'Necropoli', di Vladislav Chodasevič
Commento di Diego Gabutti 

Vladislav Chodasevič, Necropoli, Adelphi ed.
 
Ai  poeti, nemici di classe dall’eloquio alato e simbolista, il bolscevismo  non fece sconti (come non ne fece a nessuno, che parlasse in rima o in  prosa). Tra loro, negli anni del «comunismo di guerra» e della NEP, ci  furono suicidi e assassinati. Ai fortunati, anche se «fortunati» è nel  loro caso una parola grossa, toccò l’esilio. Vladislav Chodasevič – di  cui Bompiani traduce una ricca raccolta poetica (Non è tempo di essere) e  Adelphi ristampa Necropoli, uno straordinario memoir – fu uno dei  profughi.  Nato a Mosca nel 1886, poeta e critico letterario, anima del  simbolismo russo insieme ad Aleksandr Blok e Andrej Belyj, a Valerij  Brjusov e Fëdor Sologub, Chodasevič lasciò la Russia sovietica nel 1922.  Emigrò insieme alla seconda moglie, Nina Berberova, grandissima  narratrice, poetessa e giornalista che, mentre la stella di Chodasevič  si spegneva lentamente, si rivelò una delle voci più eminenti  dell’emigrazione russa. Amico di Maksim Gor’kij, che al potere  bolscevico si rassegnò a poco a poco, ma che alla fine ne diventò uno  dei massimi esaltatori e corifei, Chodasevič fu a lungo suo ospite a  Sorrento, dove l’autore della Madre e dei Bassifondi, padre (per così  dire) nobile del realismo socialista in letteratura, visse fino al 1927,  quando tornò «finalmente a casa» (così s’espressero i giornali  sovietici dell’epoca) nell’URSS stalinista. 

Vladislav Chodasevič, Non è tempo di essere, Bompiani 2019
 
Chodasevič,  a differenza di Gorkij e d’altri amici comuni, non si lasciò mai  nemmeno tentare dal comunismo, di cui fu una delle innumerevoli vittime.  Spirito baudelairiano, sorta di dandy gnostico, che dalle Potenze che  governano il mondo, gli zar e i popi e i commissari del popolo,  s’aspettava sempre il peggio, sposato tre volte, Vadislav Chodasevič  aveva orecchio per la musica e per il ritmo di canti, sonetti, odi e  canzoni ma era sordo all’utopia. Sordo all’utopia, visse non di meno,  con i suoi amici di penna, con i suoi avversari politici e letterari,  con le sue spose e amanti, in un mondo a suo modo utopico: la bohème  simbolista, che prima e dopo la rivoluzione fu una sorta di provincia  segreta, abitata da soli letterati e poeti.  Intorno, mentre lui e gli  altri capi e figuranti della bohème moscovita litigavano, s’alleavano,  amoreggiavano e si sposavano tra loro, mentre nascevano riviste e  c’erano scissioni, la Russia era in fiamme: prima la rivoluzione del  1905, quindi la guerra planetaria, infine Febbraio e Ottobre. Per un po’  la colonia occulta dei poeti russi, come le terre dimenticate dal tempo  nei romanzi d’avventura, sembrò poter scampare all’universale  catastrofe, ma la guerra e la rivoluzione dilagarono ovunque, anche nei  ranghi della poesia, dove furono erette barricate e scavate trincee,  speculari a quelle del mondo reale. Chodasevič, quando la polvere delle  guerre e delle rivoluzioni sembrò posarsi, raccontò le storie degli  altri poeti e scrittori, che come lui eran o stati travolti dalla Storia  (una Storia maiuscola e armata fino ai denti). Alle avventure e  sventure di Nikolaj Gumilëv e di Michail Geršenszon, di Fëdor Sologub,  di Samuel Kissin in arte Mumi e di Sergej Esenin, di Gor’kij e degli  altri abitanti della Russia letteraria, dedicò Necropoli, un grande  libro, leggero e terribile insieme, che nel 1939, l’anno della sua morte  a Parigi, raccolse vari saggi e articoli da lui pubblicati in esilio  sui giornali dell’emigrazione. Affinché si abbia un’idea del perché la  Russia diventò un grande cimitero, e come accadde che il milieu dei  poeti si mutò in una città dei morti pesco a caso un aneddoto da  Necropoli: «Nella primavera del 1918 Aleksej Tolstoj [futuro Premio  Stalin] ebbe l’idea di festeggiare il proprio onomastico. Invitò tutta  la Mosca letteraria: “Venite, e portate chi volete”. Si riunirono una  quarantina di persone, se non di più. Venne anche Esenin. Portò un tipo  bruno, barbuto, in giacca di cuoio. Il tipo bruno stava ad ascoltare gli  altri che conversavano. Ogni tanto insinuava qualche parolina, e niente  affatto sciocca. Era Bljumkin, quello che tre mesi dopo avrebbe ucciso  l’ambasciatore tedesco, il conte Mirbach. Esenin, evidentemente, era suo  amico. Tra gli ospiti c’era la poetessa K. La donna piacque a Esenin.  Cominciò a farle la corte. Per pavoneggiarsi le propose con semplicità:  “Volete vedere una fucilazione? Posso organizzare tutto in un minuto  tramite Bljumkin”».
Diego Gabutti
Già collaboratore del Giornale (di Indro Montanelli), di Sette (Corriere della Sera), e di numerose testate giornalistiche, corsivista e commentatore di Italia Oggi,    direttore responsabile della rivista n+1 e, tra i suoi libri:    "Un’avventura di Amedeo Bordiga" (Longanesi,1982), "C’era una volta in    America, un saggio-intervista-romanzo sul cinema di Sergio Leone"    (Rizzoli, 1984, e Milieu, 2015); "Millennium. Da Erik il Rosso al    cyberspazio. Avventure filosofiche e letterarie degli ultimi dieci    secoli" (Rubbettino, 2003). "Cospiratori e poeti, dalla Comune di Parigi    al Maggio'68" (2018 Neri Pozza ed.)