La lezione di Mario Vargas Llosa
Commento di Diego Gabutti 

Mario Vargas Llosa 

Mario Vargas Llosa, Il richiamo della tribù, Einaudi ed.
 
All’inizio  c’era l’imperialismo. Bucata la previsione marxista, quando cioè fu  chiaro che non ci sarebbe stato nessun «impoverimento crescente della  massa dei salariati» e tanto meno un «inasprimento della lotta di  classe» seguito dal «crollo finale» del capitalismo, gli eredi del  Profeta stabilirono che, se le condizioni di vita del proletariato  miglioravano a vista d’occhio, non era perché le società capitalistiche  si stavano lasciando alle spalle quelli che Marx chiamava «gli orrori  dell’accumulazione primitiva» ma perché avevano esportato all’esterno le  loro contraddizioni. Se sfruttavano poco (o un po’ meno) il  proletariato metropolitano, era perché sfruttavano selvaggiamente le  colonie, poi dette Terzo Mondo. Era nato l’imperialismo, «fase suprema  del capitalismo» secondo Lenin e i suoi seguaci. Fu con la decolonizzazione in Asia e Africa, oltre mezzo secolo dopo la  sua comparsa a sorpresa nelle opere ponderose e nei pamphlet occasionali  d’economisti inglesi, socialdemocratici austriaci, ultraradicali russi e  polacchi che l’imperialismo generò la sua Nemesi: l’antimperialismo,  fase suprema (e stracciona) del comunismo originario, quello snob,  nonché devoto alle società industrializzate, di cui si proponeva, Marx  imperante, il rovesciamento. Anche la fase suprema e antimperialista del  comunismo ebbe la sua fase suprema: i movimenti di guerriglia  sudamericani, prima Fídel Castro e Che Guevara, poi le guerriglie  alimentate dal KGB, dai peronisti rinati, dai trotszkisti invidiosi, su  su fino ai maoisti psicopatici di Sendero Luminoso in Perù e agli  squadristi fasciocomunisti di Chavez e Maduro in Venezuela (anzi in  Cile, come insegna Gigio Di Maio, maestro di geografia ucronica o almeno  «imaginifica», e pertanto subito nominato ministro degli esteri del  Paese dei Campanelli). Nemici dei gringos, amiconi di Mosca e  dell’Avana, gli antimperialisti dell’America latina ebbero  un’evoluzione: generarono dai loro lombi quello che il neoliberista  Alvaro Vargas Llosa, collaboratore del Wall Street Journal e figlio del  Premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa, battezzò «il  perfetto idiota latinoamericano». Vargas Llosa jr forniva un bell’esempio di perfetta idiozia  latinoamericana da esportazione quando evocava la bizzarra metafora di  quel «famoso saggista statunitense» (sbaglierò, ma a occhio direi Noam  Chomsky) che «una volta scrisse che Cuba, la Cuba di Fídel, era come un  grande fallo sul punto di penetrare nella vulva nordamericana». Papà  suo, Vargas Llosa sr, che non si spinse mai a tali audacie metaforiche,  fu egualmente un perfetto idiota latinoamericano per una buona parte  della vita. Si ricredette all’alba degli anni settanta, e nel suo  discorso d’accettazione del Nobel (lo trovate in Elogio della lettura e  della finzione, Einaudi 2011) raccontò che «in gioventù, come molti  scrittori della mia generazione, sono stato marxista e ho creduto che il  marxismo sarebbe stato il rimedio giusto per combattere le ingiustizie  sociali che opprimevano il mio paese, l’America latina e il resto del  Terzo Mondo. 

Alvaro Vargas Llosa, Il manuale del  perfetto idiota italo-latinoamericano, Bietti ed. 
 
Il  mio allontanamento dallo statalismo e dal collettivismo fu lungo,  difficile e richiese tempo, a causa della trasformazione della  rivoluzione cubana, che agl’inizi m’aveva entusiasmato, verso il sistema  autoritario e gerarchico dell’Unione sovietica, le testimonianze dei  dissidenti che riuscivano a fuggire dai reticolati del Gulag,  l’invasione della Cecoslovacchia da parte del Patto di Varsavia, e  grazie a intellettuali come Raymond Aron, Jean-François Revel, Isaiah  Berlin e Karl Popper, ai quali devo la mia rivalutazione della cultura  democratica e delle società aperte. Quei maestri rappresentarono un  esempio di lucidità e coraggio quando l’intellighenzia dell’Occidente,  per leggerezza o per opportunismo, pareva soccombere al fascino del  socialismo sovietico o, ancor peggio, al sanguinoso sabba della  rivoluzione culturale cinese».  A questi maestri, alle loro idee e alle loro umane avventure, Vargas  Llosa dedica il suo ultimo libro: Il richiamo della tribù. Non è il suo  libro migliore (omaggi, apologie e vite dei santi non vengono mai bene, a  differenza delle invettive e degli anatemi). Nondimeno è una sincera  professione di fede liberale, l’esatto opposto di qualsivoglia idiozia  latinoamericana (da noi cattoberlingueriana, pentastellare, boldriniana e  financo salvinista). Si legge con piacere, anche se con eguale profitto  si può benissimo non leggerla. Resta però un mistero. Come spiegare  l’antisraelismo ripetuto e molesto di Vargas Llosa, che a dispetto della  sua conversione al liberalismo continua a guardare al conflitto  arabo-palestinese come gli antimperialisti, negli anni sessanta e  settanta, guardavano alle imprese del Presidente Mao, di Ho-Chi-Min,  dell’ayatollah Khomeini e di Pol Pot? Si può essere propalestinisti  (cioè pro jihadismo, pro Hamas e pro Hezbollah) e liberali insieme? Può  un liberale, un devoto di Adam Smith e di Karl Popper, di Ortega y  Gasset e di Raymond Aron, tifare per le tirannie musulmane e tuonare,  come fa l’autore di Conversazione nella cattedrali rale, contro la sola  democrazia della regione? Com’è che, dopo essersi faticosamente ma anche  completamente emancipato dalla condizione di perfetto idiota  latinoamericano, Mario Vargas Llosa ha finito per trasformarsi in un  perfetto babbeo mediorientale? 
Sbaglierò,  anche qui, ma a occhio è ciò che rimane nell’aria dell’antimperialismo  d’antan: il suo imprinting. Ormai morto e sepolto l’antimperialismo  classico, di cui non resta più traccia dopo il genocidio dei cinesi, dei  vietnamiti e dei cambogiani, dopo le atrocità del regime nordcoreano e  dopo la trasformazione di Cuba in un gigantesco bordello a cielo aperto  per il turismo sessuale progressista, Israele è l’ultima ridotta della  guerra all’Occidente e al Capitale. C’è qualcosa, nella perfetta  imbecillità latinoamericana o meglio planetaria, che sopravvive come un  virus alieno, mutando in nuove forme o riesumandone di vecchie in panni  soltanto leggermente rinnovati, ma sempre irriducibile a tutti gli  antibiotici. Come non si tratta esattamente di antisemitismo, non si  tratta neppure esattamente di antisionismo. Agli occhi del perfetto  idiota mediorientale, vuoi neocomunista, vuoi papista, vuoi liberale e  persino liberista, Israele non è la parola per dire «Israele» e basta. È  la parola per dire «Occidente», o «capitalismo», senza tuttavia  nominarli, per non evocare le catastrofi linguistiche e politiche del  secolo scorso, quando le sinistre facevano da curva sud alle furie e  alle arpie d’un anticapitalismo trucido e tirannofilo oggi  impresentabile. Israele, ergo l’Occidente capitalistico per intero: una  way of life intollerabile, nel migliore dei casi da «superare» e  correggere, nel peggiore da distruggere. C0me chi è stato in seminario, e  con la testa non riesce più a uscirne, il povero Vargas Llosa, Premio  Nobel 2010, continua a temere l’Ira di Dio e la stizza dei teologi.  
Diego Gabutti
Già collaboratore del Giornale (di Indro Montanelli), di Sette (Corriere della Sera), e di numerose testate giornalistiche, corsivista e commentatore di Italia Oggi,  direttore responsabile della rivista n+1 e, tra i suoi libri:  "Un’avventura di Amedeo Bordiga" (Longanesi,1982), "C’era una volta in  America, un saggio-intervista-romanzo sul cinema di Sergio Leone"  (Rizzoli, 1984, e Milieu, 2015); "Millennium. Da Erik il Rosso al  cyberspazio. Avventure filosofiche e letterarie degli ultimi dieci  secoli" (Rubbettino, 2003). "Cospiratori e poeti, dalla Comune di Parigi  al Maggio'68" (2018 Neri Pozza ed.)