Riprendiamo dal RIFORMISTA di oggi, 30/05/2025, a pagina 4, il commento di Joseph di Porto dal titolo: "L’ebraismo diventa peccato originale. Una rappresaglia contro gli israeliani".
L’antisemitismo è come un fiume carsico. La storia ci dimostra che quel fiume continua a scorrere, nascosto, pronto a riaffiorare nei momenti di crisi. Ci eravamo illusi che la costruzione di una memoria condivisa dopo la Shoah lo avesse prosciugato. Purtroppo la violenza di questo fiume in piena ci ha travolto, a partire dal brutale attacco del 7 ottobre contro civili israeliani da parte di Hamas, fino alla risposta militare a Gaza e alle sue tragiche conseguenze.
Ogni conflitto che coinvolge Israele diventa, puntualmente, il pretesto per il riemergere di sentimenti antiebraici. Non si tratta più – o non solo – di critiche legittime al governo israeliano: ciò che riemerge è una pretesa insidiosa e inaccettabile che vuole che ogni ebreo della diaspora prenda posizione, si dissoci, giustifichi o condanni, quasi che la sua identità personale fosse una variabile politica. Si tratta di un meccanismo collettivo che trasforma l’ebraismo da religione o cultura a categoria di colpa, legittimando e rafforzando una retorica collettiva che non distingue tra individuo e Stato, tra cittadino e governo, tanto più se quell’individuo non è neanche un cittadino israeliano. In questo contesto, assistiamo non solo a un ritorno dell’antisemitismo, ma a una sua normalizzazione. I fatti di cronaca di queste ultime settimane, dal rappresentante dell’Unione dei Giovani Ebrei a cui è stato impedito con la forza di parlare in un’università italiana, sino al duplice omicidio di una coppia di giovani ebrei a Washington, non sono tragici incidenti ma un campanello d’allarme. Sono sintomi di un clima sempre più tossico, dove la legittima critica si è trasformata in linciaggio morale, e dove la memoria è divenuta uno strumento da piegare a esigenze ideologiche.
Nella narrazione pubblica, la strage del 7 ottobre sembra essere già stata archiviata, sostituita da una rappresentazione del conflitto dove le responsabilità di Hamas vengono spesso taciute o minimizzate. Si parla – giustamente – delle sofferenze dei civili palestinesi, ma troppo spesso senza tenere conto della strumentalizzazione che Hamas fa della propria popolazione, né del suo ruolo diretto nella perpetuazione del conflitto. La memoria del 7 ottobre non può essere rimossa dal discorso pubblico solo perché complica le narrazioni semplificate. In gioco non c’è solo la verità storica, ma anche la sicurezza e la dignità di milioni di ebrei nel mondo. Ogni rimozione è una distorsione. Ogni silenzio è una forma di complicità.
Criticare il governo israeliano è legittimo. Tuttavia, occorre saper distinguere tra critica e demonizzazione, tra opposizione politica e delegittimazione esistenziale non solo di una nazione (Israele) ma di un intero popolo, quello ebraico. Occorre vigilare sul linguaggio, sui simboli, sulle narrazioni. Le parole hanno un peso, e quando il dissenso si esprime con termini assoluti – “genocidio”, “apartheid”, “colonialismo” – senza sfumature né contesto, si alimenta un clima che legittima l’odio. Ogni volta che un politico o un docente paragona Israele al nazismo, non solo tradisce la verità storica, ma avvicina di un passo il prossimo atto d’odio, legittimando qualsivoglia gesto, anche violento, perché ritenuto necessario alla lotta contro l’oppressore sionista/nazista.
In questo scenario, non basta più invocare la memoria della Shoah, soprattutto se questa memoria viene usata in modo selettivo o parziale. Non possiamo permetterci che l’antisemitismo continui a scorrere indisturbato sotto la superficie. La memoria non è un esercizio formale, ma una responsabilità attiva, che chiede di essere esercitata ogni giorno, anche – e soprattutto – nei momenti più difficili.
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