Riprendiamo da LIBERO di oggi 07/06/2025, a pag. 1/9, con il titolo "La lite fra Elon e Donald è un confronto fra idee, la democrazia Usa è così", il commento di Daniele Capezzone.
Fino all’altra sera, si poteva sperare (o ci si poteva illudere) che l’uscita di scena di Elon Musk dalla struttura Doge mantenesse i contorni di un divorzio consensuale con Donald Trump: dissensi gravi ma tutto sommato controllati, e reciproca volontà di far durare comunque il rapporto di amicizia e collaborazione strategica. E invece no: è spettacolarmente finita a pesci in faccia, almeno per il momento.
I lettori di Libero già conoscono le critiche muskiane alla parte di spesa dei provvedimenti economici di Trump, che, accanto a un mega-taglio di tasse (cosa ottima), prevedono anche ingenti spese e interventi pubblici (in evidente contraddizione con la logica del Doge). Il che ha comprensibilmente deluso Musk, fautore di una linea-Milei. Come sapete, già l’altro giorno Musk non si era trattenuto, e su X aveva sparato a palle incatenate contro questa parte di sprechi e spesa facile, parlando di un “disgustoso abominio”. Poi l’altra sera è venuto tutto il resto, con la rissa a distanza tra i due ex amici.
Il grande e compianto Rino Tommasi stilò una volta una classifica dei round più violenti nella storia del pugilato: a memoria, mi pare fosse in testa una ripresa di leggendaria durezza di un match del 1986 tra l’americano Marvin Hagler e l’ugandese John Mugabi, con una sequenza di colpi di impressionante brutalità dall’una e dall’altra parte. Ecco, quasi quarant’anni dopo, lo scambio di pugni virtuali tra Trump e Musk non è stato da meno, tra insinuazioni reciproche e cattiverie tremende, fino alla prospettazione muskiana di un eventuale terzo partito (anche se l’ipotesi più concreta è che, alle elezioni di mid-term, Musk possa scientificamente scegliere, nell’uno e nell’altro schieramento, i parlamentari da sostenere e quelli da affossare). Solo il tempo ci dirà se – più per necessità che per amore – i due torneranno a un rapporto minimamente costruttivo, pur tenendo conto dei noti dissensi. Agree to disagree, dicono proprio gli anglosassoni: alludendo appunto alle situazioni in cui due parti sanno tenere ordinatamente distinti (senza celarli) consensi e dissensi, reciproche utilità e divergenze di principio, senza sfasciare tutto né inibirsi segmenti di cooperazione. Certo però – in attesa di un eventuale chiarimento – si rendono necessarie almeno sette osservazioni.
1. È mistificante e offensivo dell’intelligenza di tutti ridurre tutto a contesa psicologica tra “maschi alfa”, tra egomaniaci scatenati, tra soggetti dominanti. Non scherziamo. Musk sarà certo un visionario originale, ma è senza dubbio un imprenditore pragmatico.
Trump a sua volta sarà pure un tipo bizzarro, ma è per antonomasia l’uomo del deal. Quindi, volendo, i due potrebbero gestire razionalmente il dissenso. Se lo volessero, appunto.
2. Il conflitto – che era latente ed è diventato palese – è invece politico e culturale, tra due visioni di governo. Musk ne incarna una più liberale (stato leggero, tasse basse, spesa bassa), altri nell’Amministrazione sono nettamente orientati nel senso di quella che qui chiameremmo “destra sociale” (stato pesante, latitudine amplissima dell’intervento pubblico, vasti piani di spesa). Trump ha cercato di combinare le due cose, ma il compromesso venuto fuori è stato giudicato da Musk (a torto o a ragione) deludente e in ultima analisi tale da sacrificare eccessivamente le ragioni liberali.
3. È pur vero (e questo riguarda ovunque la destra e il centrodestra nel mondo) che la sfida politica è quella di far lavorare insieme i conservatori e i liberali. I primi possono a volte vincere elettoralmente senza i secondi, ma a prezzo di sacrificare la crescita e il dinamismo economico (favoriti dalle ricette dei secondi); i secondi (con l’eccezione di Milei) tendono a perdere senza l’apporto numerico decisivo dei primi.
4. Era abbastanza ridicola e propagandistica la tesi delle sinistre di mezzo mondo secondo cui, con il Trump-due, si sarebbe formata una specie di “cupola anti-democratica” tale da uccidere l’alternanza in America. Pochi mesi sono bastati a provare il contrario: negli Stati Uniti non solo esistono pesi e contrappesi sul piano istituzionale, ma lo stesso aperto confronto tra interessi economici determina scontri e rotture, intese e ricuciture. Il tutto sotto gli occhi degli elettori, ai quali va regolarmente l’ultima parola. La democrazia americana funziona, altro che balle.
5. Forse a Musk (a cui va – lo ammetto onestamente – una mia forte simpatia) si può rimproverare la scelta dell’impegno politico diretto. Probabilmente un ruolo di “influenza” (come quello che ha interpretato in campagna elettorale) sarebbe stato più utile anche a proteggere meglio i suoi interessi imprenditoriali.
6. L’era della “likecrazia” (botta e risposta multimediale, costante, in tempo reale, sotto gli occhi di tutti) esacerba i conflitti, esalta la dimensione dello scontro personale, rende difficili i compromessi e i passi indietro, perché nessuno vuole dare l’idea di aver “perso un round”.
7. La crisi del vecchio partito repubblicano presenta purtroppo il conto: tra parlamentari timorosi, un dibattito impoverito e più fazioso (anche nei think-tank, nelle riviste, nei luoghi di elaborazione), sta diventando difficile realizzare ciò che quel grande partito aveva sempre saputo fare nei momenti migliori, e cioè tenere insieme sensibilità e culture diverse. È il caso che tutti i protagonisti prestino molta attenzione: perché rimettere in partita i democratici?
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