidi, che sono riusciti a infiltrarsi in un luogo strategico, un porto fra i più importanti del paese, avrebbero potuto causare una strage di dimensioni inaudite. L’attentato avrebbe potuto segnare una svolta nella realtà mediorientale. Nell’area del porto ci sono tonnellate di materiale pericoloso: bromuro, ammoniaca e petrolio. Se i terroristi fossero riusciti a far saltare in aria i depositi, una nube tossica enorme si sarebbe alzata nel cielo di Ashdod. Fonti dei servizi non nascondono la possibilità che un "mega attentato sia soltanto questione di tempo", un colpo simile a quello di Madrid, e sottolineano che anche obiettivi israeliani ed ebraici all’estero sono di nuovo nel mirino. Si considera addirittura la possibilità di vaccinare i cittadini contro il vaiolo e di distribuire maschere antigas. I tentativi di colpire Israele con un mega attentato non sono certo nuovi. Nel corso dell’ultima Intifada, sono stati minacciati diversi obiettivi strategici. Un camion bomba ha cercato di colpire le torri Azrieli, nelcentro di Tel Aviv. Uomini di Hamas hanno tentato di lanciare missili verso la centrale elettrica di Askelon, una cellula del Jihad islamico ha programmato l’abbattimento di un elicottero sulla Knesset, il Parlamento israeliano. A rischio anche l’aeroporto internazionale Ben Gurion, soprattutto in questi giorni, in cui il traffico di passeggeri è sempre più intenso a causa della Pasqua ebraica.
"Teologo del terrore" - Yassin unì nella pratica del martirio assassinio l'ideologia dei Fratelli musulmani e quella khomeinista.
Roma. Itzhak Rabin considerava uno dei suoi più gravi errori aver favorito l’impianto di Hamas e l’opera di proselitismo di Ahmed Yassin nei Territori e a Gaza agli inizi della prima Intifada delle pietre, nel 1985-87. E’ importante ricordare quel clamoroso errore israeliano per comprendere il processo che ha portato oggi Gerusalemme alla eliminazione di Yassin. I leader israeliani, sia laburisti sia del Likud, venti anni fa, pensavano che il radicamento sociale di Yassin e di Hamas, basato sulla ben finanziata attività di organizzazione di "welfare islamico" da parte delle moschee, avrebbe migliorato le condizioni materiali dei palestinesi e rafforzato così un’alternativa praticabile al terrorismo stragista dell’Olp. Ma i leader israeliani non avevano ancora scoperto in Yassin quel che ancora oggi certa Europa non coglie: il suo essere il punto di incontro, di sovrapposizione e di unione dell’estremismo terrorista sunnita con quello sciita. Morto nell’89 l’ayatollah Khomeini, Yassin è rimasto infatti il massimo teologo islamico che unisce leadership religiosa e strategie teorico-pratiche di terrorismo islamico (incluse esecuzioni sommarie di centinaia di palestinesi "collaborazionisti", personalmente ordinate). Egli ha definito una teologia sincretistica, basata su una visione della Storia in cui gli ebrei (non gli israeliani, gli ebrei), sono i nemici principali dell’umanità e una concezione "etica" per cui l’individuo può celebrare la sua salvezza solo nel culto della morte e del jihad assassino. Yassin ha insomma recepito nel corpo dottrinario sunnita quella teologia del "martirio" che si è radicata nell’Iran sciita con Alì Shariati e Khomeini. Una fusione di estremismo sunnita e sciita che gli è stata riconosciuta dagli ayatollah iraniani, succeduti a Khomeini, compreso quel Khatami che in Occidente passa per riformista e che appena rieletto presidente della Repubblica iniziò il suo mandato col gesto simbolico di un versamento di alcuni milioni di dollari a favore di Hamas. Le ragioni di questa empatia sono evidenti se si leggono le parole incise da Yassin nello statuto di Hamas: "L’ultimo Giorno non verrà sino a quando tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno…"; "Oggi si tratta della Palestina, domani di uno o più altri paesi. Perché lo schema sionista non ha limiti e dopo la Palestina cercherà di espandersi dal Nilo all’Eufrate. Quando avrà digerito la regione di cui si è cibato, guarderà avanti verso un’altra nazione e così via. Questo è il piano delineato nei Protocolli dei Savi di Sion". La sintesi del finalismo islamico (il giudizio universale coincide con la scomparsa definitiva degli ebrei, sterminati dai musulmani) e delle follie dei Protocolli è il baricentro della teologia di Yassin, che rappresenta così la fusione tra il filone dei Fratelli musulmani, di cui era dirigente riconosciuto e rispettato, e quello di Hezbollah, che arriva in Palestina nei primi anni 80, passando per la tappa libanese. Lo scopo di Yassin, di Hamas, di Hezbollah è la distruzione dello Stato d’Israele; lo strumento è il martirio-stragista, che Yassin introduce nel movimento palestinese dal 6 aprile ’94, data del primo attentato suicida in Israele, ad Afula (9 morti), diretto contro l’accordo di pace Rabin-Arafat.

"Per sterminare gli ebrei"
Ieri Israele ha dunque ucciso uno tra i più popolari e prestigiosi leader del terrorismo islamico, un nemico sanguinario della prospettiva di "due popoli, due Stati", perché per Hamas l’intera Palestina è un "‘waqf’, territorio affidato alle generazioni islamiche sino alla Resurrezione, di cui nessun uomo politico o capo di Stato o organizzazione internazionale può quindi disporre". Da ieri non si sentirà più la voce di Yassin incitare i musulmani a "farsi saltare, ovunque nel mondo, per sterminare gli ebrei che sono porci e scimmie".
"Israele e Stati Uniti" - La risposta di Gerusalemme alla freddezza americana nei confronti del progetto del Likud.
Roma. "Abbiamo agito da soli", ha detto ieri il ministro degli Esteri israeliano, Silvan Shalom, dopo l’incontro con il vicepresidente americano Dick Cheney, riferendosi all’uccisione del leader di Hamas, Yassin. I motivi di distanza tra Washington e Gerusalemme, nell’ultimo periodo, sono più di uno. Un documento del Consiglio per la sicurezza nazionale, presieduto dalla Rice, ha giudicato il piano Sharon confuso, inutile, controproducente per gli Stati Uniti, dettato dal desiderio del premier di veder risalire i suoi consensi nei sondaggi, di allontanare lo scandalo finanziario nel quale è coinvolto suo figlio: il benservito dell’Amministrazione Bush. Non era mai accaduto, ma le elezioni del 2004, più l’atteggiamento europeo questo hanno provocato. Anche al boicottaggio del piano di difesa di Israele, così lo ha inteso Sharon, così lo ha comunicato ai ministri del gabinetto, da parte degli Stati Uniti, hanno risposto i tre missili che ieri hanno colpito Yassin. Se Sharon ha mandato un messaggio chiaro, guerra senza quartiere a Hamas, ultimo avvertimento ad Arafat, ce n’era anche per l’alleato Bush; le prime reazioni da Washington sono caute, ma dimostrano comprensione del segnale. Parla proprio Condoleezza Rice, prima di Colin Powell, e ricorda che l’Amministrazione non ne sapeva niente, il che è vero, e che Hamas è organizzazione terroristica, e lo sceicco ne era a capo. Tutto qui per il momento, cautela anche perché non salti fuori troppo vistosamente nella
campagna elettorale, e nella constituency degli ebrei d’America, quanto Sharon sia stato irritato dai risultati delle missioni alla Casa Bianca del suo inviato speciale, Dov Weinglass; il quale a lungo ha stazionato laggiù insieme ad altri esperti per ottenere un accordo sul piano di ritiro unilaterale da Gaza, ma una settimana fa è tornato latore di note scoraggianti. Il piano non piace, non è chiaro, è stato annunciato dal premier israeliano prima di averlo discusso con l’alleato, prevede solo il ritiro dei civili, non si capiscono le ragioni dell’urgenza, visto che nel 2003 nessuno è stato ucciso nella striscia di Gaza, non si capisce chi controllerà le strade di accesso. Ancora, se volete tener fermo il porto di Gaza e l’aeroporto, isolare con un cordone di un
chilometro la strada parallela al confine con l’Egitto, e volete anche lasciar circolare liberamente fra Gaza e West Bank, e anche far entrare in Israele i palestinesi che lavorano, tanto vale lasciar le cose come sono, perché secondo noi non cambia niente comunque.
"Egitto e Gaza" - La dura reazione di Mubarak al raid contro Yassin e il suo ruolo quasi obbligato nei piani di Sharon.
Milano. L’Egitto ha annullato la visita di una delegazione di deputati in Israele in occasione del 25° anniversario degli accordi di pace di Camp David del ’78. "Un atto di codardia, di cui Israele si pentirà", ha detto il presidente egiziano Hosni Mubarak, commentando l’uccisione di Yassin. Interrogato sulle conseguenze dell’"omicidio mirato" sul processo di pace, Mubarak ha risposto: "Quale processo di pace?". I delegati egiziani, con i colleghi israeliani, avrebbero valutato la possibilità di una parte attiva del paese nel piano di disimpegno unilaterale promosso da Sharon. Anche se il Cairo ha smentito le voci secondo cui avrebbe acconsentito alla richiesta di
Gerusalemme di inviare truppe per mantenere la sicurezza nel Sud della Striscia di Gaza, dopo un eventuale ritiro israeliano, è certo che l’Egitto, per il suo ruolo di mediatore e la vicinanza geografica ai Territori palestinesi, tiene sott’osservazione tutti gli aspetti legati alla sicurezza a Gaza. La presenza dell’esercito egiziano nella Striscia è "una trappola per noi – ha detto Mubarak in un’intervista al Figaro – ci troveremmo in una situazione di confronto con i palestinesi e, se ci fossero problemi, potremmo
anche trovarci in conflitto con gli israeliani". Per il presidente egiziano è
l’Autorità nazionale palestinese che deve occuparsi di mantenere il controllo dell’area. Il Cairo non può però tirarsi indietro del tutto e garantisce a Gerusalemme la collaborazione per mantenere la sicurezza lungo il confine tra Egitto e Israele, una zona in cui il maggior problema è il contrabbando di armi. A tale scopo Mubarak ha chiesto al governo Sharon di rivedere alcuni
punti degli accordi di pace di Camp David, secondo i quali all’Egitto è permesso mantenere lungo il confine con Israele soltanto una forza di polizia e nessuna unità dell’esercito. Il Cairo chiede un "emendamento" per poter svolgere in maniera più efficace il controllo di una frontiera critica. Mubarak ha inoltre promesso che garantirà il maggior aiuto possibile a Israele, in modo che il ritiro dagli insediamenti possa avvenire in breve tempo. E benché il paese non abbia alcuna intenzione di mandare le sue truppe nella Striscia di Gaza, il Cairo è pronto ad assistere e ad addestrare le forze
di polizia palestinesi, come ha già fatto in passato, perché queste possano al più presto garantire autonomamente la sicurezza di quei territori che, nel piano di Sharon, Israele sarebbe pronto a lasciare.
A pagina 1 dell'inserto del Foglio, un'analisi di Emanuele Ottolenghi dal titolo: "Perchè il tempo della diplomazia tra Israele e palestinesi è scaduto".
Dall’inizio della seconda Intifada, la strategia palestinese si compone di cinque elementi: primo, ristabilire la visione del conflitto come scontro impari tra un Israele oppressore (Golia) e i palestinesi oppressi Davide). Secondo, i palestinesi hanno cercato di trascinare nel conflitto i vicini arabi. Terzo, le dinamiche diplomatiche mirate a riportare le parti al tavolo negoziale hanno subito un contraccolpo grazie alla campagna palestinese intesa a squalificare gli Stati Uniti come mediatore imparziale. Quarto, i palestinesi cercano di ottenere l’internazionalizzazione del conflitto, sia con l’invio di osservatori e forze di interposizione, sia dal punto di vista diplomatico, per privare i negoziati della dimensione bilaterale, svantaggiosa ai palestinesi. Quinto, i palestinesi hanno impedito ogni efficace azione per porre fine alla violenza in modo da mantenere la pressione su attori regionali e internazionali, sincronizzando attentati e spiragli. Sesto, essi hanno mantenuto una pressione costante sull’opinione pubblica israeliana nella
speranza che governo e società si piegassero alle concessioni richieste dai palestinesi. Il prezzo pagato dai palestinesi nel perseguire questa strategia è stato caro: il mondo arabo non si è sollevato, né si è fatto trascinare in un ennesimo conflitto regionale; l’escalation è stata possibile solo al prezzo
della rinuncia da parte dell’Anp del monopolio della forza nei Territori; il rifiuto di adempiere agli obblighi di smantellare il terrorismo ha sollecitato il graduale intervento israeliano, culminato nella rioccupazione di quasi tutta la Cisgiordania. E il sostegno offerto ai gruppi terroristici che
operano indipendentemente dall’Anp ha creato una situazione di anarchia che solo a prezzo di una guerra civile ora l’Anp può neutralizzare. L’internazionalizzazione del conflitto non è avvenuta, e se i palestinesi hanno vinto la guerra mediatica, non sono riusciti a tradurre il limitato successo in tangibili risultati politici. L’America rimane l’unico credibile mediatore, ma nel sistematico tentativo di screditare l’America come agente sionista i palestinesi hanno perso l’unico strumento diplomatico che
Oslo aveva loro dato, cioè l’amicizia americana. L’internazionalizzazione del conflitto, attraverso l’invio di osservatori e forze di interposizione e l’imposizione di una soluzione da parte della comunità internazionale, risulta similmente inverosimile. Due elementi emergono dunque. Da un lato, non esistono forza e volontà politica da parte palestinese per porre fine all’Intifada. Né d’altro canto, dopo il 2000, appare possibile che una via di negoziato sia percorribile, a causa dell’incolmabile distanza tra i contendenti sulle concessioni che sarebbero disposti a fare. Pur non esistendo una soluzione militare, la diplomazia israeliana, palestinese e internazionale ha esaurito le sue carte. Camp David, Taba, Mitchell, Tenet, la road map, Ginevra sono tutti falliti, perché non esiste una soluzione politica digeribile sia dagli israeliani sia dai palestinesi. L’alternativa è dunque la via delle armi e delle azioni unilaterali. I palestinesi credono di poter, col tempo, costringere Israele a rinunciare al suo carattere ebraico, ad aprire le porte all’invasione dei rifugiati palestinesi, o ad andarsene, sotto il peso della crisi economica e del terrorismo. Israele, conscio dell’impossibilità di colpire in maniera risolutiva, ha adottato una strategia punitiva, atta a neutralizzare la posizione palestinese: finché i palestinesi non rinunciano alla violenza, Israele li ripaga con la violenza, come è il caso dell’uccisione mirata dello sceicco Yassin ieri a Gaza, in risposta all’attentato di Ashdod della settimana scorsa. Nel frattempo, Israele continua a combinare le azioni antiterroristiche a un piano unilaterale di ridispiegamento di forze e misure di sicurezza che include lo smantellamento di molti insediamenti. La combinazione delle due linee comporta un duro messaggio ai palestinesi: fermate la violenza o Israele lo farà a modo suo sul futuro assetto territoriale non aspetterà. Il tempo della diplomazia è finito: ora sta ai palestinesi comprendere che la resa è meglio della lotta armata. Altrimenti, il loro spazio di manovra continuerà a ridursi.
Un editoriale a pagina 3, dal titolo: "La guerra e i professori di pace".
Una guerra è una guerra. Lo sceicco Ahmed Yassin era un capo terrorista. La sua organizzazione vuole buttare a mare gli ebrei e il loro Stato, e per raggiungere lo scopo uccide indiscriminatamente centinaia di civili israeliani da anni. Sul piano della moralità politica, che Dio ci perdoni per il fatto di pensare questo pensiero, ma lo pensiamo, la sua uccisione ha una logica stringente. In termini di autodifesa esistenziale per un popolo e uno Stato che si sono uniti in un lembo di terra mediorientale nel segno di una promessa nazionale, anche. Quando l’attacco è a una persona, le certezze tremano. La guerra è sempre sporca, fetida, ma si salva in parte nell’astrazione di quell’anonimato tragico che è il Nemico. L’omicidio individuale è controterrorismo, la variante fradicia e tragica della guerra nel suo naturale porcaio. L’assassinio mirato fa schifo, ma i sepolcri imbiancati che giudicano e mandano non sono da meno. Gli europei finanziatori di Hamas non hanno l’autorità necessaria per dare lezioni a un paese al quale la gioia spirituale del martirio organizzato e promosso da uomini come Yassin è costato un numero di vittime civili che, in proporzione aritmetica con la popolazione di un paese come l’Italia, arriva ai diecimila morti in tre anni. La questione da guardare in faccia, mentre ribolle il dubbio naturale dell’intelligenza e la scelta individuale nel giudizio fa il suo corso, è storica e politica. Yassin non era solo un capo terrorista. Era la coincidenza di una guida spirituale e di una guida terrorista, era la rappresentazione di questa unità e identità che non fa più dormire il sonno del giusto all’Occidente sempre più stanco. Lo stesso vale per la sua organizzazione, fatta di terrorismo e patriottismo, vocazione all’assassinio più spietato e alla solidarietà sociale in una terra occupata e infelice. Il governo israeliano, da questo punto di vista, è politicamente in balia degli eventi. Non riesce a esprimere, nonostante abbia scelto sotto le bombe la strada forse feconda del ritiro unilaterale e guerresco da parte dei territori, e comunque da Gaza, una linea in cui la via militare e quella politica, guerra e diplomazia, tendano alla convergenza. La tragedia è tutta lì: Israele fa tutto da solo, occupa e si ritira, combatte e si difende, distrugge per non essere distrutto. E la famosa comunità internazionale, quella parte che copre Arafat e ha coperto fino all’ultimo Saddam Hussein, non è capace di unirsi e intervenire. E offre le sue lezioni di pace, che sono più sporche ancora della guerra.
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