'I dimenticati. Storia degli americani che credettero in Stalin', di Tim Tzouliadis
Commento di Diego Gabutti 
La copertina (Longanesi ed.) 
Non sembra di leggere un libro di storia ma un’ucronia, le cronache d’un universo parallelo: I dimenticati. Storia degli americani che credettero in Stalin  di Tim Tzouliadis (Longanesi, Milano 2011) somiglia più alla Svastica  sul sole (The Man in the High Castle) di Philip K. Dick, il classico  romanzo di fantascienza in cui si descrive un mondo in cui gli  hitleriani hanno vinto la guerra, che alle normali storie della  rivoluzione russa, dove a prendere il potere a San Pietroburgo e Mosca  non sono i liberali, che hanno rovesciato lo zarismo a febbraio, e  nemmeno i soviet, ma i bolscevichi, che in ottobre liquidano la giovane  democrazia russa con un colpo di stato e i plotoni d’esecuzione. (Anche  questa, a pensarci, ha l’aria di un’ucronia, ma purtroppo no, è successo  davvero). Al centro dei Dimenticati, ci sono le storie d’operai e tecnici  americani che, dopo essersi convertiti al comunismo, raggiungono il  paradiso dei lavoratori insieme alle loro famiglie per votarsi alla  realizzazione del primo piano quinquennale. Ci sono le sventure dei  lavoratori disoccupati e dei contadini espropriati dalle banche (i  personaggi di The Grapes of Wrath, da noi Furore, il grande romanzo di  John Steinbeck sulla Depressione e sulle dust bowl, le tempeste di  polvere) che non cercano lavoro in California, come Tom Joad e la sua  famiglia, ma nelle remote steppe sovietiche. C’è la catastrofica scelta  di campo dei proletari e degli specialisti che lasciano la Ford di  Detroit per gli stabilimenti Ford di Nižnij Novgorod, all’epoca  ribattezzata Gor’kij in onore del romanziere bolscevico. A questi  s’aggiungono, più tardi, i prigionieri di guerra americani (stiamo  parlando della seconda guerra mondiale, quando USA e URSS sono alleati)  trasferiti in segreto dai campi di prigionia tedeschi ai campi  sovietici. Più tardi ancora, ci sono le storie di cappa e spada dei  soldati americani catturati in Corea nei primi cinquanta oppure rapiti  qua e là in Asia e in Europa per strappar loro informazioni militari. Quella degli yankee in URSS è una grande, terribile epopea, che  Tzouliadis fa iniziare a Mosca, nel 1934, «con le foto in bianco e nero  d’una squadra di baseball. Due file di giovanotti sono in posa davanti  all’obiettivo: in una sono in piedi, nell’altra accovacciati con le  braccia sulle spalle dei compagni accanto. Hanno tutti all’incirca  vent’anni, sprizzano salute e hanno l’aria d’essere ottimi amici.  Provengono da comuni famiglie operaie d’ogni angolo d’America. Fermi in  attesa sotto il sole, sembrano normalissimi giocatori d’una normale  squadra di baseball, salvo naturalmente per le scritte in russo sulle  maglie».  A tutti è stato ritirato il passaporto, e presto saranno tutti  dichiarati cittadini sovietici d’autorità. I dimenticati segue alcuni di  questi giocatori di baseball (nonché i loro figli e nipoti) fin dentro  gl’inferni del XX secolo: le miniere d’oro della Kolyma che proprio un  ingegnere americano aveva segnalato per primo ai sovietici,  l’indifferenza e la pavidità del dipartimento di stato quando gli esuli  si rivolgono all’ambasciata supplicando di poter tornare a casa, quindi  la caduta nei gironi più terrificanti del Gulag e poi il freddo, le  torture, la fame, l’odio, gli stupri, la morte, la pazzia. E per alcuni,  miracolosamente scampati, il ritorno a casa, trenta e persino  quarant’anni dopo. Un ritorno senza fanfare: il racconto della loro  tragedia non interessa nessuno – le eccessive cortesie che  l’amministrazione Roosevelt, pesantemente infiltrata dai comunisti,  aveva riservato al Padre dei popoli, per arruffianarselo, sono un  argomento poco gradito a Washington. E poi la maggior parte di questi  emigrati ideologici, quando lasciarono «Detroit, Boston, New York, il  Midwest, San Francisco» per l’Unione Sovietica di Stalin e Beria, erano  marxleninisti convinti, vero o no? Causa del proprio mal, piangano se  stessi, si autoassolvono le autorità. Sembra una storia inventata da qualche sceneggiatore hollywoodiano.  Invece I dimenticati è la storia fin troppo reale dei comunisti  americani che si tirarono addosso un destino da Ivan Denisovič (vale a  dire da horror film) nei campi di lavoro sovietici. Un libro esemplare,  oltre che un libro a suo modo fantastico, come le ucronie di cui  dicevamo all’inizio. Stupefacenti, poi, le pagine finali, quando i pochi  superstiti rientrano in America dal loro viaggio nel tempo e si  guardano intorno stupefatti, come i piloti rapiti dagli alieni che alla  fine d’Incontri ravvicinati del terzo tipo scendono dalla passerella del  grande Ufo sospeso come un’immane lampada cinese sopra la bocca del  vulcano spento. 
Diego Gabutti
Già collaboratore del Giornale (di Indro Montanelli), di Sette (Corriere della Sera), e di numerose testate giornalistiche, corsivista e commentatore di Italia Oggi,  direttore responsabile della rivista n+1 e, tra i suoi libri:  "Un’avventura di Amedeo Bordiga" (Longanesi,1982), "C’era una volta in  America, un saggio-intervista-romanzo sul cinema di Sergio Leone"  (Rizzoli, 1984, e Milieu, 2015); "Millennium. Da Erik il Rosso al  cyberspazio. Avventure filosofiche e letterarie degli ultimi dieci  secoli" (Rubbettino, 2003). "Cospiratori e poeti, dalla Comune di Parigi  al Maggio'68" (2018 Neri Pozza ed.)