Il sionismo oggi: perché non possiamo permetterci di lasciarlo insultare
Commento di Daniele Scalise
C’è un paradosso che attraversa l’Occidente contemporaneo: mentre il razzismo e l’odio antiebraico riaffiorano con la violenza di un’onda lunga, una delle parole più nobili e liberatrici della storia moderna viene trasformata in insulto. “Sionista” è oggi, per molti, sinonimo di aggressore, oppressore, perfino criminale. È una distorsione storica e morale che non nasce dal nulla: è il frutto di decenni di propaganda, di manipolazioni ideologiche e di una sistematica cancellazione della memoria.
Lo vediamo sui muri di Parigi, Londra, Berlino, Roma: “Zionist”, “Sioniste”, “Sionista” è usato come marchio infamante, graffito di odio che non colpisce una politica contingente, ma l’idea stessa che il popolo ebraico abbia diritto a un focolare nazionale, sicuro e sovrano. Il sionismo non è una moda passeggera, né un’ideologia di parte: è un movimento di liberazione nazionale. Ha reso possibile che un popolo perseguitato, privato di patria e sovranità per duemila anni, potesse tornare a essere soggetto della propria storia.
Per questo, e non per nostalgia erudita, ho scelto di ritradurre il testo fondativo del sionismo politico: Der Judenstaat di Theodor Herzl. Lo faccio per Seferottobre, la nuova casa editrice digitale dell’associazione Setteottobre nata in difesa di Israele, del sionismo e delle società democratiche liberali. Herzl scrisse il suo pamphlet nel 1896, con l’urgenza di chi vedeva addensarsi nubi nere sul destino degli ebrei europei. Il libro non è un manifesto astratto, ma un progetto politico dettagliato: l’atto di nascita di una speranza collettiva.
Nella tradizione editoriale italiana, francese e inglese, il titolo è stato spesso ammorbidito in Lo Stato ebraico (The Jewish State, L’État juif). Io ho voluto restituire la precisione dell’originale tedesco: Lo Stato degli ebrei. Non è una sfumatura filologica: cambia il senso. “Ebraico” può indicare un aggettivo culturale o religioso; “degli ebrei” è invece inequivocabile: si tratta di uno Stato di cui il popolo ebraico è titolare e sovrano. Lo stesso vale in ebraico: מדינת היהודים (Medinat haYehudim).
Questa scelta, oggi, è più che linguistica: è politica. In un tempo in cui il sionismo viene demonizzato, riaffermare il titolo originale è riaffermare il diritto degli ebrei a definire se stessi, senza subire traduzioni attenuate o deformanti. Significa ricordare che il progetto di Herzl non era quello di creare uno “Stato religioso” o “etnico” in senso esclusivo, ma uno Stato democratico e moderno che garantisse sicurezza e dignità agli ebrei, senza negare i diritti delle altre comunità.
In quest’epoca terribile e dannata, mentre Israele è sotto attacco non solo militare ma anche simbolico, la rilettura di Herzl è un antidoto alle caricature del sionismo. Ci ricorda che la legittimità di Israele non nasce nel 1948, né tanto meno da una concessione internazionale: affonda le radici in una storia millenaria, in un diritto naturale e storico di autodeterminazione. Ci ricorda che Israele non è nato grazie alla Shoah ma nonostante la Shoah.
Abbiamo voluto ripubblicare Lo Stato degli ebrei per ridare voce a un’idea che non è mai invecchiata: che un popolo ha diritto a vivere libero, nella propria terra, in pace e sicurezza. In tempi in cui questa semplice verità viene capovolta e calunniata, non possiamo permetterci di restare in silenzio. La parola “sionismo” va liberata dalla sporcizia e dalle infamie che le hanno gettato addosso. Va restituita alla sua origine: la dignità di un popolo che ha avuto il coraggio di tornare a casa.
Daniele Scalise