Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 03/07/2025, a pag. 1/I, con il titolo "Il piano che unisce l’Iran a Gaza", l'analisi di Micol Flammini.
Micol Flammini
Non appena Israele aveva lanciato l’operazione Am Kelavi (Leone che si erge) per colpire i programmi nucleare e missilistico della Repubblica islamica dell’Iran, aveva iniziato a circolare negli ambienti militari israeliani un commento: è arrivato il momento di arrivare alla testa del serpente. L’espressione serviva a spiegare che, dopo oltre seicento giorni di guerra combattuta nella Striscia di Gaza, in Libano e contro gli houthi dello Yemen, era stata presa la decisione di agire contro lo stato che con armi, finanziamenti e ideologia aveva creato un sistema di alleanze con lo scopo di soffocare Israele. Gli Stati Uniti hanno deciso di prendere parte all’attacco contro l’Iran non soltanto per sostenere Tsahal ma anche perché si sono convinti dell’idea che un regime di Teheran indebolito e rimandato indietro sul suo progetto ambizioso e clandestino di dotarsi di ordigni nucleari è un ostacolo in meno alla costruzione di un nuovo medio oriente legato dagli Accordi di Abramo. Martedì sera, il presidente americano Donald Trump ha annunciato sulla sua piattaforma social Truth che Israele ha accettato una proposta per il cessate il fuoco di sessanta giorni nella Striscia di Gaza. Trump ha scritto che manca la risposta di Hamas, ha esortato il gruppo ad accettare, perché le cose possono solo mettersi peggio. Per Trump il suo intervento in Iran e la fine della guerra a Gaza sono collegati e così sono stati anche presentati agli israeliani. Nei giorni scorsi il ministro israeliano per gli Affari strategici Ron Dermer era a Washington per incontrare l’inviato speciale americano per il medio oriente Steve Witkoff, il tuttofare della diplomazia trumpiana. Dermer ha detto che gli israeliani erano pronti ad accettare l’accordo e si impegneranno a riavviare i colloqui indiretti con Hamas. E’ stato il Qatar a proporre l’ultima bozza di accordo. Doha ha molti ruoli: è uno dei maggiori finanziatori e sostenitori di Hamas e ospita anche alcuni dei suoi leader; ha buone relazioni con la Repubblica islamica dell’Iran; ha sul suo territorio le basi militari americane. Sembra tutto una gran contraddizione, ma nulla è casuale; il Qatar è un equilibrista e riesce ad avere sempre un ruolo: quando gli iraniani la scorsa settimana organizzarono la rappresaglia per l’attacco americano contro i siti nucleari, colpirono la base americana di al Udeid. Fu un gran teatro che i qatarini aiutarono a orchestrare in modo che Teheran potesse mostrare di aver reagito ma senza causare vittime tra i soldati americani. Tutto si baratta per avere un accordo e il presidente americano ha deciso che la sua azione contro l’Iran dovesse poi portare alla fine della guerra a Gaza, di cui non vuole più sentire parlare.
Ieri il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar ha detto che ci sono buone probabilità per un accordo. Hamas sta esaminando la proposta del Qatar e deve decidere se impegnarsi in colloqui indiretti di alto livello. La proposta prevede un cessate il fuoco di sessanta giorni durante i quali verrebbero liberati alcuni ostaggi (non c’è un numero ufficiale e questo punto è molto sfavorevole per Israele: ci sono ancora cinquanta persone in prigionia, malate o morte).
La difficoltà non sta in una prima intesa, ma nel lavoro da fare nei successivi sessanta giorni, durante i quali Israele e Hamas dovrebbero negoziare la fine definitiva della guerra, stabilendo una tabella di marcia per l’insediamento di un governo nella Striscia. Per Hamas è indispensabile che gli americani si facciano garanti del cessate il fuoco, per gli israeliani è fondamentale che Hamas venga rimosso: “Non ci sarà un Hamastan, non tornerà. E’ finito”, ha detto ieri il primo ministro Benjamin Netanyahu. Israele vuole che la Striscia sia amministrata da palestinesi locali senza legame alcuno né con Hamas né con l’Autorità nazionale palestinese, ma sostenuti da paesi arabi come Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Emirati Arabi Uniti. Nei sessanti giorni di cessate il fuoco, si dovrà negoziare la fine di Hamas: difficile che il gruppo accetti, continuerà piuttosto a prendere tempo mentre trattiene gli ostaggi come garanzia negoziale.
Finché ci sarà la guerra a Gaza, sarà impossibile compiere passi in avanti con gli Accordi di Abramo, i patti di normalizzazione tra Israele e alcuni paesi arabi. Riad soprattutto vuole da parte di Israele un impegno per una futura soluzione a due stati: è di per sé una richiesta molto vaga con la quale però i sauditi – come altri paesi arabi – vogliono mostrare alle loro popolazioni di non avere abbandonato la causa palestinese. Con la guerra a Gaza ancora in corso, la vaghezza però non è sufficiente.
Il piano c’è, l’assetto per realizzarlo è fragile e complicato. Gli Accordi di Abramo ampliati a paesi come Arabia Saudita, Libano e Siria sono anche la maggior garanzia di isolamento del regime iraniano che, nonostante abbia perso il conflitto, è pronto a riavviare il suo meccanismo di guerra, incluso il progetto nucleare, e poco importa quanto tempo ci vorrà: lavora con calma. Ieri Teheran ha deciso di sospendere la cooperazione con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, che già prima aveva un accesso limitato al programma nucleare dell’Iran.
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