Omaggio a Bob Dylan
Commento di Diego Gabutti 

Daryl Sanders, Un sottile, selvaggio suono mercuriale. Bob Dylan, Nashville e Blonde on Blonde, Jimenez ed. 
Th.W.  Adorno, che all’Università di Francoforte alternava un corso su Kant a  un corso su Hegel, diceva che quando parlava di Hegel ai suoi studenti  tifava per la Fenomenologia dello spirito e che era incantato dalla  Critica della ragion pratica quando invece insegnava Kant. Cambiava  filosofo preferito una volta per semestre. Idem nel ciclismo, dicevano  Cochi e Renato: Bartali o Coppi, niente ex aequo, l’uno o l’altro,  prendere o lasciare. Capita lo stesso anche nel rock’n’roll. Come  decidere qual è l’album migliore di tutti i tempi? Sgt. Pepper’s dei  Beatles oppure Blonde on Blonde di Bob Dylan? Quello che hai ascoltato  per ultimo, direbbe Adorno. Autore d’Un sottile, selvaggio suono mercuriale, come lo stesso Dylan  avrebbe in seguito definito il sound elettrico di Blonde on Blonde,  Daryl Sanders non deve avere dubbi: il disco che Dylan registrò a  Nashville nel 1966 è il numero uno. Effettivamente ha i suoi meriti: è  il disco che contiene Just Like a Woman, Visions of Johanna, Stuck  Inside of Mobile with the Memphis Blues Again, I Want You, Absolutely  Sweet Marie, Fourth Time Around. Ma è passato tanto tempo, più di  cinquant’anni, un’era cosmica intera, e ogni magia si è spenta, tanto  che si legge il lungo, movimentato saggio di Sanders, con i suoi  brillanti aneddoti da dylanologo fissato e i suoi raffinati tecnicismi  da rockomane, più volentieri di quanto non si riascolti il disco (un mix  di melodie perfette e di versi perfettamente oscuri, che all’epoca  suonavano metallici, affilati come lame di rasoio, e che oggi, due o tre  giri di giostra più tardi, suonano astrusi e sdolcinati insieme). È il  destino di tutte le avanguardie: invecchiare in fretta. Dei sixties non rimane granché. Qualche film, un paio di romanzi. Sergio  Leone, i Peanuts, Ian Fleming. Ma chi vorrebbe farsi di nuovo due passi  nella Swinging London dello struscio forever young? Chi vorrebbe  rivedere Arancia meccanica e Blow Up? O Monica Vitti in Modesty Blaise,  la bellissima che uccide? Qualcuno rimpiange Barbarella e il flower  power? Restano i Beatles, come restano Mozart e Van Gogh. A Hard Day’s  Night, Eleanor Rigby, Dear Prudence, Lady Madonna. Ma tutto il resto è  confuso: rumori di fondo, modernariato, colori troppo accesi, suoni  troppo acuti, che si ricordano vagamente, come persi in una nebbia  alcolica. Nei sixties ci sono più cose che muoiono che cose che nascono.  Tutto, in quel decennio, è agli sgoccioli: il liberalismo, John Ford,  la famiglia, Alfred Hitchcock e Doris Day, la corsa spaziale, le buone  scuole. Anche Dylan (che è Dylan) si perde nella nebbia. Con lui, svanisce nell’indistinto, dove tutto s’equivale e nulla lascia  un segno duraturo, l’intera controcultura americana degli anni sessanta,  compresa la generazione di poeti e romanzieri che hanno ispirato al  cantastorie di Blonde on Blonde le sue canzoni, il clima che le anima,  il linguaggio che le sostiene. 
Chi legge  ancora Allen Ginsberg o Jack Kerouac? Di Ginsberg, se sopravvive  qualcosa, non è il narcisismo di Urlo, con la sua sfiorita retorica  bohémienne delle «best minds of my generation», ma il patetismo di  Kaddish, il commovente poema in memoria della madre morta, che si  finisce di leggere tirando su col naso e con i lucciconi agli occhi (ma  anche Senza famiglia e Il piccolo Lord, per non parlare delle Due  orfanelle sono opere strazianti, da commuoversi fino alle lacrime, senza  che però a nessuno venga in mente di dichiararle immortali). Di Kerouac  si può forse rileggere Il Dottor Sax, ma solo perché non è un libro  narcisista che celebra gli eroi della beat generation e perché parla di  tutt’altro, di un’infanzia tra Mark Twain e Stephen King, di fumetti, di  supereroi della radio, d’incubi e di sogni. Di William Burroughs,  infine, che aveva l’aria d’essere l’autore più solido della sua  generazione, non resta (spiace dirlo) assolutamente nulla: le foto in  cui appare armato di fucile o mentre impugna una pistola a due mani, un  paio di incipit e di battute memorabili, i titoli (ma non il contenuto,  quale che fosse) dei suoi libri. Bob Dylan – il Bob Dylan di Blonde on Blonde, il Bob Dylan iconico della  controcultura – è una di queste figure, velate dal tempo che passa, che  s’intravedono sempre più remote sullo sfondo del Novecento americano.  Joan Baez chi? Easy Rider quando? «In un momento tra Highway 61 e Blonde  on Blonde», scrive il grande giornalista e critico musicale Lester  Bangs, «s’era sparsa la voce che Dylan poteva essersi trasformato in (o  poteva essere sempre stato) un orribile bullo che, guarda caso, era  anche il cantautore più dotato della sua epoca, ma la gente fece  spallucce perché, dopotutto, era Dylan» (Guida ragionevole al frastuono  più atroce, Minimum Fax 2018). 
Allora si  facevano spallucce; oggi neanche quelle. Dylan dove? Dylan che cosa? Di  recente, con una giacca di pelle a frange, come Davy Crockett nei vecchi  telefilm che passavano in tv quando lui era bambino, l’autore di The  Times They Are A Changin’ e di Like a Rolling Stone s’è messo a incidere  e cantare le intramontabili canzoni di Frank Sinatra, The Voice.  Sinatra, tra parentesi, è una di quelle icone americane che non si sono  mai perdute nella nebbia. Dylan, strano a dirsi, sembra nato per cantare  le sue melodie con voce roca e raspante (la voce di Mississippi, di Bye  and Bye, di Things Have Changed). Dev’esserci da qualche parte una  morale pop che spiega il miracolo di queste «cover» (ma guai a chiamarle  così, Dylan le definisce «riscoperte»). Come dev’esserci da qualche  parte una ragione che spiega il suo Premio Nobel e i due devoti docufilm  che gli ha dedicato Martin Scorsese, un Vero Credente dylaniano. 

Diego Gabutti
Già collaboratore del Giornale (di Indro Montanelli), di Sette (Corriere della Sera), e di numerose testate giornalistiche, corsivista e commentatore di Italia Oggi,  direttore responsabile della rivista n+1 e, tra i suoi libri:  "Un’avventura di Amedeo Bordiga" (Longanesi,1982), "C’era una volta in  America, un saggio-intervista-romanzo sul cinema di Sergio Leone"  (Rizzoli, 1984, e Milieu, 2015); "Millennium. Da Erik il Rosso al  cyberspazio. Avventure filosofiche e letterarie degli ultimi dieci  secoli" (Rubbettino, 2003). "Cospiratori e poeti, dalla Comune di Parigi  al Maggio'68" (2018 Neri Pozza ed.)