Considerazioni di un ex criminale
ex?
Testata: La Repubblica
Data: 26/01/2004
Pagina: 2
Autore: Guido Rampoldi
Titolo: Il credo del nuovo Gheddafi:
Su Repubblica di oggi viene pubblicata una lunga intervista a Gheddafi, il quale racconta la sua "conversione" all'Occidente. Non perde però occasione di puntare il dito su Israele, colpevole, a suo dire, di lanciare droga sui territori egiziani libici e marocchini. Ciò basta per saggiare l'equilibrio mentale di questo personaggio, tuttavia le sue opinioni hanno peso in Medio Oriente e per questo pubblichiamo l'articolo.
TRIPOLI - Conversiamo passeggiando per una selva da cui sbucano presenze inaspettate, il muso d´un cammello, le corna d´una gazzella, i berretti rossi dei reparti speciali che sorvegliano. Si ferma, sussurra risposte sommesse con un languore quasi studiato, di nuovo riparte, camminando su una terra ocra così dura e ripulita da sembrare sintetica. Il Gheddafi che incontriamo nella sua fattoria a venti chilometri da Tripoli pare diverso da tutti i Gheddafi precedenti, numerosi quanti sono i costumi di scena con cui ha sottolineato ogni conversione ideologica negli ultimi 35 anni: alte uniformi di varia foggia, tute mimetiche, sgargianti vesti africane, mantelli beduini dai colori delicati. Come se giudicasse ormai inutile quell´incessante trasformarsi e travestirsi che ha spiazzato schiere d´ambasciatori, il Gheddafi nei suoi abiti da campagna - tutto in blu ma d´un´eleganza dimessa, con le scarpe da ginnastica, i guanti di lana, un mesto cappello di pecora con il paraorecchi calato - pare quasi un rivoluzionario in pensione. O più esattamente un patriarca nel suo autunno, infreddolito, placato nei suoi furori, forse consapevole della vanità di tutto.
Certamente lo vedremo ancora drappeggiato in questa o quella foggia, e non dismetterà di colpo l´intero guardaroba ideologico: ma venutogli meno il nemico, gli Usa, sembra aver perso anche la convinzione nella propria retorica. Perfino la denuncia dell´ultima cospirazione israeliana suona ormai come un atto dovuto recitato senza nerbo né passione. «Gli israeliani - dice - stanno gettando pacchi di hashish sulla costa egiziana, in Siria e in nord Africa. Forse anche la droga che arriva in Libia viene da Israele». Anzi, niente forse: «Siamo sicuri. Al 100 per cento. Spero che a questo proposito la comunità internazionale non sia sorda e cieca come lo è a proposito delle armi di distruzione di massa d´Israele, che ha centinaia di testate atomiche e un largo arsenale chimico e batteriologico. Eppure nessuno se ne cura».
In realtà sa benissimo che l´hashish entra in Libia dal Marocco, fino a ieri con il beneplacito della corte reale. E Israele, ancorché formalmente nemico, non è più il nemico eterno: i discreti contatti avviati attraverso il Cairo fanno anzi presagire che un giorno ancora lontano, ma forse non remoto, i due Paesi stabiliranno relazioni diplomatiche. Ma in una Libia avviata a perdere la sua unicità "rivoluzionaria", in una nazione abbastanza "normale", qual è il posto di Gheddafi? È al potere dal 1969, ultimo sopravvissuto di quella "generazione eroica" che guidò i movimenti di liberazione e di cui, in Africa come in Medio Oriente, non resta fulgida memoria. Non è un dittatore nel senso classico, e anche la ritrattistica ufficiale manca di quel tratto imponente e militaresco che invece distingue gli Stati totalitari. Non vedi statue di Gheddafi o monumenti che lo celebrano come condottiero. Fotografie e dipinti che inondano negozi, uffici e musei lo riprendono sempre dal basso in alto, col mento prominente e lo sguardo rivolto all´orizzonte. Tolta la minoranza fondamentalista, con cui da vent´anni ha ingaggiato una lotta mortale, i libici in genere gli portano sincera devozione, attribuendogli probità e patriottismo disinteressato: non obietterebbero se a succedergli fosse il figlio Saif, quello che studia a Londra e ogni tanto fa sapere di non condividere per intero il Libro Verde del padre.
Dopo 35 anni, non pensa sia arrivato il momento di farsi da parte, di lasciare al giovane Saif?, chiederò a Gheddafi quando la pioggia interromperà la nostra intervista deambulante nella selva africana. «Devo correggerla: io non sono al potere. Nel 1977 ho trasferite tutte le mie prerogative al popolo». Lo dirà con un sorriso quasi ironico, e come scomparendo dietro palpebre strette quanto i bordi di due feritoie.
Il fatto che nella "Repubblica delle masse", la Jamahiria libica, Gheddafi non abbia cariche ufficiali, rende complicate le presentazioni. Come appellarlo? Breve consulto sotto la tenda dove lo aspettiamo, un ambiente postmoderno vasto come un salone, con la moquette per terra, dodici poltrone dai piedi dorati, due termosifoni elettrici, un telefono, e lampade al neon fissate ai pali di sostegno. Colonnello? Troppo datato. Eccellenza? Un po´ controrivoluzionario. I libici lo chiamano al Qaid, la Guida, il Leader. Mister Leader andrebbe bene, ma il cerimoniale suggerisce un aggiornamento: Brother Leader, Fratello Leader, essendo noi e lui ormai tutti affratellati nella "guerra al terrorismo". L´affratellamento può avvenire perché alla fine di dicembre i governi libico, britannico e statunitense hanno concluso una lunga trattativa segreta. Tripoli ha rinunciato a dotarsi di armi di distruzione di massa, nucleari o chimiche, e ha invitato gli ispettori internazionali a verificare con ispezioni questo impegno. La destra americana ha concluso che Gheddafi s´era preso un gran spavento dopo l´invasione dell´Iraq. Ma come racconta sull´Herald Tribune un diplomatico statunitense ben addentro al negoziato, Flint Leverett, le trattative erano cominciate al tempo dell´amministrazione Clinton; e l´accordo finale è stato raggiunto quando il Dipartimento di Stato è riuscito a neutralizzare l´opposizione della consorteria neocons attestata nel Pentagono.
Il vicepremier libico Abdullah Bedri, un pacato tecnocrate del petrolio, spiega che la Libia ha preso atto del nuovo contesto internazionale: «In passato eravamo sotto pressione da tante parti, dagli Usa e da altri, e dovevamo proteggerci. Dopo l´11 settembre tutto è cambiato. Viviamo in un mondo difficile e dobbiamo adattarci a ciò che accade. Nulla di strano se andiamo col gruppo (delle altre nazioni). Non è per paura degli Stati Uniti: semplicemente, andiamo col gruppo». L´11 settembre è stato decisivo perché Gheddafi s´è trovato dalla parte giusta. Al tempo in cui Reagan e la Thatcher potenziavano il fondamentalismo attraverso l´Arabia saudita per scardinare i "socialismi" arabi e il loro alleato, il Blocco sovietico, Gheddafi riempiva le prigioni di Fratelli Musulmani, i quali a loro volta ordivano piani per ucciderlo. Così gli fu quasi naturale avvertire, con largo anticipo sugli eventi, che Bin Laden e il terrorismo islamico erano un pericolo mondiale. Adesso può sostenere che l´adesione della Libia alla "guerra al terrorismo" non è una scelta opportunista, tantomeno una resa agli Usa. In altre parole Bush non ha ragione, Fratello Leader, quando legge nella scelta libica la prova che la war on terror funziona? «Vede, le nostre convinzioni non sono tattiche. E se qualcuno le condivide, siamo con loro». Anche in un modo operativo: il ministro degli Interni garantisce che, nella lotta al terrorismo, «la cooperazione tra Libia e Stati Uniti è buona».
Nel concreto cosa accade? Risponde circospetto, misurando le parole: «Ci sono gruppi che lavorano contro noi tutti... può darsi che vi sia stata una cooperazione tra servizi segreti, in particolare a riguardo di cittadini libici che hanno combattuto in Afghanistan (con Al Qaeda e i Taliban)».
Poi riprende a camminare col suo passo pensoso da filosofo peripatetico, diremmo di scuola eraclitea. Tutto scorre, tutto muta, tutto tende a evolvere nel suo contrario. Muhammar Gheddafi è stato prima anticomunista e poi filosovietico. Prima panarabo e poi panafricano. Prima amico fraterno dell´Egitto e poi nemico, poi alleato, ancora nemico, e di nuovo amico. Prima ha dato ospitalità a ogni gruppo armato cui l´Interpol desse la caccia, e adesso milita nell´alleanza contro il terrorismo.
L´incessante divenire della storia, o la "guerra al terrorismo", non prevede ruoli fissi neanche a Washington, che di Saddam è stata prima alleata e poi nemica. I principi sono elastici, il Bene e il Male in relazione mimetica, la coerenza superflua. E il passato riformabile all´occorrenza. La Libia nega d´essere coinvolta nell´abbattimento di due aerei di linea (ma ha accettato di compensare le famiglie degli uccisi), però è incontestabile che diede riparo al terrorista più sinistro, il palestinese Abu Nidal: non fu, diciamo, un errore? No: «Personalmente ritengo che Nidal in buona sostanza fu un terrorista. Ma proprio il fatto che stesse qui (in Libia) ci offrì l´opportunità di congelarlo, perché era sotto controllo e non poteva fare nulla». In quegli anni a essere "sotto controllo" a Tripoli erano davvero tanti, dall´Eta all´Ira, dalla Baader-Meinhof tedesca all´Armata rossa giapponese. All´epoca per Gheddafi "terrorismo" non erano quei "movimenti di liberazione", ma unicamente l´amministrazione Reagan, che nel 1986 gli bombardò il quartier generale (39 morti, tra cui la sua figlia adottiva, 18 mesi). Oggi "terrorismo" è parola molto vaga, che ciascuno interpreta come crede.
Qual è la sua interpretazione? «Io dico che c´è un terrorismo degli individui e un terrorismo degli Stati: gli uni e gli altri vanno fermati. Se qualcuno distrugge un edificio abitato con un missile sganciato da un aereo non si può dire che non sia un terrorista. Non c´è molta differenza tra un missile oppure una bomba artigianale, come per esempio le cinture di tritolo usate dai palestinesi. Sono cose simili. Ma il missile è più pericoloso».
Parliamo dell´Italia. La Libia ha o no questi razzi di media o lunga gittata che terrebbero sotto tiro il territorio italiano per metà o per intero? «No, non li abbiamo. E comunque, nella nostra recente dichiarazione (in dicembre) abbiamo accettato il regime previsto dagli accordi internazionali. In altre parole i nostri missili non potranno eccedere i 300 chilometri. Su questo ci siamo impegnati e Vienna potrà verificare l´attuazione».
E poi il DC-9 dell´Itavia abbattuto nel cielo di Ustica: in settembre dichiarazioni di Gheddafi hanno suggerito alla Procura di Roma d´aprire la nuova indagine. Può aiutarci a capire cosa accadde quel giorno? «Ciò che so è che, come tante altre volte quando ero diretto in Jugoslavia, dovetti sorvolare l´Italia mentre era in corso un´esercitazione della VI flotta Usa. Ma non posso dire se via sia una relazione diretta tra il mio viaggio e ciò che accadde all´aereo civile italiano. Infatti non so se fu abbattuto prima, durante o dopo il mio viaggio». Forse davvero non sa. O forse nell´alleanza contro il terrorismo è bene non coltivare la memoria. Ma se ancora vi fosse stata la possibilità di scoprire la verità di Ustica a Tripoli, quell´opportunità è sfumata.
Però c´è un segmento del passato libico che Gheddafi non intende dimenticare né riformare. Quando gli chiedo del contenzioso per l´occupazione italiana della Libia, diventa meno circospetto. Certamente il fascismo in Libia fu molto più feroce di quanto in genere in Italia si sia disposti a riconoscere, anche se è difficile credere a quanto leggiamo sul New York Times, per il quale un quarto della popolazione libica perì durante l´occupazione. Lo stesso Gheddafi, scrivono i suoi biografi, perse il nonno, due prozii, due cugini; e quando aveva 6 anni fu ferito dall´esplosione d´una mina che egli ritiene di fabbricazione italiana. Gli ricordo tutto questo e gli domando: insomma, Fratello Leader, stiamo parlando d´un´altra epoca, sessant´anni dopo non le pare arrivato il momento di chiudere definitivamente questo passato?
«Non contano solo i miei parenti uccisi: ogni famiglia libica ebbe un ferito, un ucciso, un deportato durante l´occupazione italiana. Così è un fatto che noi dobbiamo soddisfare le richieste dei libici e assistere migliaia di feriti, chi senza una mano, chi senza una gamba. Sarebbe arbitrario se imponessi per decreto che quel passato è sepolto. Perché quel passato non finisce. Se uno ha una ferita in una gamba, non posso dirgli: sei guarito».
Quanto? «Cosa?». Quanto costa sanare la ferita? «Troviamo un accordo».
L´accordo lo cercò anche Berlusconi l´anno scorso, con nessun risultato. Stando a quanto aggiunge Gheddafi, l´incontro di Tripoli tra i due Grandi comunicatori del Mediterraneo probabilmente non fu tra i più felici: «Caro amico, mi dispiace dirlo ma con Berlusconi non ho potuto fare nulla per risolvere definitivamente la partita dei danni di guerra. Al punto che talvolta spero che in futuro Prodi o D´Alema potranno dare seguito alla nostra dichiarazione d´intenti (implement our common declaration). Ripeto, ogni famiglia è stata colpita dall´occupazione italiana».
Sarà ancora leader quando a Palazzo Chigi arriverà un premier diverso da Berlusconi? Forse dipende solo da lui. È sopravvissuto a cinque presidenti americani. Nixon lo considerò un alleato importante nei settori petrolio e anticomunismo, Reagan «il cane pazzo del Medio Oriente», per l´amministrazione Bush era il capo d´uno Stato-canaglia ancora nel 2002, e un convertito alla guerra al terrorismo nell´ultimo discorso del presidente americano. Ma il mondo ruggente di cui Gheddafi è un prodotto non esiste più, il nasserismo morto e sepolto, i nazionalismi arabi in disarmo, l´unità africana un sogno confuso. Così quel sorriso evasivo dietro cui si rifugia quando gli chiedo se non pensa sia arrivato il momento di abdicare in favore del giovane Saif, potrebbe suggerire che l´autunno del patriarca libico s´avvii alla conclusione.
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