Sì di Israele alla tregua, ma solo il suo esercito può convincere Hamas
Cronaca di Amedeo Ardenza
Testata: Libero
Data: 30/05/2025
Pagina: 7
Autore: Amedeo Ardenza
Titolo: Sì di Israele alla tregua, una svolta con tre cause

Riprendiamo da LIBERO di oggi, 30/05/2025, a pag. 7, con il titolo "Sì di Israele alla tregua, una svolta con tre cause", la cronaca di Amedeo Ardenza. 

Trump manda in Medio Oriente l'inviato Steve Witkoff a proporre una tregua e Netanyahu, stavolta, accetta. Quindi adesso spetta solo a Hamas dire di sì o di no alla cessazione delle ostilità a Gaza, accettando di liberare gli ultimi ostaggi.

È il primo spiraglio, una lucina nel buio. Israele intende accettare la proposta per una tregua di sessanta giorni con Hamas e il rilascio di dieci ostaggi presentata da Steve Witkoff, l’inviato di Donald Trump. L’annuncio l’ha dato Benjamin Netanyahu, e ora tutto è nelle mani del movimento terrorista palestinese. Che fa sapere di giudicare il progetto americano deludente, troppo sbilanciato in favore di Israele. Ma la situazione è in rapida evoluzione, a maggior ragione dopo il «sì» di Netanyahu, e i leader di Hamas assicurano che studieranno la proposta «con responsabilità», per dare «sollievo» al loro popolo e «raggiungere un cessate il fuoco permanente nella Striscia di Gaza». La parola chiave è «permanente»: l’assenza di un preciso impegno israeliano a ritirarsi dalla Striscia e porre fine alla guerra è il primo dei motivi per cui Hamas fatica a digerire l’accordo.
Pure Netanyahu ha i suoi problemi, e non li nasconde.
«Non crediamo che Hamas rilascerà gli ostaggi, quindi continueremo a combattere finché Hamas non sarà eliminata e non lasceremo la Striscia finché tutti gli ostaggi non saranno nelle nostre mani», ha detto ieri, dopo aver comunicato l’intenzione di accettare la tregua. Il Times of Israel racconta che l’incontro che si è svolto a Washington, all’inizio della settimana, tra Witkoff e il ministro per gli Affari Strategici israeliano, Ron Dermer, è stato «teso», e che Witkoff è stato sul punto di perdere la pazienza. In senso contrario alla tregua spingono gli elementi più a destra del governo israeliano: Orit Strock, ministra per gli Insediamenti, sostiene che Hamas è «in ginocchio» e che Israele non deve «cedere» adesso.
Anche tra i parenti degli ostaggi c’è chi si oppone, visto che il piano Witkoff non impone ad Hamas il rilascio di tutti i prigionieri. Nelle mani dei terroristi ce ne sarebbero ancora 58, dei quali 20 ritenuti in vita dal governo israeliano; la regia americana prevede che, in cambio della tregua e della liberazione di centinaia di detenuti palestinesi, siano restituiti, in due fasi, dieci ostaggi israeliani in vita, assieme alle salme di altri 18. Ci sarebbero quindi due mesi di tempo nei quali trattare per una pace vera e propria e il rilascio di tutti gli ostaggi rimanenti, vivi e morti. Ipotesi alla quale, come visto, Netanyahu non sembra credere.
Eppure, ha accettato la proposta americana. Perché?
Un primo fattore, decisivo, «è l’opinione pubblica israeliana, contraria a mantenere una presenza militare stabile a Gaza», spiega a Libero una fonte di alto livello del governo israeliano. «I tempi sono maturi per passare dalla fase militare alla fase politica e ci sono alte probabilità che il piano presentato da Witkoff abbia un riscontro positivo.
Ormai è evidente che ognuna delle due parti dovrà cedere su qualcosa». Anche nell’esecutivo di Gerusalemme, insomma, si sta prendendo atto che un compromesso è inevitabile. «Ma c’è un compromesso che né il governo né il popolo israeliano accetteranno mai», avverte la fonte, «ed è quello sugli ostaggi: perché la trattativa di pace possa avere successo è necessario che preveda il rilascio di tutti, di quelli che sono ancora in vita e di quelli che sono morti nelle mani di Hamas». Quanto all’ipotesi «due popoli, due Stati», non è ritenuta un esito credibile delle trattative: «Al momento», conclude la fonte, «è davvero prematuro parlarne. Può essere un’ipotesi per il futuro, semmai».
L’altro fattore decisivo è esterno a Israele, e si chiama Trump. Anche se l’Europa, in particolare quella di sinistra, non glielo riconoscerà mai, il presidente repubblicano sta facendo la differenza.
Di fatto, ha messo Netanyahu dinanzi alla domanda cruciale: Israele, attaccato su sette fronti, minacciato dal progetto nucleare iraniano, in rapporti sempre più difficili con i governi europei, può permettersi di farsi abbandonare dagli Stati Uniti? Dopo essere stato convocato da Trump alla Casa Bianca agli inizi di aprile, dopo il colloquio che il suo ministro Dermer ha avuto con Witkoff, Netanyahu ha risposto nell’unico modo possibile: dicendo «sì» alla proposta di Washington.
Anche le decisioni di Netanyahu, però, stanno avendo un peso importante nel raggiungimento della tregua.
Israele sente la pressione politica degli Stati Uniti, ma Hamas avverte la fortissima pressione militare dell’esercito israeliano a Gaza, e assiste alle prime proteste contro la propria leadership da parte della popolazione palestinese. Se oggi c’è qualche possibilità che i capi di Hamas accettino il piano di Witkoff, è perché l’alternativa, per loro, è continuare a subire l’avanzata dell’operazione «Carri di Gedeone».

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