Dai gialloverdi ai giallorossi: la politica italiana 'Attraverso lo specchio'
Analisi di Diego Gabutti 

Nicola Zingaretti con Luigi Di Maio 
 Strano caso. Abbiamo un governo che piace all’Europa, o almeno ai suoi  maggiori, ma che piace poco agl’italiani, o almeno a quell’italiano su  due che s’ostina a votare. Che fare? Dobbiamo proprio tenercelo? Ma  soprattutto: durerà a lungo? Be’, quanto a questo, niente paura: durerà  poco. È matematico. Ormai le egemonie politiche, per chiamarle così,  finiscono prima ancora di cominciare. Se la Democrazia cristiana è  durata quarant’anni, Berlusconi una ventina, Prodi quattro anni in due  riprese, Matteo Renzi meno di tre e Capitan Salvini una quindicina di  mesi, quanto volete che duri il governo giallorosso? Ben che gli vada,  ha le settimane, se non le ore, contate. A destra, passata la tempesta, ci si guarda intorno smarriti. Ma come?  Cos’è stato? Un momento fa mettevamo tutti sull’attenti con uno strillo o  un’occhiataccia e adesso non c’invitano neanche più a Piazzapulita o  all’Aria che tira! Come il gatto della canzonetta, che si morde la coda  perché non sa che la coda è sua, anche la destra di governo pensa, dopo  ogni tracollo, che la colpa delle sue disgrazie sia da attribuire ai  nemici della volontà popolare, quando invece la colpa è sempre ed  esclusivamente sua. Una volta è Lamberto Dini che vira a sinistra,  un’altra volta è Berlusconi che tira fuori (dall’armadio, dov’era  nascosta, con le mutandine di pizzo e le scarpette modello Chanel in  mano) la nipote di Mubarak, un’altra volta ancora è Gianfranco Fini che  tenta di sgambettare il Cavaliere e oggi è Salvini che prima provoca la  crisi di governo, deciso a capitalizzare i consensi delle elezioni  europee, e poi si chiede perché il governo non ci sia più («bambina mia,  papà non è più ministro») e perché anche i consensi, pian piano,  comincino a dileguarsi. Non c’entrano i suoi nemici: è che la destra,  per sua natura, è incline agl’incidenti, raramente mortali, ma sempre  invalidanti. Allungatele un martello, e la destra se lo pesterà  infallibilmente su un dito, come nelle comiche di Stanlio e Ollio. E ogni volta a sinistra si esulta. Tarantelle, triccheballacche,  ribaltoni. Soprattutto ribaltoni. A sinistra, infatti, quando si esulta  non si esulta mai dei propri trionfi ma sempre e soltanto delle  disgrazie altrui. In mancanza del necessario consenso, che agli ex  democristiani di sinistra e agli ex comunisti viene sistematicamente  negato dagli elettori, sono le altrui sventure (spread alle stelle,  serate eleganti, case di Montecarlo) l’unica e sola via d’accesso al  governo del paese. È questo che s’insegna nelle scuole di partito della  sinistra italiana fin dai tempi di Lenin a Capri: seduti e popcorn,  compagni, che la destra prima o poi finirà per inciampare nelle stringhe  delle proprie scarpe. È una strategia infallibile, come ha dimostrato  anche Matteo Renzi, risorto dalle proprie ceneri, nelle ultime  settimane. Uscito dalla porta delle ultime elezioni, il partito  democratico è rientrato con un alè op dalla finestra dello svarione  salviniano. 

Giuseppe Conte 
È  così che va ogni volta, e tanto vale rassegnarsi. Gl’italiani, che la  sera di Ferragosto erano andati a dormire, dopo l’ultima edizione del  tiggì, sotto il tallone di ferro della Lega nazionale, si sono svegliati  il mattino seguente con Nicola Zingaretti che sorrideva da un orecchio  all’altro e Giuseppe Conte (ex premier d’un governo mai così «de  destra») gran ciambellano del governo più «de sinistra» della storia  repubblicana. Qualcuno, convinto d’averla scampata per un pelo, si rallegra perché  «l’Europa, l’Europa», che a Salvini non avrebbe condonato uno zero  virgola di deficit, sarà di gran lunga più magnanima con un esecutivo  progressista. Vero (anche se, temo, non verissimo). Attenzione, però, a  rallegrarsi troppo. Guardiamoci intorno. Chi ieri tifava per Salvini era  più un nemico dei «negher» che un fan del Capitano. E oggi? Oggi chi  esulta per l’inguacchio di governo tra la Casaleggio Associati e il PD  non tifa né per l’una né per l’altro ma si compiace della débâcle di  Matteo Salvini. Questi è diventato il «negher» della sinistra:  abbandonato su un barcone in alto mare (il sole a picco, niente più  Nutella) e giù multe a chi si prova a soccorrerlo. Se non abbiamo più un  ministro degl’interni in brachette da bagno, che mangia arancini e fa  l’occhio di triglia alle cubiste sculettanti, ci è toccato in compenso  un ministro degli esteri, già ministro del lavoro, convinto che la  Russia sia un paese mediterraneo e incapace di distinguere il Cile dal  Venezuela.  Cos’è cambiato? Niente, o ben poco. C’è persino Renzi che benedice  dall’alto la nuova maggioranza e invita tutti a stare sereni. Morale:  chi gioisce, nell’illusione che il peggio sia passato, ancora non ha  capito che per evitare di cadere, come Alice, nella tana del  Bianconiglio gialloverde, dove ci aspettava (minimo) una Finanziaria del  Cappellaio Matto, l’Italia intera si è tuffata Attraverso lo Specchio  giallorosso, incontro a una partita di scacchi da incubo. 

Diego Gabutti
Già collaboratore del Giornale (di Indro Montanelli), di Sette (Corriere della Sera), e di numerose testate giornalistiche, corsivista e commentatore di Italia Oggi,     direttore responsabile della rivista n+1 e, tra i suoi libri:     "Un’avventura di Amedeo Bordiga" (Longanesi,1982), "C’era una volta in     America, un saggio-intervista-romanzo sul cinema di Sergio Leone"     (Rizzoli, 1984, e Milieu, 2015); "Millennium. Da Erik il Rosso al     cyberspazio. Avventure filosofiche e letterarie degli ultimi dieci     secoli" (Rubbettino, 2003). "Cospiratori e poeti, dalla Comune di Parigi     al Maggio'68" (2018 Neri Pozza ed.)